Ci sono sempre almeno tre prospettive in cui inquadrare un fenomeno: gli aspetti positivi e di progresso, gli aspetti negativi e potenzialmente regressivi, quanto ne risulta in realtà facendo una sintesi dinamica dei due estremi. Ovviamente, se il metodo dialettico pare piuttosto oggettivo in quanto tale, il giudizio di sintesi non può che essere influenzato (anzi lo deve, essere) dalle premesse dell’osservatore, pur senza perdersi per strada l’analisi di quei vari aspetti. Prendiamo il recente fenomeno di diffusione e gran moda mediatica del co-housing, e proviamo ad esaminarlo con questo metodo. In forme diverse e variabili, ma sempre con criteri molto simili, sempre più singoli e famiglie decidono di investire i propri risparmi e un po’ del proprio impegno relazionale, in quello specifico prodotto immobiliare e processo gestionale dell’abitazione, che mette in comune locali, verde, servizi, ampi ambienti «condominiali», prevedendo forme di cogestione e vera e propria coabitazione davvero inediti, almeno nella città industriale moderna, e che forse trovano qualche corrispettivo parziale nel modello rurale della corte, anche se là si tratta di un riferimento sociale particolare, di famiglia allargata e non di gruppi distinti e autonomi. Col co-housing si evitano per esempio di investire soldi nel puro possesso di qualcosa che si usa pochissimo (la stanza degli ospiti, o il salone delle feste, o l’angolo barbecue eccetera), e si evitano anche quelle forme puramente contabili e un po’ autoritarie di amministrazione condominiale, dove tutto pare funzionare secondo una logica di pura efficienza finanziaria, senza alcun riferimento davvero organico alla qualità dell’abitare.
Prospettiva di destra, prospettiva di sinistra
Fin qui una lettura sostanzialmente conservatrice, anche se a molti sarà sembrata o neutra o addirittura «di sinistra». Si tratta di una lettura conservatrice, perché parte dal presupposto da cui in sostanza deriva il successo e la diffusione del co-housing (anche nelle varianti dei neo-studentati per giovani professionisti senza famiglia nelle downtown terziarie delle nuove professioni): c’è un mercato immobiliare che, partendo in sostanza dal modello privatistico estremo della casetta unifamiliare con giardino, o se vogliamo del suo corrispettivo urbano organizzato in verticale del condominio a pianerottoli, delle offre alternative certo di trovare ampia clientela interessata alla convenienza. In sostanza la leva sembrerebbe del tutto analoga a quella di quanto oggi viene abbastanza impropriamente definita sharing economy, dalle auto urbane, alle biciclette, all’accoglienza domestico-alberghiera e via dicendo. La lettura che possiamo definire progressista del fenomeno, pur inquadrando le medesime caratteristiche, prova a dedurne elementi diversi, a partire dalla domanda che esprimono, probabilmente anzi sicuramente molto più complessa del puro rapporto costi-benefici. Il nuovo modello abitativo, di fatto, esprime una sorta di bisogno di quartiere, di spazi urbani pubblici e a funzioni miste, là dove per generazioni si è proceduto da un lato a segregare invece usi e tipologie, dall’altro a obliterare via via ogni forma di ambiente pubblico-collettivo a favore dell’unico interfaccia tra gli ambienti diversi: l’auto privata.
Abitare non è solo dormire e consumare
C’è una recente piccola ricerca americana che prova ad affiancare zoning e sviluppo di imprese innovative, a partire da una constatazione molto empirica: una grande quota di grandi aziende attualmente dominanti nel mercato mondiale (Apple in testa) vedono la propria origine nei garage, e più in generale in quell’area grigia della semi-legalità che consiste nell’improvvisare un laboratorio domestico, nel seminterrato o in altri locali. A seconda degli strumenti urbanistici, ma quasi sempre con notevole rigidità, esistono infatti enormi limitazioni a questo tipo di iniziative, che appunto o sono costrette a operare in nero, oppure a non nascere affatto, quando riesce impossibile trovare collocazioni legali economicamente e logisticamente accessibili. Una lettura in prospettiva, ci dice molto chiaramente che anche in questo caso, come in quello del co-housing, alla radice di tutto c’è un’organizzazione meccanica ed esclusiva delle destinazioni spaziali consentite, prima fra tutte l’idea che un «quartiere residenziale» debba essere rigorosamente tale, escludendo qualunque tipologia diversa dagli alloggi per famiglie, e qualunque attività non consista nell’alloggiare. Alla considerazione sulla nascita delle imprese innovative in garage, oggi al bisogno di spazi urbani diversi e meno compartimentalizzati, si aggiunge – vista da «destra» ovvero in termini di puro mercato – l’evoluzione del modello self-storage in forme molto lontane dall’originario piccolo o medio contenitore in affitto per carabattole domestiche, traslochi, scorte industriali o artigianali per cui non si trova altra collocazione provvisoria. Così come il condominio nella logica della condivisione si fa più simile a una sorta di quartiere mixed-use con spazi pubblici, allo stesso modo il self-storage aggiunge servizi e possibilità fino ad assomigliare parecchio ad uno spazio di co-working. E concettualmente, se sommiamo abitare, lavorare, socializzare, caduta delle barriere temporali tra i vari momenti della giornata e dell’impegno, comprendiamo quanto questi due indizi complementari accennati, indichino potenziali innovazioni anche radicali nelle forme urbane.
Riferimenti:
– Nicholas Köhler, How the self-storage business is evolving for Canada’s urban future, Canadian Business, 24 luglio 2017
– Olivia Gonzalez, Nolan Gray, How Planners Can Liberate the Next Amazon, Planetizen, 20 luglio 2017