Il mercato, il metro cubo, la vita

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Foto F. Bottini

Leggo giusto adesso un breve ma assai denso articolo su una questione di trasformazioni urbane/urbanistiche, il cui tema è quasi classicamente «possiamo sostenere come quartiere tutto questo carico?». Una domanda che continuamente e correttamente ci si pone di fronte a qualunque mutamento di equilibri urbani, e che forse oggi assume maggior valore anche oltre una prospettiva puramente locale. Perché un tempo l’urbanizzazione, o se vogliamo chiamarla con quel termine dispregiativo in voga la cementificazione, l’asfaltatura, la sostituzione di edifici a spazio aperto, era considerata comunque un destino, e un destino tutto sommato auspicabile. La città era il futuro, era la ricchezza, il dinamismo, il benessere, un luogo certamente migliorabile ma inevitabilmente artificioso, meccanico, coi suoi «costi del progresso» da pagare in anticipo. Erano gli orizzonti urbano-industriali, quelli della crescita materiale continua cosiddetta brick & mortar in cui valore e immediata tangibilità andavano a braccetto, e c’era pure quel proverbio francese condiviso, «quand le bâtiment va, tout va». Poi si è iniziato a intuire che si erano lasciati un po’ troppi fattori fuori dall’equazione, e i conti non tornavano più. E non solo a livello di quartiere, ovviamente.

Valori d’uso, valori di scambio

Il fatto che l’edilizia, l’urbanizzazione hard, sia ricchezza a prescindere, spesso si giustifica almeno col classico «così vuole il mercato», ma la realtà tangibile degli effetti dell’ultima crisi sono sotto gli occhi di tutti, e inducono certe riflessioni anche da quel punto di vista. Perché ci sono trasformazioni, infinite, trasformazioni, restate sulla carta dato che il magico mercato (quello che dovrebbe sempre far coincidere domanda e offerta) se ne era andato per fatti propri a girellare altrove. Cantieri artificiosamente aperti per motivi burocratico-speculativi, e lasciati lì a fare orrenda mostra di sé, semplici recinzioni eterne che trasformano spazi pur provvisoriamente liberi in orrende sacche di degrado, costruzioni e urbanizzazioni tecnicamente terminate, ma prive di acquirenti, utenti, e di senso compiuto. Cosa che vale sia per gli spazi di espansione detti greenfield, sia per gli ambiti di trasformazione propriamente urbani denominati, brownfield, ex industriali, o di densificazione residenziale, o di riuso e riqualificazione. Certo, anche le organizzazioni internazionali e i grandi movimenti ambientalisti ci avvertono che il futuro dell’essere umano è la città, ma a maggior ragione aggiungono non si possa trattare della distesa di costruzioni e parcheggi che siamo abituati a considerare tale, avviata implacabilmente verso gli orizzonti di nuove frontiere.

Se è tutto città, niente è più città

Come avevano intuito i nostri progenitori già nell’era matura del trionfo delle ciminiere, quando le oggi declinanti automobili non avevano ancora sconvolto il campo, occorre un nuovo patto con la natura, che non si può banalizzare né con improbabili hobbistici e folkloristici ritorni alla terra del fine settimana, né ridurre all’altrettanto banale opposizione nimby a trasformazioni locali, che le spostano di qualche centinaio di metri magari peggiorandone gli impatti sulle stesse persone che hanno guidato la «lotta ambientalista». La domanda da porsi, diventa: a che serve, in termini di ricchezza (speculatori nefasti a parte), la trasformazione urbano/edilizia? Sino a che punto risponde a domande concrete, di residenza, di posti di lavoro, di maggiore abitabilità, accessibilità, servizi? Nell’era delle comunicazioni immateriali, ad esempio, sembrerebbe assumere nuovo senso quella spesso aggirata distinzione fra due termini inglesi considerati a torto sovrapponibili. Il primo è densification, che tradotto dalle nostre parti in modo letterale, si usa per giustificare aumenti di cubature edificate, si dice per contenere il consumo di suoli e spazi aperti, per difendere l’ambiente insomma. Il secondo è l’analogo intensification, tradotto e applicato identicamente. Ma le parole sono importanti, e scorrendo la letteratura si capisce al volo che le nuove tecnologie della comunicazione di fatto creano una situazione «densification versus intensification». Che vuol dire? Vuol dire che al crescere degli usi, delle attività, della somma residenti utenti di città, non corrisponde in alcun modo lineare l’aumento degli spazi artificializzati. L’importante è che quegli spazi, se adatti all’abitare e allo svolgere attività, siano sfruttati al massimo. Cosa che evidentemente non avviene né per la dismissione che resta tale, né per le trasformazioni speculative «di mercato» ma di cui le dinamiche domanda offerta non sanno che fare. In fondo, stiamo entrando in una specie di orizzonte town-sharing senza rendercene conto, e che ci apre prospettive nuove. Cogliamole.

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