Ci sono presenze animali che per un motivo o per l’altro ci innervosiscono, ci mettono a disagio, a volte ci fanno anche un po’ schifo. Roba che svolazza, striscia, sgattaiola furtiva in ambienti che frequentiamo o che ci capita di frequentare saltuariamente. Esiste però, volendo, un modo per provare a superare almeno il peggio di questo disagio, e ricondurlo a livelli più ragionevoli, diciamo al di sopra del panico irrazionale, ed è quello di considerarli parte inestricabile dell’ambiente, certe volte addirittura segnale di ottima salute, acqua meno inquinata, frutti commestibili eccetera. Ovvero, detto in altre parole, e visto che stiamo per forza sulla stessa barca, l’unica idea davvero equilibrata e non preconcetta che possiamo farci di questi coinquilini, è quella molto terra terra della loro effettiva eventuale nocività, o pericolo concreto: la zanzara o altro insetto che punge, i topi che possono far danni in casa o in cantina, altri parassiti vari sicuro sintomo di qualcosa che non va. Sembra, questa, una buona metafora e spaccato della distinzione generale fra sicurezza vera e sicurezza percepita, cose che in ambienti complessi dipendono entrambe da una quantità di fattori enorme, ma iniziano ad avvicinarsi l’una all’altra man mano ci allontaniamo dall’ignoranza di questi ambienti.
Sicuri di che cosa?
Quello degli animali è ovviamente solo un piccolo esempio degli infiniti fattori che compongono la cosiddetta sicurezza urbana, ovvero il miscuglio (certamente a suo modo inestricabile) fra benessere soggettivo, individuale, collettivo, e qualcosa che definiamo qualità diffusa. Ad esempio, cosa sceglieremmo, se messi esplicitamente e chiaramente di fronte all’alternativa tra stare in un posto dove non ci sono occasioni di lavoro e reddito, e un altro che trabocca di queste occasioni, ma anche di gente che ce ne vuole fregare un pochino, di quel reddito? Si tratta, appunto, di aver chiaro il quadro, e poi naturalmente di far mente locale, gusto come davanti a zanzare e piccioni. Ci sentiamo ad esempio insicuri in una zona sconosciuta, o meglio che ci presenta elementi generali poco noti: normale diffidenza del nuovo, ma che diventa qualcos’altro se cominciamo a rimuginarci sopra senza costrutto. Facce sconosciute (e abbigliamento, o edifici, insegne, configurazioni spaziali complesse) ci possono ispirare qualche ansia, ma occorre agire urbanamente, e superare la fase soggettiva: forse il colore dei capelli o dell’intonaco, in sé e per sé, non può essere aggressivo. Non è vero neppure il contrario, se (stavolta di solito accecati da ideologie) neghiamo l’evidenza, della zanzara innocua e amica anche quando siamo cosparsi di punture infette.
Abitabilità
In pratica, l’equilibrio a cui si potrebbe/dovrebbe mirare, quello tra la famosa sicurezza percepita e quella reale, è riassumibile con quello fra adattarsi ed essere adattati. Se arrivare in città da fuori significa portarsi appresso paro paro il proprio guscio, fisico e mentale, partiamo col piede peggiore. Lo stesso ovviamente succede per altri versi agli entusiasti a prescindere, ideologicamente propensi ad aprirsi al nuovo senza tener conto dei campanellini d’allarme che suona l’istinto animale. La strada ad esempio può essere assai insicura, e in indizio tra gli altri sono le forme fisiche, o il tipo di usi, o le ore di punta e di morta. Cose che si possono imparare con l’esperienza, ma anche intuire facilmente al volo, salvo verifica. Del resto, fissare a priori un rigido codice di comportamenti e definizioni (la famosa «finestra rotta» apparentemente di buon senso) non ha mai portato da nessuna parte, salvo a spazzare polvere urbanistica e sociale sotto il tappeto. Pensiamo alle generazioni di progetti che lasciavano lo spazio pubblico in forma di tabula rasa fra un contenitore privato e l’altro, senza alcuna soluzione intermedia di continuità: gli indizi erano abbastanza chiari, ma ha prevalso l’ideologia, per lustri. Finché, invece di capire l’errore di metodo, è arrivata la reazione uguale e contraria: via tutto lo spazio pubblico, perché troppo aperto a invasioni indebite, viva la privatizzazione, che produce sicurezza. Falso anche questo, come abbiamo capito poi, ancora troppo tardi, a colpi di rivolte delle periferie: quelle razionaliste e quelle suburbane, senza distinzione.
Riferimenti:
Emine Saner, Which is the safest city in the world? The Guardian, 26 maggio 2015