Quel detto che ammonisce «see the trees, see the forest» si adatta sempre magnificamente all’intreccio di minute particolarità e grandi complessità che è la metropoli contemporanea. Osservando le cui manifestazioni, nell’immediato così come nel medio periodo (per quello lungo ci affidiamo fiduciosamente ai posteri), è sempre salutare alternare uno sguardo al piccolo albero a una panoramica sull’intero bosco, magari inquadrato sia ad altezza d’uomo che da una prospettiva a volo d’uccello. Anche per quanto riguarda quella cosa così apparentemente semplice che sarebbero gli interessi individuali, generali, grandi, piccoli, collettivi, familiari, proprietari e non. Mentre in questo campo specie negli ultimi tempi c’è sempre da fare a cazzotti col «mercato»: vuoi coi suoi esegeti assoluti (quelli che candidi ed esterrefatti ti dicono: ma questo va contro il mercato, come se avessi bestemmiato la divinità), vuoi con chi prova a distinguere e segmentare le varie domande e offerte, ma per evidente assenza di approccio sufficientemente complesso alla fine diventa altrettanto ideologico, schematico, e alla fine della fiera fazioso. Per esempio quando si scontrano trasformatori di città e conservatori di spazi identitari: chi ha più ragioni dell’altro?
I sintomi non sono la malattia
Quando si parla della cosiddetta sindrome nimby è sempre utile usare entrambe le prospettive di osservazione riassunte nel detto «see the trees, see the forest», per distinguere il sintomo dalla malattia, e ciò che appare soggettivo e particolare dalla sedicente realtà generale. La cosa più importante è evitare di formulare giudizi assoluti costruendo gerarchie di legittimità di interessi, perché una cosa dovrebbe apparire chiarissima: lo scontro fra trasformatori e conservatori altro non è che brusca dialettica fra due egualmente particolari ed egoistici obiettivi, impossibile stabilire su questa sola base chi ha più ragione dell’altro. Se non altro perché in entrambi i casi si tratta di operatori immobiliari, di proprietari di cubature urbane nell’atto di maneggiarne il valore, vuoi d’uso vuoi di mercato, vuoi in un assetto attuale che di progetto, ma con fini del tutto individuali. Molto diverso il caso, se si confrontano invece quelle posizioni nella «città come una foresta», ovvero sintomi di un divenire che non ha gran senso se non osservato da una certa distanza e nell’insieme. Posto che in genere le trasformazioni si muovono nell’ambito di una «legalità» quantomeno formale, l’opposizione conservazionista o nimby che dir si voglia svolge un positivo ruolo di cartina tornasole del vero ruolo dei riqualificatori, o densificatori, o altro. Ne evidenzia limiti e difetti, ma al tempo stesso può evidenziare anche limiti e difetti del «progetto» che si intende conservare, quando i trasformatori semplicemente finiscono per rivolgere i propri sforzi «fuori dal cortile» così tenacemente protetto.
I limiti di una lettura di mercato
Chi però segue troppo meccanicamente quello che è in sostanza un approccio immobiliarista e di «valori urbani» sostanzialmente di scambio, questa complessità e intreccio di prospettive non sa e non vuole coglierli. Quello che vede è in sostanza solo il sintomo superficiale: conservatori contro innovatori, e soprattutto «egoisti» che vogliono conservare per sé il valore urbano accumulato col tempo dalle loro proprietà, impedendo che altri entrino in gioco rimescolando le carte. Alcuni, economisti e non, vanno addirittura oltre questo già sin troppo sbrigativo e schematico approccio, arrivando a dire che sono le stesse procedure urbanistiche, anzi addirittura l’urbanistica in quanto tale quando limita il libero dispiegarsi del mercato con le norme di zoning, a danneggiare una sana e addirittura «sostenibile» evoluzione edilizia e sociale. Il che dimostra una spaventosa, e probabilmente artificiosa e faziosa, ignoranza storica, visto che certe caratteristiche pur discutibili degli spazi urbani e delle possibilità di trasformazione, sono state regolamentate più o meno un secolo fa esattamente allo scopo di proteggerlo, il mercato, dal suo troppo libero e selvaggio interagire tra vincenti e perdenti. Ma il liberista ideologico evidentemente è convinto che chi perde in uno scontro come quello sulle trasformazioni urbane non faccia che confermare i capisaldi della sua religione dogmatica: l’ha voluto la Mano Invisibile. L’articolo linkato di seguito, che appartiene tra l’altro a una serie della stessa autrice ex ambientalista convertita Emily Badger, tesa a sostenere questo «problema dei nimby e dell’urbanistica», forse non ha posizioni tanto estreme. Ma ahimè la fa troppo, troppo facile, classificando buoni e cattivi con una schematicità preoccupante.
Riferimenti:
Emily Badger, How Not In My Back Yard become Not In My Neighborhood, The New York Times, 3 gennaio 2018