Una caramellina alla menta rinfresca certamente l’alito, cosa che non fa mai male e addirittura in tanti casi è proprio utile, se non quasi indispensabile. Se poi si ha la gola secca, o irritata dal freddo, dall’inquinamento, dall’aria condizionata mal regolata, aiuta molto a combattere il fastidio. Ora senza nulla togliere a tutte queste funzioni, e a tante altre che possono saltare in mente riflettendoci un istante in più, è piuttosto noto a quasi tutti che il grosso del mercato di queste caramelline, ruota attorno alle sigarette: la gola da rinfrescare è irritata soprattutto dal fumo, o i balsamici succhi e i loro vapori vanno a sostituirlo, il fumo, nel respiro di chi sta provando a smettere. Uso strumentalmente la constatazione, di questa sostanziale «centralità di mercato», perché credo che il medesimo criterio sia applicabile pari pari alla bicicletta, che ha tante tante qualità di suo, inenarrabilmente tante, su cui siamo tornati e ancora torneremo senza stancarci mai, ma che vive soprattutto ruotando attorno al suo centro di gravità permanente rappresentato dall’automobile, al tempo stesso antitesi e alternativa, tanto quanto la sigaretta lo è per la caramellina. Con anche un dettaglio in più: che esattamente come con le caramelle, le sigarette, o le stesse automobili, anche con la bicicletta il sogno di crescere indefinitamente fino a costruirsi un universo proprio pare irraggiungibile, e forse neppure auspicabile.
Il picco ciclistico
C’è gran discussione in tutto il mondo urbano globale a proposito degli effetti collaterali, inimmaginabili quanto macroscopici da ogni punto di vista, delle nuove applicazioni per il dockless bike sharing, in particolare per gli abusi e soprattutto gli abbandoni impropri nei punti di sosta. Da Firenze a Shanghai a Seattle, le prime pagine della stampa locale letteralmente si intasano delle notizie e dei commenti indignati di cittadini, sui cumuli di biciclette che altrettanto letteralmente intasano marciapiedi, slarghi, nonché angoli davvero inusitati. Si parla per esteso di «senso civico» latente, e qualche volta (cosa più rara) di irresponsabilità, sia dei privati gestori della app, sia delle amministrazioni cittadine che si dimostrano poco all’altezza, in termini di convenzione e capacità tecniche. Ma il dato che forse in effetti sfugge, se non alla sensibilità di pancia e faziosa della «concorrenza» automobilistica, è un altro, ovvero che le biciclette sono troppe, che esiste una capacità massima insuperabile, una sorta di picco ciclistico oltre il quale l’utilità e ragion d’essere del mezzo crolla. Spazi e flussi si saturano, e naturalmente quei mucchi scomposti di dockless bike in condivisione sono solo un sintomo particolarmente vistoso di qualcosa di più ampio, e che in fondo doveva apparire ovvio sin dall’inizio della grande ascesa nella mobilità ciclistica degli ultimi anni: si tratta di una ascesa destinata a fermarsi.
Tutto è relativo
Copenhagen è considerata in tutto il mondo una specie di santuario della bicicletta, la città dove in pratica su tutto l’arco dell’automobilismo di massa sono state parallelamente promosse politiche urbane a sostegno della già radicata tendenza di abitanti e lavoratori a spostarsi con le due ruote. Una tendenza ancora più accentuata negli ultimi anni di crisi ambientale-energetica e di nuova consapevolezza urbana, quando in tutto il mondo si cerca una valida alternativa al modello petrolifero-automobilistico novecentesco. Avanguardia del ciclismo urbano, Copenhagen aveva programmi di ulteriore incremento quantitativo delle quote di mobilità su due ruote, fino a superare la metà del totale negli spostamenti quotidiani: un obiettivo che però pare allontanarsi per via di un inatteso crollo. Certo i motivi possono essere tantissimi: da una fisiologica fase di decrescita per assestamento, dopo un’ondata di grande rapido aumento dei flussi, già poderosi, del passato. Oppure la diminuzione dei viaggi in bicicletta si lega a fattori esterni ancora da inquadrare e governare adeguatamente, da alternative di trasporto (o non mobilità), a cambiamenti degli stili di vita, a trasformazioni urbanistiche mal concepite da quel punto di vista. Ma se accostiamo questi due citati macroscopici fenomeni di «picco ciclistico», di Copenhagen e dell’intasamento da dockless bike sharing, non può non sorgere il dubbio di qualcosa di più profondo. Ovvero che la bicicletta (con buona pace dei suoi appassionati, spesso animati da fervore quasi religioso) altro non è che uno dei tanti modi per spostarsi, ottima per coprire una certa fetta di spostamenti, ma non certo la bacchetta magica che salverà il mondo. Le bacchette magiche servono solo a bacchettare.
Riferimenti:
Athlyn Cathcart-Keays, Cycling downhill: has Copenhagen hit peak bike?, The Guardian, 17 novembre 2017