Cos’è una città ideale? Quella che vuol realizzare un ideale, risposta ovvia e facile, ma la vera questione nasce quando ci si domanda che genere di ideale, esattamente, e se perseguirlo attraverso una logica di piano o di progetto. Non è affatto una questione secondaria di lana caprina, puro dettaglio per geometri o assessori ideali, anzi a volte segna il discrimine fra il vero inseguimento (per quanto contraddittorio e di vario esito) dell’utopia, e il suo cinico uso strumentale come carburante per fare tutt’altro, ovvero seguire i fatti propri. Distinguere le due tipologie è cosa ardua, ma certamente si può iniziare osservando nella storia di questi variegati esperimenti sino a quale punto l’ideale si irrigidisce troppo dentro la gabbia delle forme esteriori che lo dovrebbero semplicemente ospitare, accoglienti, adattandosi alla sua natura viva ed effervescente, invece di costringerlo in una specie di camera iperbarica a rischio di deflagrazione. Anche qui vale il principio secondo cui l’obiettivo vero sarebbe socio-politico-immateriale, da perseguire attraverso la materialissima trasformazione geografico-urbana del territorio, ma appunto distinguendo i fini dai mezzi, senza irrigidirsi troppo su quello che in fondo sarebbe soltanto il progetto tecnico-attuativo. Si hanno chiare, queste distinzioni, oppure no?
Utopie vere e letterali
Dando appunto una scorsa alle isole remote, pianeti galleggianti nell’universo, cittadelle sospese in precario equilibrio tra il sogno e l’assurdo, insomma tutto ciò che chiamiamo correttamente utopie (luoghi che non ci sono, alla lettera), si dovrebbe cogliere chiaro, il senso dell’equilibrio: c’è uno stato delle cose più avanzato da perseguire, e per rappresentarlo esco dalla rigida contingenza dello spazio reale prefigurandone uno diverso e inedito. Cosa non solo diversa da un progetto di trasformazione, che si disegna sino ad un certo livello di dettaglio e poi si passa a realizzare cercando di essere il più possibile aderenti a quanto prefigurato, ma addirittura l’esatto opposto, di un progetto. L’utopia è fatta per essere sempre pronta a evaporare, una sorta di esca-miraggio che evoca il cambiamento, ma lo lascia libero di esprimersi nei modi e nei tempi che sceglierà, dove quando e come riterrà più opportuno. Ma poi c’è sempre l’equivoco in agguato, l’istinto un po’ infantile un po’ conservatore a cercare sicurezze, certezze, ed ecco che anche l’utopia perde quella salvifica U, transustanziandosi in luogo, in progetto di città ideale che confonde contenitore con contenuto, e pur in buona fede finisce di essere motore del cambiamento, al massimo prodotto finale del cambiamento, che per evolversi ancora avrà bisogno di un’altra, immateriale utopia. Resta, fortunatamente, quel residuo di non progettato che da sempre chiamiamo «piano», o programma.
Il piano ideale
Un esempio preso e rigirato e rivoltato da tutte le parti è la solita città giardino versione Howard-Unwin, cioè quella che fra tutte le città giardino ottocentesche più parrebbe pencolare verso un versante onestamente utopico, nata com’è (a differenza, poniamo, delle lottizzazioni americane precedenti con la medesima etichetta) come generico marchio-contenitore di riforma sociale. Prendiamo un suo carattere apparentemente spaziale e progettuale come la greenbelt già schematizzata nei diagrammi tipo flowchart che precedono qualunque ipotesi organizzativa territoriale vera. Cos’è, questa cintura verde, se non un elemento utopico a tutto tondo, che solo nelle fasi di profilo più basso tecnico-attuative perde idealità, anche solo per assumere i caratteri socioeconomici-agricoli della tradizione delle città murate europee premoderne, mescolati all’americana paesaggistica Emerald Necklace dello studio Olmsted? Ed è proprio quando non se ne considera quasi più quell’origine ideale, della greenbelt, trasformandola in un progetto da giardinieri e architetti, che iniziano le contraddizioni e i guai. Vuoi quando le si cambia il nome in Urban Growth Boundary trasformando il sacro in profano, in una specie di confine amministrativo tra il costruito e il verde; vuoi quando prende il sopravvento la logica direttamente compositivo-estetica dei parchi urbani, con tanto di giudizi qualitativi (che poi si traducono in valori immobiliari) su quali zone siano più carine di altre, anche in base a criteri del tutto strampalati e faziosi. Per questo la storia del «bosco di cintura» della città ideale capitale del Kazakistan che segue in link, è la storia di un fallimento annunciato già alle radici dell’idea. Se l’utopia fosse stata davvero tale, a pensarci bene il modello spaziale vincente, lì, sarebbe stato una specie di Enclosed Capital Mall ad aria condizionata.
Riferimenti:
Almaz Kumenov, Astana’s plan to stay warm in the winter? Build a ring of one million trees, The Guardian, 18 ottobre 2017