Qualcuno sostiene che anche la faccenda dell’urbanizzazione del pianeta sia una specie di complotto ideologico. Cioè, per essere più precisi, non che non sia vero, il riversarsi nelle aree urbane di masse crescenti di popolazione, la maggioranza del genere umano e in aumento percentuale, ma che se ne sta enfatizzando il contenuto culturale, economico, sociale. Secondo questi critici (chiamiamoli così) anche le serie di rapporti di vari organismi internazionali, per intenderci quegli studi che hanno come tesi di fondo «nella città esiste il male ma anche la cura», enfatizzano oltre ogni misura il ruolo del contesto urbano nel promuovere migliore qualità della vita, ambiente, diritti, eguaglianza, innovazione, progresso, nonché in alcune battaglie dei nostri tempi quali la sostenibilità, il cambiamento climatico, la conversione energetica. Forse si tratta di una diffidenza in tutto o in parte derivante dall’idea corrente di contesto urbano, di certo cara a chi in fondo non è per nulla interessato a nessuno degli aspetti elencati, ma solo al proprio portafoglio: tanti economisti, tanti architetti, tanti speculatori, che gira e rigira non si allontanano di un millimetro dal concetto di calderone pietre + anime sospeso nel vuoto, che ci tiriamo appresso almeno dalla rivoluzione industriale in qua.
Urbanistica e Urbano
E di sicuro deve apparire una specie di complotto, il tentativo di promuovere come «città» cose come l’insostenibile slum globale con le sue indegne situazioni sociali e sanitarie, o lo sprawl suburbano che attorno dal mito della casetta immersa nel verde si mangia energie pompando emissioni in atmosfera, e costruendo stratificazioni economiche segregate oltre il surreale. E non è finita qui, perché anche la città cosiddetta normale non sfugge certamente all’assurdo, specie quando l’innovazione è pilotata da quel culto del libero mercato immobiliare oggi dilagante, che anche quando realizza qualità localmente lo fa per pochi, e sempre inducendo come prodotto socio-urbanistico collaterale qualche variante vuoi dello slum, vuoi dello sprawl. Pienamente giustificata quindi certa diffidenza, quella che in fondo amerebbe veder gradualmente scomparire questo primato dell’urbano, magari fisicamente sommerso dal rurale così come sognano certi nostalgici di improbabili tempi d’oro della campagna ubertosa. Mentre invece il futuro della città, o per meglio dire del contesto urbano e dell’urbanità, sarebbe un modello nuovo di insediamento ambientalmente e socialmente sostenibile, che sappia declinare in modo avanzato anche alcuni temi della campagna, primo fra tutti quello della produzione alimentare. Si dice, si ripete, si lancia e rilancia, questo slogan della «agricoltura urbana», ma appunto spesso o quasi sempre viene interpretata secondo uno dei punti di vista più o meno riassunti prima.
Una definizione da manuale
Coltivare qualcosa nell’ambiente urbano diventa così, per un nostalgico anti-città, un’arma per scardinare le fondamenta di quel luogo, per negare almeno in qualche enclave l’esistenza di spazi e relazioni che detesta. Mentre al contrario per i modernizzatori a senso unico, di solito pronti a riempirsi la bocca col malinteso concetto di vertical farm, non si esce dalla logica dell’altissima densità, e soprattutto della segregazione, col grattacielo al alta tecnologia firmato da qualche prestigioso progettista che fornisce cibi freschi e costosi a chi se li può permettere e abita nella torre accanto progettata dall’altro prestigioso progettista, e via di questo passo. Quello di cui c’è invece davvero bisogno, è un’idea di città in cui possano sul serio convivere, urbanamente parlando dal punto di vista di una sostenibile integrazione sociale, economica, funzionale, produzione di cibo con altre attività, residenziali, amministrative, direzionali, servizi e via dicendo. Ma banalmente, lo strumento attuativo di un’idea del genere, che deve essere chiarissima a tutti, condivisa, è l’antico manualetto operativo di un tradizionale piano regolatore, quello che ti spiega (a te e a chi realizza le trasformazioni) le cose passo passo. Che da bravo manuale ha le sue voci, magari banali, ma inequivocabili, secondo cui agricoltura urbana è questo e non altro, un orto è diverso da un campo, ed è diverso ancora se ha funzioni sociali e non solo economiche, e a sua volta si distingue da un orto sul tetto in questo e quell’aspetto. Il trionfo del geometra, nel vero senso della parola, e finalmente!
Riferimenti:
Andrea Vaage, Gary Taylor, Municipal Zoning for Local Foods in Iowa, Iowa State University, 2015 (scarica direttamente il pdf dal sito universitario)