Esiste un motivo abbastanza ovvio per l’essere in qualche modo spontaneamente conservatori: l’abitudine costruisce equilibri complessi, che l’innovazione puntualmente sconvolge, e adeguare ritmi rappresenta comunque un impegno e un investimento, personale e collettivo, di non indifferente onere. Chi vede balenare davanti alle proprie capacità intuitive una innovazione di qualunque genere (che riguardi apparentemente solo sé stessi o si allarghi sino a coinvolgere abbastanza evidentemente anche l’esistenza altrui) molto spesso folgorato dall’idea, magari dalle sue apparentemente illimitate potenzialità, automaticamente mette da parte le riflessioni su quel versante, pensando solo all’effetto domino di quel che più gli aggrada. E purtroppo pare che un atteggiamento non molto dissimile sia quello assunto via via da chi quell’innovazione la adotta in tutto o in parte negli aspetti attuativi e pratici, ritenendo chissà perché i cosiddetti effetti collaterali non di propria «competenza», agendo insomma come certi chirurghi delle barzellette cattive, entusiasti dell’operazione anche quando il paziente risulta deceduto. Cosa si evita, provando almeno a pensarci, fare proiezioni serie, ragionare sistematicamente sugli effetti «collaterali» dell’innovazione?
L’ambiente urbano
Quando spazi, comportamenti, flussi trasformazione ed evoluzioni, si strusciano per così dire naturalmente gomito a gomito, come nell’ambiente urbano, dovrebbe sempre saltare all’occhio quanto la famosa teoria del caos, e forse anche di più visto che non riguarda ali di farfalle e uragani sulle due sponde di un oceano, ma forse un paio di dirimpettai a distanza di dieci metri sui due lati opposti di una via alberata. L’innovazione può essere assolutamente minimale, poniamo una nuova auto o impianto elettronico immesso sul mercato, ma se il nostro dirimpettaio ci sconvolge i ritmi dell’esistenza col suo ascolto della musica, o il parcheggio improvviso di qualcosa di molto ingombrante, quel frullio di farfalle non può non tornare in mente. E maledetto chi – pensando solo al suo portafoglio, o non accorgendosi di nulla in sede autorizzativa – non ci aveva pensato, no? Figuriamoci quando le innovazioni sono già visibilmente molto impattanti, sull’aspetto, la qualità, la vita quotidiana di parecchie persone, come quelle di carattere urbanistico-edilizio. Qualcuno ci pensa seriamente? Oppure l’unico vero studio di dettaglio al solito riguarda quelle trasformazioni considerate dalla superficie esterna verso il loro interno, ovvero la prospettiva del soggetti che in una misura o l’altra le realizzano? Pare una premeditata provocazione, una sistematica ricerca di reazioni, negative di carattere spontaneamente «conservatore» dei propri consolidati equilibri, nel rapporto con la città, l’uso degli spazi, i ritmi e le aspettative. E tanto più questo è il modus operandi standard di chi opera la trasformazione, tanto più nasceranno comitati di pura reazione negativa o nimby che dir si voglia.
Progetto e piano
Del resto come ci avvertono da parecchio tempo tanti studi sociologici urbani, in grado di attingere da una corposa quantità di casi analoghi analizzati sistematicamente e comparabili, lo stesso atteggiamento nimby deve e può diventare la chiave di lettura di un deficit di metodo nel decidere tecnicamente, politicamente, nel tempo e nelle qualità, quelle trasformazioni. Percepirle come invasioni di campo non è affatto di per sé rifiuto ideologico, ma solo normalissima reazione spontanea, tesa a conservare gli equilibri precedenti a cui ci si è di solito con una certa fatica adeguati. Ergo l’invasione tale era e tale resta, si tratta di modularla e comunicarla secondo criteri tali da farla in tutto o in parte metabolizzare, usando un metodo di programma anziché quello casualmente tecnico del progetto calato dall’alto e dal nulla (come avviene nella maggior parte dei casi) e solo ex post discusso, modificato, adeguato, sottoposto a quei processi partecipativi ideologici non a caso stigmatizzati come tali da sempre più soggetti interessati. Quando le trasformazioni riguardano obiettivi importanti e abbastanza radicali, come il suburban retrofitting in senso urbano, o la rottura dell’omogeneità sociale di una zona con potenziali effetti indiretti economici anche di rilievo sui valori immobiliari, o lo sconvolgimento dei ritmi della vita e delle attività con importanti innovazioni trasportistiche, la posta in gioco può essere l’accantonamento, o ridimensionamento dell’obiettivo stesso. Oppure il ricorso a un autoritarismo tecnocratico in grado, nonostante tutto, di azzerare il valore sociale delle trasformazioni per carenza di metodo democratico. Pensiamoci più spesso.
Riferimenti:
John Hilliard, Affordable housing plans shaking up the suburbs, Boston Globe, 29 settembre 2017