Il Mozzo Rotante dell’Universo

paciarottissime

Foto F. Bottini

Tutti si ricordano i cattivissimi Smokers di Waterworld, intenti a raschiare il fondo del barile energetico, prolungando in modo caricaturale stili di vita assolutamente insostenibili nel mondo fatto ormai collassare da generazioni di persone che consideravano quella roba del tutto normale e quotidiana. Divertenti e un po’ patetici, quegli sfumazzanti pirati sulla corazzata rugginosa in giro per i sette mari, di certo meno dannosi dei miliardi di feroci automobilisti che li hanno preceduti nel coltivare quello stile di vita. Anche simpatici, perché sono e resteranno pochi, abbondantemente sconfitti dalla storia, stanno lì a fare soprattutto da pietra di paragone e monito. Ma la maggioranza, per quanto silenziosa, un po’ di paura la fa sempre, maggioranza estrema a sua insaputa, estrema nel coltivare qualcosa di specifico attorno a cui ruota tutto il resto, dai veicoli a combustione interna … a quelli azionati dalla forza muscolare. Anche con quelli, impegnandosi molto ovviamente, si può esagerare, rendersi piuttosto antipatici.

Sopravvissuti

Il ciclista moderno assomiglia nell’immaginario a tutte le tribù resistenti della storia: dai pellerossa del XIX secolo inseguiti dai cavalleggeri e soprattutto dalla ferrovia avanzante, ai più contemporanei giovani delle sperimentazioni culturali dentro le fabbriche dismesse occupate, inseguiti dalla gentrification coatta spinta dagli immobiliaristi. Il ciclista ha da sempre convissuto non solo con la cultura automobilistica che si mangiava l’immaginario, l’identità, gli stili di vita e consumo, ma dentro un contesto urbano e territoriale che con pochissime eccezioni lo riduceva ai margini, neppure tollerato. Una specie mal vista ma impossibile da estirpare, giusto perché sopra il mezzo meccanico stava avvitato il cittadino portatore di altri diritti, e poi c’era l’immagine sportiva del ciclismo agonistico. Forse non è un caso se in tanti paesi la recente ripresa del ciclismo urbano va al traino con le corse e un certo tipo di immagine.

La forma della città

Un’immagine che pur superficialmente accostata a cose come la sostenibilità, l’ambiente, una vita meno frenetica, se la guardiamo bene ha tutt’altra radice: il mito della velocità futurista, ovvero lo stesso dell’automobile. Senza tirare in ballo i trascorsi velocipedi arcaici di Marinetti, basta seguire buona parte dei blog dedicati tematici per capire che il genere di ciclismo che va per la maggiore nella comunicazione è assai più sbilanciato verso un’idea da Tour de France o escursione estrema di mountain bike sulle Alpi, che quella della signora che porta il figlio a scuola sul sellino, prima di attraversare il parco verso il posto di lavoro. Certo si dirà che così vuole il mercato, che c’è tutto il settore delle macchine e accessori e reti di manutenzione e indotto turistico eccetera con cui fare i conti, e i posti di lavoro, figuriamoci! Ma c’è dell’altro, ed è l’idea di pista ciclabile che sta prendendo piede, una concezione che nulla ha da invidiare alle peggiori sciocchezze autostradali del passato: la città e il territorio futuri ci vengono proposti intersecati da percorsi ciclabili esattamente come in certi schizzi ingegneristici di qualche decennio fa le autostrade multicorsia. Ed è una sciocchezza.

Condivisione e integrazione

In altre parole, sarebbe il caso di ribadire già in partenza che il ciclismo è il ciclismo, la città, la società, il mondo, sono altro. Insomma che nessuno si deve sognare di assegnare alla bicicletta il medesimo ruolo centrale e bulimico occupato dall’auto per tutto il XX secolo. Chi usa sporadicamente il bike sharing non deve sentirsi frustrato se non vince almeno una tappa della selezione dilettanti, esattamente come chi si fa due spaghetti in bianco non ha alcuna intenzione di guadagnarsi un cordon bleu, non glie ne frega nulla. E anche la città deve trasformarsi tenendo conto di queste precauzioni: esiste una cosa che si chiama spazio fra gli edifici, o carreggiata, e che sinora è stata occupata militarmente dalle auto, a volte addirittura tutta concepita attorno al metabolismo automobilistico. Sono in molti a ritenere che oggi quello spazio si debba adattare alla bicicletta, munendolo di apposite piste ciclabili, e sbagliano. Sbagliano perché le piste ciclabili non sono un fine, ma un mezzo, che a volte è indispensabile, a volte meno, a volte del tutto superfluo o controproducente. L’obiettivo di costruzione della città è la costruzione della città, non gestire il passaggio dalla centralità automobilistica a quella ciclabile.

Infrastrutture

Intendiamoci, i percorsi riservati, o protetti, sono un mezzo sacrosanto per incrementare la sicurezza, promuovere l’uso della comoda e sana bicicletta fra soggetti sinora esclusi, aprire vie altrimenti impraticabili. Perché le corsie spropositate, gli arretramenti e relativi vuoti, gli incroci e svincoli cresciuti nell’era della velocità a motore, quasi sempre non sono gestibili con altri mezzi che non il ritagliarsi di quelle strisce e passaggi riservati, separati, protetti, la costruzione di una specie di mondo a sé dove le due ruote si possano muovere sicure, insieme a chi ci sta sopra. Ma l’obiettivo è la città, non una versione rallentata dilettantesca e a rate del Tour del France. Il cittadino resta tale e identico anche quando scende dal mezzo, cammina, entra in un edificio, salta su un altro mezzo magari a motore, magari privato a motore. La bici non è il centro dell’universo, è un pezzo di ferro tale e quale alla fibbia della cintura, non carichiamola di valori e aspettative indebiti. Adesso nella capitale mondiale dei pedali, Copenhagen, vogliono fare qualcosa di simile al progetto di Boris Johnson per Londra: delle piste veloci sopraelevate per ciclisti pendolari che hanno fretta. Entusiasmante? Spettacolare? Ammirevole? Mah: a me pare solo fantozziano. Meno inquinante, forse tiene più in forma rispetto agli ingorghi sulla tangenziale, ma un pendolare che va al lavoro è sempre un pendolare che va al lavoro. E un ponte su cui sfilano veicoli pendolari è molto simile a un altro ponte su cui sfilano veicoli pendolari. Se servono, che le facciano pure, ma risparmiamo l’entusiasmo per altre cose un po’ meno da appassionati di settore. Con tutto il rispetto, ovviamente.

Riferimenti:

Alexander George, Copenhagen’s New Bike Skyway Makes Commuting Look Fun, Wired, agosto 2014

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