Quando verso la metà degli anni cinquanta la cultura urbanistica italiana, più sensibile, propose in termini scientifici uno sviluppo urbano che avvenisse attraverso l’istituto del quartiere, attraverso cioè un organismo che fosse contemporaneamente parte della città ma anche nucleo definito e autonomo della stessa città, la situazione delle aree urbane era estremamente preoccupante. Si poteva concretamente osservare il prodotto dei piani di ricostruzione, di quei piani cioè che all’indomani della fine dell’ultima guerra furono adottati con la duplice intenzione di risanare le distruzioni belliche e di dare lavoro a molti disoccupati. Al piano di ricostruzione e soprattutto agli incentivi che esso conteneva si può fare risalire l’origine dell’attuale speculazione edilizia, essendo questo piano «il mezzo psicologico più efficace per moltiplicare gli impulsi, già di per sé abbastanza forti, della speculazione privata a ricostruire nelle zone distrutte, che erano purtroppo, quasi sempre, le più centrali e le più delicate da risistemare e che non avrebbero dovuto essere compromesse da affrettate soluzioni»1.
Quindi non a caso il «quartiere» veniva proposto come alternativa a questo tipo di sviluppo e soprattutto come elemento rappresentante l’iniziativa pubblica (i famosi quartieri sovvenzionati dallo stato) in contrapposto a quella privata che diventava ogni giorno più forte e più prepotente.
Gli urbanisti si difendevano appunto attraverso l’istituzione del quartiere, e, sulla base di una cultura dichiaratamente anglo-sassone, tentavano i primi approcci interdisciplinari con i sociologi, tentavano le prime ricerche per dare un senso non solo romantico o neo-medioevale al concetto di «vicinato» formando degli ambienti che potessero favorire «la riunione delle famiglie, facendo in modo ad esempio, che più case si affacciassero tutte su di un giardino comune compreso fra di esse»2; si cercava una integrazione totale fra le varie classi sociali che avrebbero abitato il quartiere attribuendo addirittura una diversa conformazione architettonica a seconda delle categorie che avrebbero composto il quartiere stesso; si citava Moreno «l’architetto del futuro sarà uno studioso di sociometria3; si invocava una collaborazione fra varie forze culturali e politiche per dare «una casa ed una vita migliore agli italiani».
Questo concetto urbanistico del quartiere aveva anche un suo significato sociale e politico: «nel quartiere borghese», si diceva infatti, «le funzioni sociali si risolvono nell’abitazione stessa, che si apparta, si isola, si nega alla vita comune. Il villino, la palazzina, sono le espressioni di questa tendenza» il quartiere, al contrario, cancellerà «il lotto privato, individuale» e costituirà «la matrice della città di domani» in quanto «la realizzazione e l’organizzazione delle case è pensata simultaneamente ai servizi comuni e alle installazioni sociali collettive»4.
Oggi può sembrare per lo meno ingenuo lo slancio e la passione degli urbanisti italiani se confrontiamo i loro progetti, le loro prospettive, con quello che invece è avvenuto nelle nostre città in questi ultimi quindici anni, se notiamo cioè come l’istituto del quartiere sia stato distorto e sia servito soprattutto per urbanizzare quei terreni compresi fra il centro e il quartiere stesso, più o meno sovvenzionato, costruito quasi sempre all’estrema periferia, ai margini del territorio comunale, senza servizi né sociali né culturali né ricreativi, e in definitiva non abbia rappresentato altro che un contenitore per quella emigrazione interna che confluiva sempre più numerosa e piena di speranza verso la città. Inoltre, nonostante la sua periferica ubicazione, ha continuato – proprio per la mancanza di servizi – a gravitare sul centro antico sfruttando, fino al limite del possibile, le attrezzature e le infrastrutture esistenti.
L’errore di allora è stato appunto quello di non aver saputo individuare questa distorta utilizzazione del quartiere e soprattutto di non aver saputo immaginare l’esplosione urbana che iniziava proprio in quegli anni a investire le nostre città. Constatato l’insuccesso di questa tendenza la cultura urbanistica ha cercato altre soluzioni per organizzare la struttura urbana e la problematica del quartiere è stata presto abbandonata dimenticando così la casa e la città dell’uomo per approdare verso nuovi ideali (o meglio verso altri «miti» e altri interessi).
Ma l’apporto culturale ha avuto una sua funzione stimolatrice e un suo intrinseco significato: ha avuto la forza di sensibilizzare prima alcuni amministratori e in seguito gli stessi cittadini, e alcune tesi allora sostenute sembrano ancora valide o quanto meno dovrebbero essere sperimentate ed inserite nella nuova realtà.
Naturalmente i quartieri ipotizzati dagli urbanisti erano tutt’altra cosa rispetto ai quartieri in cui è stata suddivisa Bologna, anche se la loro origine politico-amministrativa risente del clima culturale di quegli anni, e infatti in un programma elettorale, diventato famoso, si propose «il riassetto e l’espansione della città per quartieri organici» con termini propri della cultura urbanistica. Inoltre il quartiere progettato dagli urbanisti era di dimensioni molto modeste, per un numero di abitanti che raramente superava le 10.000 unità; e anche questo fatto ha contribuito a declassare l’idea stessa di quartiere poiché il ritmo di espansione è stato talmente superiore da inghiottire nel giro di pochi anni i modesti quartieri edificati.
Fallita la missione di creare la città attraverso i quartieri di tipo urbanistico, possiamo e dobbiamo riorganizzare il territorio cittadino attraverso i quartieri di tipo amministrativo, in gran parte già costruiti (e oggi molto più di 10 – 15 anni fa) o perlomeno già definiti urbanisticamente da vecchi piani regolatori. Questa operazione, d’altra parte, è possibile farla solo a Bologna in quanto è stata la prima città a recepire e a realizzare l’istituto del quartiere attribuendogli compiti e funzioni sempre più ampi. Possiamo così ritenere il quartiere, non visto in senso architettonico o urbanistico ma in senso amministrativo, quale nuova matrice per l’assetto della città futura.
L’urbanizzazione è stata ed è un fenomeno irreversibile della società industriale ed è irreversibile la sua conseguenza: la città – sia essa considerata come l’espressione del progresso della nostra civiltà, sia al contrario vista come il simbolo della fine – la «necropoli» – della civiltà stessa. Al di fuori comunque delle varie interpretazioni positive o negative che si possono fare alla città, occorre riconoscere che la nostra società non ne può fare a meno; e per questo occorre individuare le strutture, gli elementi, le funzioni che producono la vita della città e riconoscere come queste strutture oggi tendano ad isolare l’uomo. La tendenza alla concentrazione propria della città post-industriale, organizza l’aggregato urbano per classi, organizza cioè una città suddivisa nei diversi strati sociali che la compongono. Ed è sostanzialmente rimasta tale nonostante le trasformazioni avvenute all’interno delle varie classi (elevata, vecchia classe media, nuova classe media, proletariato) e nonostante la mobilità sociale che vede la tendenza di una continua ascesa alle classi superiori. In questa realtà si è formata a Bologna la suddivisione del territorio comunale in quartieri, i quali essendo delle entità in gran parte già definite – sia come contenuto sociale sia come assetto urbano – sono delle unità immobili, dei quartieri STATICI. Per statico intendo, almeno da un punto di vista urbanistico, un quartiere che è stato prodotto secondo le esigenze, o meglio le possibilità, della classe sociale che l’ha determinato e continua ad essere lo stesso «contenitore» anche quando la popolazione al suo interno si rinnova, e sia in continua evoluzione la funzione del quartiere all’interno della città e di questa nel contesto del territorio. Statico perché urbanisticamente, contrapponendosi alla mobilità residenziale da quartiere a quartiere, con la sua rigida struttura blocca la trasformazione culturale insita nella mobilità stessa e produce un livellamento generale che alla fine rende indifferenziato il volto dei quartieri, ormai l’uno identico all’altro, indipendentemente dallo strato sociale che li abita. Immobile, infine, perché il quartiere tende ad un completamento edilizio ed urbanistico che si attua – senza nessuna resistenza – con lo stesso metodo e gli stessi principi che sono stati usati fino ad ora per produrre la parte edificata. In questo quadro l’unità di vicinato o tutti quell’insieme di servizi che genericamente si definiscono «assistenza sociale» non sono altro che una forma di controllo, un paternalistico aiuto, per riuscire ad integrare nella città l’abitante più periferico.
Da qui l’insuccesso, a mio avviso, parallelo a quello urbanistico, di tutte quelle forme di assistenza sociale che si sono manifestate in Italia negli ultimi 20 anni. Insuccesso per il mancato obiettivo di creare attraverso queste strutture una partecipazione e un’autocoscienza civica ai nuovi e ai vecchi abitanti, e questo perché per determinare una partecipazione non è sufficiente un sevizio sociale più o meno assistenziale, occorre – al contrario – un tipo di quartiere o meglio di città che non porti all’isolamento dell’uomo. In questo senso vanno esaminate quelle istituzioni che dovrebbero offrire un particolare contributo alla qualificazione dei servizi sociali così come sono stati intesi fino ad ora; dagli asili nido, «che sono il primo servizio sociale di assistenza a livello di quartiere»5, alla cui organizzazione occorre assicurare «l’intelligente e consapevole» partecipazione di coloro che ne usufruiscono, alla organizzazione assistenziale per le persone anziane che deve essere fatta in modo del tutto diverso da quello attuale. Occorre evitare di pensare ai quartieri come ad una moderna versione delle «contrade senesi» o di una comunità che trova nelle «competizioni» lo spirito di gruppo e la forza ideale dell’unione, per cui non hanno più senso le unità di vicinato: generici servizi sociali o tutto ciò che si propone in termini moderni, medioevali parametri di vita comunitaria. Mi pare, anche se non si dispone di dati precisi, che la mobilità crescente da una zona all’altra della città sia uno dei fattori che più di qualsiasi altro impedisca di ritornare a strutture urbane che avevano un loro significato e una loro giustificazione quando, al pari della città, la popolazione era immobile.
Bisogna tener presente che non si «abita» in un quartiere, ma in una città e che questa città si sta identificando con il territorio circostante, per cui l’assetto urbano del quartiere deve corrispondere a questa situazione che impone strutture e infrastrutture completamente diverse da quelle del passato.
Il nuovo assetto urbano, la nuova organizzazione della città e quindi dei quartieri nasce da una situazione esistente caratterizzata da un ingiusto rapporto di distribuzione delle superfici, delle aree, necessarie alle attività civili siano esse pubbliche o private che si svolgono all’interno dell’aggregato urbano. L’assenza cioè di quello spazio che consente di realizzare quei due momenti diversi ai quali tende l’uomo e che i sociologi hanno suddiviso in due «sfere» distinte: la «sfera pubblica e la sfera privata»6; la prima individuata in quell’insieme di rapporti, di comunicazioni, di funzioni, di organismi che attraggono e aggregano nello stesso tempo l’individuo in gruppo, mentre la seconda si identifica nell’esigenza contrapposta di raccogliere l’individua all’interno del proprio nucleo familiare, isolato da qualsiasi forma di controllo. La stessa esigenza espressa da Le Corbusier al tempo dei primi progetti per l’unità di abitazione il quale diceva: «io metto l’alloggio nel cuore del binomio: individuale + collettivo e la libertà individuale viene assicurata se organizzo tutto ciò che il collettivo può offrire»7. Nei nostri quartieri la mancanza di spazi si trasforma nell’assenza di «collettivo» cioè nell’assenza di servizi e questa carenza si traduce in una conseguente limitazione della libertà dell’uomo. Limitazione sia nell’ambito collettivo (pubblico), nel cui contesto l’uomo finisce per rimanere sempre più isolato, sia in quello della libertà individuale (privata) perché l’assenza di servizi comuni si riflette negativamente nell’organizzazione della vita domestica. Questo stato di cose si è prodotto per una serie di fatti più volte denunciati che vanno dal meccanismo di sviluppo delle nostre città e in particolare ai vincoli insiti nella proprietà del suolo; alla produzione di beni di consumo, per bisogni fittizi, che contrastano con il ritardo che si manifesta nel settore dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, della sicurezza sociale, ecc. ecc.; ma al di fuori di questi gravi condizionamenti può esistere – deve esistere – ugualmente la possibilità di dare una nuova e diversa organizzazione spaziale e spirituale al territorio urbano.
Bologna appartiene alla categoria delle città già edificate, pur distinguendo una parte ancora libera ed una parte costruita nella quale però è possibile fin da ora indicare i futuri interventi in quanto la durata di quelle costruzioni è solo quella commerciale e quindi se ne può già preventivare la sua durata. La grande preoccupazione, del momento attuale, è quella che i quartieri continuino ad ampliarsi o ad essere trasformati nello stesso modo in cui si sono sviluppati in questi anni. Se non si interviene in tempo a modificare e a dare un nuovo indirizzo allo sviluppo urbano, l’istituto e la funzione del quartiere avrà una battuta d’arresto con conseguenze negative non solo per l’assetto del quartiere ma per tutta la città. E’ necessario quindi che i nuovi interventi siano tali da costituire una resistenza alle attuali tendenze. Questa resistenza, a mio avviso, si può ottenere considerando:
- il quartiere come servizio sociale specifico, e cioè evitando la tradizionale distinzione fra abitazioni e servizi, fra la residenza e le attività ricreative, culturali e spirituali, in quanto non si può ritenere abitazione una casa senza i naturali «prolungamenti» dei servizi comuni8;
- gli spazi per le attuali e future necessità degli abitanti del quartiere e quindi della città, relativi alla «sfera pubblica» e a quella «privata» (quel binomio collettivo più individuale che diceva Le Corbusier);
- il grado di differenziazione che contribuirà a qualificare la struttura del quartiere attraverso una serie di elementi capaci di definire una particolare fisionomia del quartiere rispetto agli altri, una sua autonoma presenza nel contesto urbano pur rimanendo fermi i rapporti di dipendenza, di collegamento, con la città, con il centro, con gli altri quartieri o con le zone particolari della città stessa.
Il quartiere inteso nella sua globalità come servizio sociale specifico, impone una progettazione coordinata e contemporanea delle case e dei servizi comuni. Poiché le città sono l’espressione del livello di vita sociale dei suoi abitanti, la presenza dei servizi diventa la presenza indispensabile per iniziare quel processo di ristrutturazione urbana che può avvenire proprio attraverso i quartieri. In questo quadro anche la casa deve essere considerata un sevizio sociale.
Sulla questione dei servizi, sulla loro dimensione, localizzazione, uso, si è detto abbastanza in un precedente convegno sui centri civici in cui emerse, fra l’altro, molto chiaramente, come il centro civico non debba essere inteso come un edificio a sé stante, come monumento al quartiere, ma come parte, dipendente e indipendente, di tutte le attrezzature civili, religiose, culturali, ricreative e residenziali relative al quartiere stesso. Si disse allora che il centro civico poteva costituire una forza primaria per determinare gli spazi liberi del quartiere, ed è indubbiamente quello della ricerca del pubblico spazio libero uno dei problemi più assillanti oggi per la vita della città. Non solo e non tanto perché è in gran parte già edificata, ma soprattutto perché – lo ripeto – si preoccupati da fatto che le aree ancora libere siano presto occupate e privatizzate dal altre costruzioni. Per evitare questo dobbiamo uscire dalla visione ristretta del quartiere e considerarlo come parte indipendente ma anche dipendente della città e non un piccolo paese a sé stante: una «contrada senese» questa volta in gara per conquistare il primato della superficie sottratta alla inesorabile avanzata delle costruzioni: non c’è dubbio che occorra proporre resistenza all’occupazione indiscriminata del suolo comunale e questa resistenza si può attuare con una pianificazione urbanistica, di tipo nuovo, alla cui elaborazione siano chiamati a partecipare tutti i cittadini del quartiere, ma la pianificazione e la partecipazione non deve esaurirsi all’interno del quartiere, occorre considerare anche la destinazione di quelle aree, di quelle superfici, che non fanno parte del territorio del quartiere, ma che sono ugualmente indispensabili alla sua esistenza; come la collina, per esempio, o altre zone localizzate nel comprensorio bolognese.
Il quartiere non deve essere considerato un qualche cosa di fisso e di immobile, ma un elemento che appartiene ad un contesto urbano che muta, che varia, con l’evolversi della città e del territorio circostante. Di fatto nella prospettiva di una città integrata con il territorio è indispensabile superare gli attuali confini amministrativi del quartiere in quanto il rapporto non sarà più fra quartiere e città, ma fra quartiere e città-territorio.
Nei quartieri saturi di costruzioni, dove tutto il suolo è stato occupato, la battaglia per un nuovo assetto urbano si dovrà svolgere su due direzioni: la prima deve evitare che si verifichi nelle altre parti del territorio la stessa saturazione dal momento che, come si è detto, questi quartieri non possono fare a meno di quelle aree ancora libere; la seconda deve programmare una ristrutturazione che consenta di prevedere anche in questi quartieri la possibilità di essere trasformati in organismi adatti ad essere abitati.
Trovati e vincolati gli spazi a quelle funzioni pubbliche e private (collettive ed individuali) nel cui centro si colloca la vita – o se vogliamo, la casa – dell’uomo, la struttura urbana del quartiere e quindi della città e quindi del territorio diventa realmente un servizio sociale; al di fuori di questi spazi non solo è impossibile una reale ristrutturazione del quartiere ma qualsiasi tentativo di creare un servizio sociale rappresenterebbe un ulteriore fallimento; la residenza continuerebbe ad essere subordinata ad altre strutture, condizionando, limitando ed isolando il cittadino.
L’altro aspetto consiste nel qualificare questi spazi del quartiere attribuendo anche delle funzioni specifiche non ritrovabili in altre parti della città e del territorio. Come ad esempio un teatro, un certo tipo di cinema, certe attrezzature sportive che a volte possono essere utilizzate da tutta la città.
Siccome l’intervento pianificatorio non deve essere calato dall’alto, ma elaborato all’interno dei quartieri, in questa sede si potrebbero studiare e indicare quali di queste attrezzature corrispondono maggiormente alle esigenze o ai desideri di quel quartiere e ottenere così una valida indicazione per qualificare il quartiere stesso nel contesto della città e del suo circondario.
Il quartiere, inteso, nel suo insieme con tutte le sue componenti, come servizio sociale in rapporto con gli altri quartieri, con la città e con il territorio ad essa interessato, rappresenta il modello a cui tendere per definire la nuova organizzazione urbana del quartiere stesso.
E’ un obiettivo lontano nel tempo e che può essere raggiunto solo attraverso fasi successive e solo con la diretta partecipazione degli utenti del quartiere alla definizione delle loro esigenze o delle loro speranze. In fondo la discussione per un nuovo assetto urbano potrebbe costituire il primo stimolo per iniziare ad organizzare un lavoro si gruppo. Comunque questa diretta partecipazione, non dovrebbe esaurirsi a livello di consiglio di quartiere, ma dovrebbe investire l’intera collettività in quanto dipende dal potere di questa partecipazione l’effettiva trasformazione del quartiere da ammasso edilizio condizionante a servizio sociale specifico capace di contribuire alla promozione dell’uomo e quindi alla «socializzazione» urbana.
Come la città anche l’istituto del quartiere ha i suoi difensori e i suoi denigratori; quelli che ci credono e quelli che ancora lo ritengono uno strumento utilizzabile a fini politici; ma il quartiere è la sede più idonea per realizzare una pianificazione urbanistica relativa e continua, una sede indispensabile per controllare gli effetti della pianificazione stessa perché può tradurre in realtà le indicazioni del piano attraverso i cittadini. Centinaia di cittadini, che per agire debbono essere interessati all’esecuzione delle proposte contenute nel piano.
Alla fine non si tratterà solo di un problema di pianificazione, ma di ciò che si usa chiamare «gestione» del quartiere; occorre perciò predisporre un insieme di strumenti e di luoghi suscettibili di indurre i cittadini e i diversi organismi ed enti cui essi appartengono ad operare nelle direzioni indicate da quel piano che loro stessi hanno contribuito a redigere.
Certamente per questa elaborazione e collaborazione all’assetto urbano del quartiere è necessario attribuire anche un maggior peso decisionale al quartiere stesso e una diversa struttura organizzativa. In questo modo la presa di coscienza dell’individuo maturerà parallelamente allo svilupparsi della città e da questo incontro degli abitanti del quartiere potranno scaturire forme nuove di pianificazione, svincolate dagli schemi rigidi dei tradizionali piani regolatori caratterizzati da una «fissità dogmatica, quasi fossero delle verità raggiunte nel tempo e nello spazio» e soprattutto attraverso questi incontri il quartiere diventa veramente il supporto alla socializzazione stessa e forma l’unità di base per costruire tutti insieme «la città del dialogo»9.
da: Comune di Bologna, Assessorato al Decentramento e ai Centri Civici, Quartieri e servizio sociale, atti della tavola rotonda tenuta a Bologna il 4, 5, 6 dicembre 1967, a cura di Egeria Rescigno
NOTE
1 G. Samonà, L’urbanistica e l’avvenire delle città (Bari 1959).
2 L. Quaroni, «Città e quartiere nella attuale fase critica di cultura», La Casa n. 3 (Roma s.d.).
3 L. De Rita, «Sociometria e studio del quartiere» (Ibidem).
4 L. De Luigi, «Per una storia del concetto di quartiere» (Ibidem).
5 Cfr. La relazione di Adriana Lodi sull’organizzazione dell’assistenza nel quartiere, pag. 100. In questa relazione appare molto chiaramente come l’attuale organizzazione urbanistica del quartiere contrasti con le esigenze, già acquisite, di nuovi e diversi servizi sociali la cui ubicazione e conformazione dovranno essere tali da condizionare la costruzione dell’intero quartiere.
6 H.P. Bahrdt, Lineamenti di sociologia della città, (Padova 1966).
7 Le Corbusier, L’unité d’Habitation de Marseille, (Parigi 1946).
8 Per servizi comuni si intendono quelle attrezzature di carattere sociale, esistenziale, ricreativo, culturale che dovranno far parte integrante del quartiere nel senso di appagare quelle esigenze espresse nella citata relazione di A.Lodi.
9 G. Michelucci, «La città del dialogo» in Testimonianze 76-77 (Firenze 1965).