Certe zone semirurali evocano ancora aromi di latte, lontane fattorie, la linee curve delle alture che caratterizzano i paesaggi e segnano i margini dell’area coltivata più intensamente, e così è anche come le percepiscono abitanti e visitatori. Invece nella situazione attuale, pur con le a volte bassissime densità edificate, i caratteri dominanti sono di fatto quasi identici a quello metropolitano: nelle abitudini dei tempi, nell’uso degli spazi, e soprattutto nella mobilità automobilistica che tutto domina. E per esempio succede che nell’usuale trambusto dei veicoli carico-scarico bambini davanti alle scuole, qualcuno dei piccoli finisca sotto le ruote di un’auto. Tutti naturalmente sconvolti, a «chiedersi il perché», con magari in testa gli amministratori locali.
Probabilmente tutti inconsapevoli di una questione che potremmo riassumere così: che ci fanno tutte quelle macchine davanti agli edifici scolastici? Ci fanno quello che vediamo ogni giorno senza farci troppo caso, ovvero un guazzabuglio indecente, in cui si mescolano tutti i peggiori tic della nostra convivenza sociale quando non siamo regolamentati da qualcosa di insito o di esterno. Ed è qui che torna in ballo la pubblica amministrazione, che oltre a «chiedersi il perché» sarebbe anche quella che poi prova a dare delle risposte. Torna in ballo, anche uno dei feticci della nostra epoca, tanto decantato nelle campagne elettorali quanto ignorato nella pratica: il cosiddetto quartiere a misura d’uomo.
Curioso, che tra i non moltissimi pilastri su cui si regge l’urbanistica moderna, ci sia proprio questo dell’elemento costitutivo base della città. Che nasce in forma spontanea quando Raymond Unwin, davanti alle leggendarie calamite dello stenografo di tribunale Ebenezer Howard diventato alfiere di riforma socio-spaziale, si pone una questione: come unire lo spazio del villaggio rurale tradizionale, dell’aia diremmo magari noi, o comunque la piccola piazza del centro minore, ai servizi e aspettative di una società tendenzialmente metropolitana? Anche sulla base delle sue riflessioni, una piccola manciata di anni dopo, Frederick Law Olmsted Jr. prova a interpretare in un altro contesto il medesimo tema nel suburbio sperimentale di Forest Hills Gardens, e in uno di quei villini immersi nel verde, ma organizzati per gruppi attorno a spazi comuni, si trasferisce la famiglia del giovane Clarence Perry.
Cresciuto e diventato noto ricercatore sociale, Perry non si scorda i tanti spunti positivi dell’adolescenza in quel quartiere appunto a misura d’uomo, e per conto della Russel Sage Foundation (la stessa che aveva costruito Forest Hills Gardens) darà forma compiuta alla formula della neighborhood unit, o quartiere autosufficiente: numero di abitanti, servizi essenziali, organizzazione spaziale, e soprattutto rapporti organici con la città di cui dovrebbe essere la componente base. Ma è accaduto qualcosa di sostanziale, fra le prime riflessioni dei socialisti fabiani britannici sulla comunità di quartiere e quelle più mature del ricercatore newyorkese. È successo che tale Henry Ford abbia cominciato a invadere il mondo con la sua vetturetta a motore di massa, mezzo di spostamento comodo, veloce, ma anche da trattare con tutte le cautele: una tonnellata di lamiera è sempre pericolosa, si sa.
Il quartiere autosufficiente, come si capisce benissimo leggendo la relazione di Clarence Perry allegata al Regional Plan di New York, dal punto di vista socio-spaziale ha due elementi portanti irrinunciabili, il rapporto con la rete della mobilità e quello coi servizi. Il resto, tutto il resto, viene poi. I margini del quartiere sono, appunto, segnati dagli assi di mobilità, quelli pensati espressamente per le automobili, o adattati ad esse dai grandi viali ottocenteschi. Il centro del quartiere è un nucleo di servizi dominato dalla scuola dell’obbligo. Questo rapporto fra centro e margini, fra scuola e automobile potremmo anche dire, determina tutto il resto, è una invariante. I margini non possono essere troppo lontani dal centro, perché un bambino deve poter andare a scuola a piedi, e un abitante magari a far spesa nel negozietto affacciato sul medesimo slargo della scuola. Perché il bambino possa andare a piedi in tutta sicurezza, magari anche da solo se è cresciutello, non ci devono essere rischi, a partire appunto da quelle tonnellate di lamiera che si aggirano in città. A tenerle lontane non ci pensa un poliziotto, un anziano volontario, un ausiliario della sosta, ma la forma stessa del quartiere.
Del resto, che senso ha raggiungere un luogo come la scuola materna o dell’obbligo, un servizio eminentemente locale, di piccola scala e raggio, con un mezzo di trasporto progettato per distanze medio-lunghe come l’automobile? Perché, questo lo capiscono benissimo tutti i progettisti appena si pongono il problema, dare spazio all’automobile significa togliere spazio a tutto il resto. È il modello della neighborhood unit ad essersi affermato in quasi tutto il mondo quando si tratta di calcolare certi rapporti fra abitazioni e servizi, come nei complessi di case popolari, o in forma più compiuta nelle new town britanniche del secondo dopoguerra. Ma uno degli assunti irrinunciabili, ovvero quello della pedonalità come base della socialità nella sicurezza, oltre che elemento distintivo dello spazio del quartiere parzialmente autosufficiente dal resto della città, è andato via via scemando, di fronte a discutibilissime soluzioni a carattere ingegneristico e norme sugli standard, dei parcheggi per esempio.
Così invece di spazi pedonali, o condivisi ma ad elevata prevalenza di orientamento pedonale e ciclabile, si sono spesso sostituite soluzioni «tecniche» come separazione, sovra o sottopassi, semaforizzazioni, corsie riservate. E fuori dai sistemi urbani centrali, succede anche di peggio: le automobili hanno colonizzato preventivamente lo spazio suburbano-rurale, dove di fatto gli edifici (è quasi impossibile parlare davvero di quartieri in senso proprio) si posano dentro una griglia in tutto e per tutto stradale, al massimo attenuata localmente dalla classica organizzazione a cul-de-sac. E nello stesso modo in cui in queste strade a fondo cieco con inversione di marcia abbondano gli incidenti in area industriale, fra mezzi pesanti o muletti da carico, sono ovviamente a rischio anche tutti gli altri spazi di manovra, inclusi gli accessi alle scuole da cui era partito tutto. Che il sistema originario sia stato totalmente dimenticato, travolto dall’ignoranza forse incolpevole, salta all’occhio nei piani di riqualificazione di tanti quartieri di case economiche, dove proprio l’impianto sostanzialmente pedonale viene cancellato o fortemente ridimensionato senza pensarci troppo su, tra parcheggi, assi di attraversamento e raccordi.
Anche nei progetti migliori il rapporto con le quattro ruote (complici norme e adeguamenti alla domanda) viene gestito con strumenti diversi dall’organizzazione generale, come sensi unici, o barriere, o proprio nulla di speciale. Figuriamoci nei centri minori e aree semirurali, dove anche gli interventi di case economiche non hanno mai raggiunto la massa critica sufficiente a definire un quartiere, e quelli privati spesso ostentano orgogliosamente la totale assenza di spazio pubblico, marciapiedi, percorsi ciclabili ecc. Proviamo allora a ripetere la domanda iniziale: incidente, fatalità? I responsabili scolastici e amministrativi che si stracciano le vesti disperati, e gli stessi genitori delle vittime, commossi ma saldamente col volante in pugno dal cancelletto di casa a quello della scuola, forse dovrebbero riflettere un po’. E noi con loro.