Il Dritto di Chicago prende il tram

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Foto J. B. Hunter

Nessuno di noi, almeno dopo un secolo e mezzo di ragionamenti sul tema, concepirebbe mai un edificio a moltissimi piani come la sovrapposizione di tanti edifici a un piano. Solo un demente infatti si potrebbe immaginare una cosa enorme come le Petronas Tower o Burj Khalifa in termini diversi dall’organismo unitario che sono, e non certo la composizione meccanica di un piano sopra l’altro. Già all’alba del XX secolo le riflessioni di Edgar Chambless per la sua utopica Roadtown o città lineare ferroviaria, lo portavano ad estendere il concetto anche agli sviluppi orizzontali dell’insediamento: se dentro a un grattacielo fra ascensori, tubi, impianti e reti varie, riusciamo a concepire un organismo unitario tecnicamente così efficiente e integrato, perché non dovremmo «ribaltando il metodo» a 90° distenderlo in forma di rapporto fra a città e la regione dentro cui si colloca? Ci ritroveremmo così a poter godere al tempo stesso di tutti i vantaggi della modernità e del progresso, e di quelli di un rapporto diretto con gli spazi aperti di prossimità, garantiti proprio dall’uso più efficiente possibile delle superfici urbanizzate, raccolte attorno ai propri impianti. Come spesso accade alle riflessioni utopiche, specie a quelle con forti sbilanciamenti verso una razionalità settoriale come Roadtown, anche la città ferroviaria lineare non aveva fatto i conti con quella cosa che vediamo spesso nei vecchi film western, e che si chiama speculazione sui terreni attorno alle stazioni.

C’era una volta il tram

Nei film, c’è il capitalista che compra i terreni, magari minacciando i piccoli proprietari, attorno all’area in cui sa (solo lui sa, da informazioni riservate) che sorgerà lo scalo ferroviario. Area su cui presto dovranno sorgere alberghi, residenze di pregio, servizi e palazzi pubblici, e i cui valori sono quindi destinati a schizzare alle stelle. Nella realtà le cose ogni tanto vanno in modo simile, altre volte no. C’è il caso della prima Città Giardino, inventata come speculazione ferroviaria negli anni ’70 del XIX secolo dallo stesso proprietario delle azioni della ferrovia, il re dei grandi magazzini Alexander Stewart. E poi c’è il caso novecentesco di Metroland, la compagnia messa in piedi dalla metropolitana londinese che realizzava lucrandoci del sobborghi tranviari serviti dalle sue linee, in pratica facendo tutto: acquisto terreni, realizzazione delle opere infrastrutturali, lottizzazione e costruzione. Ma ci sono poi altre distorsioni e diseconomie che si mescolano a queste pratiche tutto sommato dotate di logica, e discendono da quell’idea successiva di mobilità slegata dai binari, e indotta dall’automobile, su cui si forma gran parte della disciplina urbanistica per zone omogenee a tutelare i valori di mercato. Il treno, il tram, le stazioni, diventano così una variabile dipendente tra le altre, scaraventata dentro un melting pot territoriale dominato dai veicoli privati e da indifferenza localizzativa.

Ritorno all’ordine?

Accade però che questa indifferenza localizzativa abbia finito per fare parecchi guai, nonostante i vari tentativi dell’urbanistica di mettere qualche ordine. Non solo lo sprawl suburbano, su cui per il momento non è il caso di soffermarsi, ma anche molte parti dei nuclei centrali storicamente cresciuti nel segno del trasporto su rotaia hanno finito per esplodere in una serie di contraddizioni assai difficili da ricomporre, prima fra tutte la sconnessione tra la logica dei trasporti e quella dello sviluppo edilizio, a cui si è aggiunto lo standard obbligatorio a parcheggi. Solo in tempi piuttosto recenti ha iniziato a imporsi il nuovo concetto di transit-oriented-development, ovvero di quartiere della stazione post-moderno, che al suo antenato spontaneo di era automobilistica unisce non solo la logica di piano e programma, ma anche la nuova focalizzazione attorno ai tempi della composizione funzionale, sociale, per fasce di reddito e tipologie spaziali. E forse non è solo un caso se una delle esperienze più interessanti di questo nuovo «ribaltamento in orizzontale del grattacielo» si trova a Chicago, dove il grattacielo moderno e organico fu inventato nella seconda metà del XIX secolo. Oggi l’associazione volontaria del Metropolitan Planning Council prova a rilanciare lo spirito originario del TOD, ovvero di versione post-moderna dell’unità di vicinato, promuovendo incentivi fiscali e norme urbanistiche adeguati. Perché oggi, spesso, sono proprio i piani regolatori a impedire che nei nodi attorno alle stazioni si possa formare quel nucleo ad elevata densità che ne costituisce il senso. Bassa densità che poi, a volte, si traduce anche in elevatissimi valori immobiliari ed esclusione di fasce sociali a reddito non alto. Insomma sono parecchi gli ostacoli da rimuovere perché il «grattacielo orizzontale» sognato un secolo fa possa dispiegarsi davvero al meglio. Ma bisogna provare e riprovare: non come quei tizi che continuano imperterriti a proporre stazioncine suburbane con un parcheggio attorno, salvo poi lamentare gli elevati costi collettivi del trasporto su rotaia.

 

Riferimenti:

Chicago Metropolitan Planning Council, «Grow Chicago» 

Edgar Chambless, Roadtown (1910), estratti in italiano

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