Differenti approcci urbanistici alla città e al territorio
«Oggi non si vive più a Milano, ma tra Milano, Parigi, Londra, New York. L’ultimo esempio della vecchia tradizione è il grattacielo Pirelli, simbolo di un’azienda che si identifica con il suo monumento. Oggi i palazzi della Mondadori e della IBM a due passi dall’aeroporto di Linate»i. Così l’architetto Marco Zanuso riassume il suo punto di vista sull’adeguamento del territorio metropolitano alla competizione internazionale. Pur nei limiti di una semplice battuta e dell’approccio puramente architettonico ai problemi della città, Zanuso riesce comunque a sintetizzare almeno due degli elementi oggetto delle presenti note: in primo luogo la sedimentata dimensione di area vasta dello «oggetto Milano» ben oltre i confini anagrafici (il grattacielo Pirelli sta accanto allo scalo ferroviario di Milano Centrale, le sedi IBM e Mondadori citate all’esterno delle piste dello scalo aeroportuale di Linate e in territorio comunale di prima fascia a Segrate) e innestato su una rete infrastrutturale multimodale e complessa. In secondo luogo, la forte identificazione tra sistema territoriale e socioeconomico.
Si tratta, a ben vedere, degli elementi caratterizzanti il dibattito sulla trasformazione in senso postindustriale della città, così come si è sviluppato per almeno un decennio, producendo una notevole mole di progetti che potrebbero assumere senso nuovo se osservati nella prospettiva di una efficace authority metropolitana. Vale forse la pena di riprendere qui un giudizio secondo cui potrebbe essere collocata nell’ambito della pianificazione di carattere strategico «una esperienza di interesse più limitato (data la limitata operatività dei piani) ma comunque innovativa realizzata a Milano, con il tentativo di inscrivere la pianificazione di importanti infrastrutture o di rilevanti programmi territoriali all’interno di un solido quadro di scenari economici: il Documento Direttore Passante Ferroviario (1984) e il Documento Direttore Aree Industriali Dismesse»ii.
Da altri punti di vista l’approccio del Comune di Milano veniva considerato di carattere sostanzialmente empirico, dettato dalle contingenze, ed in linea con le tendenze alla deregulation in campo urbanistico: in altre parole gli strumenti messi in atto per «ripensare la città» rappresentavano l’esatto contrario di una logica di piano, esprimendo invece subalternità nei confronti di interessi particolari, senza capacità di orientarli e coordinarli. In particolare rispetto alla scala metropolitana «la preconcetta ostilità ad un processo urbanistico guidato da un piano regolatore è servita, dunque, anche a Milano per evitare che su queste scelte si svolgesse l’indispensabile dibattito politico e culturale e che ad esso fosse contrapposto un disegno alternativo: un disegno organico di scala metropolitana che puntasse, invece, al decentramento del vecchio e del nuovo terziario su precise direttrici della periferia intercomunale e sulle potenzialità delle altre città della regione»iii
Le (150) varianti approvate nel corso degli anni ’80 avrebbero perso qualsiasi rapporto con la sedimentazione culturale che vedeva una linea continua dipanarsi ed arricchirsi a partire dall’esperienza del Pim, generando invece le varie ipotesi di Tecnocity, Montecity, poli specializzati e centri direzionali: «il disegno di una capitale economica europea si è consumato tra documenti di buona letteratura sul piano delle strategie possibili […] L’effetto di questa politica è una situazione che si può definire assenza di piano nel senso che manca un’idea coerente e unitaria del possibile sviluppo della città»iv. Questo giudizio di massima sull’operato dell’amministrazione comunale, si consolida ed articola nel tempo, nonostante il tentativo – per molti versi riuscito – di coinvolgimento delle migliori forze culturali della città nell’elaborazione delle nuove ipotesi di sviluppo che si concretizzano nella prima strategia sulle aree industriali dismesse. Pur riconoscendolo sforzo compiuto per individuare nuovi strumenti di governo delle trasformazioni urbane, si sottolinea da parte dei settori emergenti della cultura urbanistica milanese come le pur promettenti procedure individuate e varate dall’amministrazione si siano diluite nelle paludi della continua contrattazione, fino a far perdere buona parte della credibilità ai pur discutibili, ma comunque potenzialmente validi (come base di discussione per una prospettiva di progetto globale per Milano) poli variamente specializzati, e confusamente agitati sulle pagine dei quotidiani, come fossero immagini pubblicitarie della «città da bere»v.
Progettualità e interazione tra soggetti
La scelta di confrontarsi da subito con la scala metropolitana emerge con chiarezza dai contributi che il mondo accademico, professionale e delle associazioni esprime su invito dell’amministrazione. Si sottolinea da subito la necessità di coordinare le scelte cittadine con quelle già operate dalla Regione Lombardia, in ordine al sistema della mobilità e a quello agricolo, ivi comprese tutela e valorizzazione del paesaggio, e viene individuata nelle funzioni che necessitano di decentramento, sia per esigenze di espansione che per risolvere questioni di accessibilità e qualità dei servizi (è il caso dell’università o di alcune strutture sanitarie). In generale dunque, per configurare una corretta politica di riconversione urbana e territoriale occorre sfruttare la risorsa delle superfici industriali dismesse utilizzandole come «occasione storica»vi. Riconoscere la centralità del fattore economico sia come origine che come motore della trasformazione, significa innanzitutto non solo individuare un nuovo ruolo dell’impresa, ma la necessità di stabilire diverse regole nei rapporti tra pubblico e privato, due sfere che nel proliferare delle associazioni nella Milano degli anni ’80 non sono più assimilabili alle sfere tradizionali di riferimento, negli obiettivi così come nella modalità di influenza e interazione nel determinare le trasformazioni urbanevii.
Nell’ambito del recupero di nuove funzioni in aree dismesse, ogni intervento è in concorrenza con altri in aree diverse, e tale concorrenza è ovviamente generatrice di conflitti tra i molti, diversi soggetti che concorrono a scala metropolitana al processo di progettazione, gestione e realizzazione del riuso. Il semplice meccanismo di mercato non è sufficiente a garantire l’assenza di contraddizioni anche vistose, e soprattutto il conseguimento dei fini di pubblico interesse, che solo possono essere perseguiti dalla pubblica amministrazione. Da questo punto di vista, si individua come necessaria la definizione di un «imprenditore collettivo» con l’amministrazione in un ruolo di coordinamento all’interno del processo di concertazione, soprattutto attraverso innovazioni normative procedurali nel rapporto pubblico-provato. Forme sperimentate di urbanistica concertata o accordi di programma potrebbero, in un’operazione complessa come il recupero a funzioni urbane di un insieme di aree dismesse, sfociare in forme di joint-ventureviii.
La riconversione di Milano si intende quindi da subito, comunque, all’interno di uno scenario metropolitano e regionale. A questa scala va intesa l’integrazione di alcuni grandi servizi urbani (come l’università o la Fiera) con il sistema vasto, ed in questa ottica di conseguenza, di disponibilità di area centrali, da confrontare con corrispondenti disponibilità esterne, ferme restando alcune individuate vocazionalità e risorse interne al capoluogo: polo universitario per riqualificare il nord-ovest; polo tecnologico a nord-est; attività giovanili e di riqualificazione ambientale nella zona dei Navigli; sviluppo degli approdi (Linate, via Emilia, ingresso Autosole, stazione Rogoredo) per riqualificare il sud, soprattutto in connessione con le reti di trasporto pubblico ed in relazione alle reti di comunicazione immateriale che entrano a far parte del tessuto connettivo urbanoix. Ma una strategia urbanistica si può configurare sia come legittimazione e copertura di un insieme di grandi progetti privi di respiro strategico e caratterizzati da un approccio empirico, sia come formulazione di nuove ipotesi di sviluppo tali da avviare la revisione di alcune scelte «interne alla pianificazione vigente»x. Fin qui alcune osservazioni sul riuso delle aree dismesse, e sul valore metropolitano che ad esse viene attribuito. È anche il caso di chiedersi però che valore abbia una strategia di questo tipo all’interno delle prospettive di un’area metropolitana diversamente organizzata, quale quella ipotizzabile con la Legge di riforma delle autonomie locali.
Immaginario e realtà
La somma dei contributi sul dibattito istituzionale per le aree dismesse costituisce un importante punto di partenza per definire una strategia metropolitana, visto che almeno non si connota come «lottizzazione castrante», per usare la definizione di Francesco Indovina sul manifesto del 31 maggio 1988: «per fortuna qualche volta associazioni culturali e forze politiche emarginate dalla lottizzazione riescono a innestare con fatica una discussione su un determinato intervento urbanistico o architettonico. Ma non sempre queste iniziative incidono effettivamente […] lo sviluppo della città sembra degradare a un insieme di decisioni cervellotiche e comunque di potere». L’immagine diffusa sul recupero delle aree dismesse sembra per molti versi da classificare più piatta e monotona che cervellotica: da molte parti si osserva come i processi di trasformazione di aree industriali innescati negli anni ’80 dall’operazionePirelli Bicocca, si riducano all’insediamento di zone terziarie. In particolare la cosa meno convincente, rispetto ad operazioni che si presentano come altamente qualitative, secondo alcuni critici è il fatto che in tutti i progetti di riutilizzo si ripresenti la medesima matrice: uffici, commercio, imprese high-tech, laboratori di ricerca, università, sino al punto da far provocatoriamente «sperare che l’area delle exVaresine non venga mai trasformata, che rimanga magnificamente dissestata se anch’essa, come tutte le altre, per la sua sistemazione debba richiedere le stesse funzioni commerciali, terziarie e così via»xi.
Speranze provocatoriamente paradossali, ma non prive di certo fondamento, se per distinguere il progetto di Montecity dalle altre varie cities milanesi , si sottolinea con forza come si tratti del tentativo di realizzare, nella terra di nessuno di un’area a ridosso della Tangenziale Est, un vero e proprio «pezzo di città» che si differenzia dagli altri progetti di riuso, dove prevarrebbe invece schiacciante il solo aspetto economico, l’impostazione monocolturale funzionale, dove gli obiettivi di riqualificazione ambientale e «incentivo alle relazioni urbane» restano confusi sullo sfondoxii. E neppure sfugge agli osservatori più attenti, come il ruolo metropolitano dei grandi progetti si traduca nella produzione di ulteriori disparità a scala regionale, sancendo le sperequazioni esistenti ed accrescendo la tendenza alla polarizzazione sul capoluogo dei progetti di recupero.
Da questo punto di vista una scelta in controtendenza si individua nella elaborazione di un Piano Direttore di scala regionale, sintesi di quelli metropolitani, superando anche attraverso strumenti legislativi ad hoc e di incentivo uno stato di fatto dove «favorendo i progetti di recupero sul core metropolitano sia in termini di deregolamentazione (velocità approvazione varianti) che di rilevanti incentivi finanziari e creditizi, reitera l’usuale comportamento pro-ciclico delle politiche urbanistiche: moltiplica la centralizzazione degli investimenti in una fase di ciclo regionale già spontaneamente centripeta»xiii. La profezia dell’avvento postindustriale inizia ad auto-avverarsi, ponendo in secondo piano concrete constatazioni sulla vitalità dei processi di recupero – anche a funzioni industriali – nel comuni dell’hinterland e della regione ad opera di piccoli e medi operatori, e sulla sconclusionatezza dei microinterventi di riconversione interni al tessuto produttivo del capoluogoxiv.
Emblematico in questo senso il tono minore assunto dal grande processo di trasformazione socioeconomica ed insediativa che nel corso degli anni ’80 investe il comune di Sesto San Giovanni, ex «Stalingrado d’Italia» alla periferia nord del capoluogo , sia in termini di ristrutturazione interna alle imprese che di riflessi profondi sull’assetto urbanistico e funzionale della cittàxv, il cui sistema produttivo in fase di dismissione e trasformazione pure si lega fisicamente, senza alcuna soluzione di continuità rilevante, alle aree Pirelli Bicocca in comune di Milano, proseguendo verso nord lungo l’asse ferroviario fino a un’altra zona strategica nel quadro di un programma metropolitano di rilancio attraverso l’innovazione: i 500.000metri quadrati dell’impianto Falck Vulcanoxvi.
Ma un programma di rilancio del tipo proposto si scontra, anche nei settori settentrionali fortemente infrastrutturati dell’area metropolitana, con le potenzialità edificatorie del capoluogo, non riuscendo a polarizzare gli investimenti necessari in aree per certi versi interessanti; ed a chi osserva le potenzialità di innovazione del bacino metropolitano esaurirsi in operazioni piattamente immobiliariste, non resta che commentare «trovo scandaloso che non il progetto edilizio, ma il progetto e la gestione dei contenuti e delle finalità di un polo tecnologico, sia totalmente delegato al promotore immobiliare del Progetto Bicocca, trovo scandaloso che il destino dell’area Vulcano sia affidato alla trattativa tra Falck e Comune di Sesto, trovo scandaloso che la triplicazione di Milanofiori debba essere un affare da decidere tra Cabassi e i Comuni di Assago e Rozzano. Per non parlare della concorrenzialità fra comuni su questioni come il Politecnico e la Fiera»xvii.
da: Archivio di Studi Urbani e Regionali, n. 41, 1991 – Fine della Seconda Parte – segue – Qui la Prima Parte
NOTE
iE. Rosaspina, «Nostalgia della vecchia Milano», Corriere della Sera, 4 ottobre 1991, p. 7
iiR. Camagni, «Le grandi città italiane e la competizione a scala europea», Relazione al Convegno di studi Aisre Città metropolitane e sviluppo regionale in Italia: le città a confronto, Venezia 15-16 marzo 1991
iiiG. Campos Venuti, «Deregulation urbanistica a Milano», Urbanistica Informazioni, n. 107, sett-ott 1989
ivV. Erba, «Una nuova politica urbanistica per il Comune di Milano», Dst, n. 8, 1991
vAa.Vv., «Due lettere aperte all’amministrazione comunale di un gruppo di giovani architetti milanesi, Dst, n. 8, 1991
viV. Erba, «Uso delle aree industriali dismesse», in Comune di Milano, Linee programmatiche per il Documento Direttore sulle aree dismesse o sottoutilizzate. Contributi alla Relazione, luglio 1988
viiCfr. P. Fareri, «La progettazione del governo a Milano: nuovi attori per la metropoli matura», in B. Dente, L. Bobbio, P. Fareri, M. Morisi, Metropoli per progetti, il Mulino, Bologna 1991; C. Bianchetti, «Recenti modifiche nei processi di gestione urbanistica nell’area metropolitana milanese», in R. Innocenti, R. Paloscia (a cura di), La riqualificazione delle aree metropolitane, F. Angeli, Milano 1990
viii R. Cappellin, «Indicazioni ed opzioni utilizzabili dalla civica amministrazione sui programmi relativi alle aree dismesse», in Comune di Milano, Linee programmatiche … luglio 1988, Cit.
ixCfr. G. Longhi, «Le superfici dismesse come occasione di innovazione», Ivi
xF. Pagano, «Contributo al dibattito», Idem
xiL. Basso Peressut, E. Ranzani, «Bicocca», in F. Indovina (a cura di), La Città di fine millennio, F. Angeli, Milano 1990
xiiA. Balzani (a cura di), Montecity, progetto e piano, Electa, Milano 1990
xiii F. Curti, «Aree industriali dismesse e strategie di riuso. In margine ad alcuni convegni milanesi», Dst n. 1, dicembre 1983
xiv Cfr. I. Pisani, Recupero a funzioni produttive delle industrie disattivate e e sottoutilizzate nella provincia di Milano, Centro Studi Pim, Milano 1985; G. Marcotti, «Il processo di terziarizzazione a Milano e il recupero industriale», in S. Graziosi (a cura di), Atti del Convegno: le Aree dismesse di Milano, una risorsa per migliorare la qualità della vita, Acli, Milano 1988
xvCfr. CGIL Lombardia, Studio delle maggior aree industriali del bacino di Sesto San Giovanni, ricerca commissionata da CGIL-Fiom Lombardia e Comprensorio di Milano, realizzata da Studio Ambiente, 1986
xvi Cfr. L. Minotti, Analisi e proposte per la revisione del PRG di Sesto San Giovanni e per il progetto Vulcano, Comune di Sesto S.G.- Pim, 1987
xvii G. Marcotti, «Il processo di terziarizzazione …», Cit. 1988