Negli ultimi vent’anni l’idea di sviluppo per quartieri si è ampiamente affermata, ma si tratta più che altro di una affermazione di principio, a cui non corrispondono le pratiche, salvo nel caso delle new town britanniche. Contemporaneamente è nata una tendenza opposta, critica a questo principio, che è quella di unità che nulla hanno a che vedere con quella di quartiere, come quelle segregate per razza, fascia sociale, reddito, e che considerano l’intera città come unica entità urbanistica di riferimento. Certo tracciare un confine divisorio così netto e antagonista pare prematuro, dato che non ci sono state molte occasioni di sperimentare l’unità di quartiere, e ancora meno di osservarne sistematicamente i risultati. Cosa curiosa, le posizioni favorevoli o contrarie a considerare il ruolo centrale di questa dimensione hanno coinvolto personalità davvero inattese: si vede Frederic J. Osborn, granitico sostenitore della città giardino di dimensioni contenute, poco favorevole alla definizione fisica dei quartieri, mentre gli urbanisti di Amsterdam, nonostante siano impegnati ad aumentare la popolazione della loro città sino alla quota di un milione, proseguono nella scia di linee di sviluppo tracciata dalla generazione precedente, ovvero quartiere per quartiere, considerati come unità sociali.
Molte delle discussioni sul tema hanno solo confuso problematiche che avrebbero invece dovuto chiarirsi, e il mio obiettivo qui è riprendere la questione e rendere possibile un approccio più razionale, per l’una o l’altra posizione. Per puro caso ho iniziato a rifletterci e a scrivere quando ero a Parigi, e a rivedere il testo quando mi trovavo a Venezia. Due ambienti urbani in cui la questione se il quartiere esista o no a comporre la grande città, pare davvero puramente accademica, cosa assurda e creazione artificiosa di sociologi romantici. Parigi, con tutta la sua razionalità cartesiana, è comunque una città di quartieri, spesso con caratteristiche architettoniche molto definite, e altrettanto individuabili caratteri sociali. Una zona di Parigi non è solo una circoscrizione definita da un codice postale o da confini amministrativi, ma possiede radici storiche; il senso di appartenenza a un dato arrondissement o a un certo quartier è fortemente avvertito dal negoziante, da chi frequenta un bistrot, dal piccolo artigiano parigino. Una appartenenza così intensa che avrebbe soddisfatto anche le esigenze di Adam Wayne, il Napoleone di Notting Hill creato dalla penna di Chesterton.
Non si tratta certo di una impressione soggettiva o da turista. M. Chambert de Lauwe coi suoi collaboratori ha iniziato a pubblicare i risultati di una indagine sui parigini e la loro città, da cui si comprende come anche se per lavoro qualcuno si muove a scala urbana, la maggior parte degli abitanti è legata al quartiere di appartenenza, dove si trovano tra l’altro tutti i riferimenti dell’esistenza quotidiana, dal caffè, alla sala da ballo, alla chiesa, alla fabbrica o altra attività dove si lavora. La cosa eccezionale di Parigi, sospetto, non è tanto questa realtà, ma il modo in cui chi ha costruito concretamente la città, nonostante i tentativi di arrivare a un tutto omogeneo, sia invece riuscito a rafforzare questo sistema di attività e riferimenti locali di una parte significativa della popolazione entro perimetri circoscritti
Passando a Venezia, si tratta di una città di quartieri, determinarti dalle parrocchie delle chiese o da una piazza principale, e ci ricorda come il centro medievale fosse composto esattamente così: la chiesa con un ruolo comunitario, il mercato come riferimento commerciale, entrambi collocati in modo facilmente raggiungibile a piedi da tutti. Lo stesso termine «quartiere» ci ricorda come la città, dal medioevo fino al sedicesimo secolo, era suddivisa per quarti, ciascuno con una propria porzione di mura da difendere, in genere con meno di 25.000 abitanti, con proprie chiese, mercati, laboratori artigiani. A Firenze, per esempio, ciascuno dei sei «quartieri» eleggeva due consoli, e quindi si definiva anche come unità politica. Ciò non impediva alla città di funzionare come entità unica, ad esempio quando in certe occasioni celebrative gli abitanti si riunivano in centro, a pregare nella Cattedrale, o ad assistere a rappresentazioni in qualche loggia. Le dimensioni di quei quartieri andavano più o meno da 1.500 a 6.000 abitanti, salvo in città particolarmente grandi come Firenze, Milano, Parigi.
Il quartiere è un fatto naturale
Pare praticamente quasi impossibile che qualunque città, più o meno progettata, non si organizzi in qualche modo, o non si caratterizzi, per quartieri. Anche nella Manhattan della griglia ortogonale e regolare, pensata proprio perché nessun quartiere potesse nascervi, si sono comunque sviluppate alcune entità definite, come Yorkville, Chelsea, Greenwich Village, pur prive di particolarità architettoniche salvo la sequenza storica dei propri edifici. In qualche forma rudimentale si può dire che il quartiere esiste come fatto naturale, che lo si riconosca oppure no, che gli si attribuiscano o meno caratteri e funzioni. Vicini significa persone che vivono le une accanto alle altre, condividere il medesimo spazio è la forma elementare di relazione sociale, ed essere a portata di sguardo da chi ci sta vicino la forma più semplice di associazione.
Un quartiere si compone di chi ci è nato, o di chi ha scelto di starci, e tutti conducono una vita comune; i vicini sono tali non perché condividano interessi o origini, ma semplicemente dalla prossimità dei loro alloggi. Una vicinanza che li rende consapevoli l’uno dell’altro, che li fa interagire in comunicazione diretta, attraverso legami associativi o di scambio. Nei momenti di crisi, in caso di incendi, funerali, feste locali, i vicini diventano più fortemente consapevoli l’uno dell’altro, in grado di esprimere notevole cooperazione, ma in essenza il vicinato si regge esclusivamente sulla pura coabitazione. Nulla di forzoso in questa relazione, che non deve essere affatto profonda: basta un cenno di riconoscimento, una parola amichevole, un viso conosciuto, ed ecco fissato o rinnovato in qualche forma il senso di comune appartenenza. Nessun rapporto di amicizia, o di interesse particolare, in questo scambio del vicinato, anche se relazioni diverse ne possono nascere, per esempio di parentela per matrimoni. L’abitarci a lungo, il possedere degli immobili, rafforza il legame elementare.
Comunque sia il quartiere in qualche forma primitiva ed elementare esiste ovunque esseri umani si aggreghino, in alloggi familiari stabili; e molte delle funzioni urbane tendono a distribuirsi spontaneamente – ovvero senza per forza corrispondere a qualche teoria o decisione politica – per vicinati. Una netta divisione planimetrica, come accade a Pittsburgh, o di carattere più storico come a Londra, legato al tipo di costruzioni, alimenta ulteriormente la consapevolezza di tale situazione. L’aggregarsi attorno ad alcune funzioni domestiche o civiche, è complementare ad altre aggregazioni, come avveniva un tempo coi mestieri in certe aree, e professioni o attività di un certo tipo tendono a definire distretti, a volte certe vie, come Harley Street, o «isole» come Inns of Court a Londra.
Nel definire un vicinato è importante distinguere tra l’aspetto delle attività e quello delle fasce sociali, e nelle città americane nel corso dell’ultima generazione, si sono create divisioni di casta sulla base della razza o del reddito, con lo strumento dello zoning o delle convenzioni, a ridurre gli intrecci dell’interazione umana. Nella sua profonda sfiducia verso queste forme di organizzazione tanto lontane dai principi della democrazia, Reginald Isaacs, tra i più critici di un certo modo di progettare per quartieri, attribuisce direttamente al principio del vicinato il vizio della specializzazione e della segregazione, che invece il moderno concetto di Neighborhood Unit in realtà vorrebbe spezzare. E certamente la natura selettiva di queste zone dovrebbe chiarire all’osservatore attento che non si tratta certo di unità di vicinato, anche quando la pura coabitazione induce alcune relazioni.
Il raggruppamento spontaneo per quartieri, così chiaro sino al diciassettesimo secolo, tende a scomparire con i primi Piani sistematici, dalla Amsterdam seicentesca alla New York ottocentesca, anche se ad esempio resiste in una crescita di tipo più organico come quella avvenuta a Londra. Perché? Una delle risposte sta nella segregazione per fasce di reddito nel capitalismo, con una separazione netta tra ricchi e poveri; l’altra è un aspetto tecnico, e riguarda la diffusione delle automobili e il ruolo urbano della grande arteria. Nel diciannovesimo secolo lo sviluppo dei trasporti fa diventare la grande arteria stradale la componente dominante della progettazione urbana, da struttura per l’insediamento a infrastruttura per il movimento. Grazie alla grande arteria di traffico, spesso a scorrere brutalmente sovrapposta al tessuto urbano che un tempo definiva organicamente vicinati, la città diventa forse più unita tra le varie parti, ma al costo di distruggere o quantomeno fortemente indebolire la vitalità dei quartieri.
Là dove – come nelle città americane – il sistema stradale a griglia regolare impedisce o frammenta uno sviluppo per quartieri, le singole componenti urbane perdono sempre più caratteri distintivi. Certo la composizione edilizia e l’articolazione delle funzioni umane conferiscono ancora qualche residuale colore alla città che cresce, ma la grande arteria, percorsa da tanti mezzi di trasporto meccanico, interrompe non solo la ritualità dell’appartenenza, ma anche l’aspetto e l’atmosfera di strade minori e architetture, di luoghi identificabili e da amare: in un certo senso il quartiere riesce solo a sopravvivere nelle zone vecchie, o nelle migliori periferie, come consapevolezza evidente dell’abitare e del relazionarsi. Altrove l’infinita uniforme arteria di traffico, la collocazione casuale degli edifici pubblici, compone un incubo indecifrabile, ed è molto più probabile smarrirsi, in una città così, che ritrovarsi in un quartiere.
Il centro comunitario al cuore del vicinato
Questa la situazione all’inizio del ventesimo secolo; era così cancellata l’idea di quartiere, che nel primo tentativo di progettare una nuova cittadina autosufficiente, gli urbanisti Raymond Unwin e Barry Parker non cercarono neppure di organizzare o indicarne, di vicinati. L’enfasi era tutta sulla città nel suo insieme, concepita unitariamente. Ma quasi contemporaneamente emergeva in America un movimento in grado di mettere in discussione questo stato delle cose. Aveva due componenti, una prima di tipo scientifico, derivante da Charles Morton Cooley, che in una serie di libri dedicati all’organizzazione e ai processi sociali descriveva il ruolo svolto dalla comunità delle strette relazioni quotidiane, degli interessi condivisi, ben diversa da quella della consapevole affiliazione o delle propensioni particolari. Ciò che la sociologia tedesca chiamava Gemeinschaft, contrapposta alla Gesellshaft, sottolineava Cooley, si basava su gruppi elementari spontanei che avevano relazioni «date». Per quanto l’esistenza nella metropoli fosse in qualche modo articolata o appiattita, alla fine restava nel nucleo centrale delle sue attività il medesimo processo di lealtà che si riscontra nei villaggi.
Ma questa riscoperta del vicinato come importante elemento di vita urbana si sviluppava anche da altre origini: l’impoverimento sociale, e l’integrazione sociale. Nell’East End londinese, Canon Barnett coi suoi collaboratori scopriva un deserto urbano privo delle più elementari basi di vita sociale, affondato nella barbarie. La creazione di un riferimento con Toynbee Hall, significò un edificio che fungesse da luogo di ritrovo, in cui tutti gli abitanti potessero insieme divertirsi, educarsi, socializzare. Questa struttura (chiamata a volte anche Neighborhood House in America) rispondeva a tanti bisogni della grande città, specie quelli derivanti dall’anonimato e dalla solitudine, e non sorprende certo che sorgesse circa vent’anni dopo il caso londinese, un analogo movimento di ceto medio a Rochester, nello Stato di New York, diventato noto col nome di Community Center.
I sostenitori di questo movimento intendevano animare la vita civile mettendo a disposizione uno spazio, un luogo di discussione, che rappresentasse una base per attività comunitarie prive di sede di riferimento. Uno degli esponenti principali, Clarence Perry, era spinto dalla propria analisi dei bisogni di ritorno del quartiere alle proprie funzioni originarie, funzioni sospese o indebitamente trasferite altrove dalla crisi della città tradizionale. Un ragionamento che lo condusse dall’idea di vicinato a quella della Unità di Vicinato: dalla semplice coabitazione alla creazione di una moderna comunità urbana e sociale. In termini di progettazione urbanistica, questo significa cambiare la base di riferimento del piano, dall’isolato o dalla grande arteria, al più complesso quartiere o vicinato, riflessione che comporta un riequilibrio spaziale fra arterie principali e percorsi di accesso, fra edifici pubblici e spazi aperti o domestici. Più in generale, una nuova idea di città.
Un altro fattore che stimola la consapevolezza sul tema del quartiere è lo sviluppo del suburbio, specie del suburbio progettato unitariamente da un solo grande operatore. Nei casi migliori, come Bedford Park o Hampstead Garden Suburb a Londra, Roland Park o Guilford a Baltimora, Riverside a Chicago, Kew Gardens a New York, il sistema stradale capillare, i viali alberati e gli spazi pubblici, le architetture romantiche, fanno comprendere l’idea di unitarietà estetica. Del resto anche i primi esperimenti di centro commerciale progettato e coordinato avvengono in corrispondenza delle stazioni ferroviarie suburbane. Sono pochissimi invece i quartieri del suburbio misti: la segregazione per reddito e classe sociale è il carattere dominante, salvo forse nel caso di quelli cresciuti più gradualmente a partire da un originario villaggio. Quando però si creano ambienti domestici di scala superiore a quelli possibili in città, il suburbio genera un primo bisogno di consapevolezza civica a scala di vicinato.
Nonostante le classificazioni di città proposte da E.L. Thorndyke non rappresentino certo una guida infallibile, le posizioni di vertice occupate dai suburbi non dipendono solo da sbilanciati criteri di classe. Dal punto di vista dell’organizzazione per quartieri sono indubbiamente dotati di strutture che mancano alla disorganizzata degradata metropoli, nonostante il suo primato culturale o economico. In una ipotetica futura storia dell’urbanistica, dovrebbe apparire chiaro come gran parte delle nuove idee di progettazione – open plan, superblocchi, separazione di percorsi pedonali e veicolari, parkway, centri commerciali, e infine anche l’unità di vicinato – trovino la propria origine nel suburbio. Dal suburbio così come dai quartieri storici della città tradizionale discende invece l’idea secondo cui il vicinato debba possedere una certa coerenza architettonica, sia nelle forme spaziali generali che nel progetto dei singoli edifici.
Il movimento per i centri comunitari si esaurisce attorno al 1920, insieme a un altro tentativo forse più ambizioso, quello della Social Unit di Cincinnati, che mirava a recuperare a livello di quartiere le istituzioni democratiche. Entrambi lasciano però un segno indelebile, dato che sviluppano concetti semplici a lungo dimenticati, che avevano condizionato profondamente, almeno in America, la progettazione urbana. In primo luogo il riconoscere la necessità di un edificio a fungere da luogo di ritrovo comunitario; secondo, conseguentemente, che la scuola elementare, struttura istituzionale sempre presente, dovesse essere munita anche di spazi adeguati, sia per i bambini che per gli adulti, e operare sull’arco di tutta la giornata. Quindi i requisiti minimi per un centro comunitario diventano la base standard di progettazione delle scuole quasi ovunque negli Stati Uniti; dentro a questi edifici, anche in città piuttosto arretrate quanto a spazi civili come New York, iniziano a svilupparsi tantissime attività di quartiere. Storicamente il nucleo centrale della Unità di Vicinato, si consolida prima che l’idea stessa si definisca pienamente e ne costruisca gli spazi. L’atto finale è quando Clarence Perry pubblica il suo studio sull’argomento come contributo all’indagine della Russel Sage Foundation per il Piano Regionale di New York.
Ma l’idea di ripensare la città sulla base dei vicinati in realtà si era già articolata in due filoni. Lo stesso Perry nella sua indagine, si era probabilmente basato anche sulla pubblicazione dei risultati di un oggi dimenticato concorso, bandito dal Chicago City Club per la progettazione di una superficie standard della città fissata in 260 ettari. Un’area che oggi gran parte di noi difficilmente considererebbe un vicinato, ma che suscitò una serie di proposte assai interessanti, sia per l’epoca che ancora oggi. Quei risultati del concorso, pubblicati durante la prima guerra mondiale e dimenticati, focalizzavano l’attenzione sull’integrarsi dei vari spazi domestici della città, dalla casa al mercato alla chiesa alla scuola e altre entità, tutto quanto serviva alla scala locale anziché alla città nel suo insieme.
Poco tempo dopo quella pubblicazione, Raymond Unwin, senza alcun dubbio tra i più geniali innovatori urbani della sua generazione, pubblicava sulla rivista del Town Planning Institute (1920-1921) uno studio sulla Distribuzione, in cui si domandava: «Sino a che punto è possibile per la città che cresce collocare nel modo più adeguato la propria vitalità?». E si rispondeva: «Credo che una buona distribuzione delle varie parti della città, una chiara definizione delle varie aree, potrebbe molto in questo senso. Ciascuna zona destinata a svilupparsi localmente,deve essere dotata di ogni struttura per i vari aspetti della vita praticabili a quella dimensione. Lavoro e occupazione per la maggior parte possibile degli abitanti; mercati locali e nuclei di negozi per le necessità quotidiane; servizi scolastici e per il tempo libero. Non appare logico avere una Università in ciascuna di queste zone, ma forse scuole superiori. Né ci si deve aspettare una Albert Hall per grandi concerti o un Kensington Oval per gli eventi sportivi ovunque, ma perlomeno una sala da musica, un teatro, e campi di gioco che non obblighino a spostarsi per qualsiasi esigenza di tempo libero».
Nel suo articolo, Unwin anticipa anche la nuova funzione della greenbelt, che già aveva intravisto con Hampstead Garden Subrub, quando osserva: «Si rileva che questo tipo di distribuzione dipende dalla quota di spazio aperto messo a disposizione attorno a ciascuna area, che così serve a due scopi. Offre ambienti per la ricreazione, il giardinaggio e attività simili, e contemporaneamente perimetra la zona e la separa da altre, conferendole unitarietà e identità. Riguardo all’importanza di questa definizione posso confermare quanto scrivevo nel 1919, osservando come le fasce di verde che delimitano le nostre antiche parrocchie e rioni, contribuiscano ad alimentare il senso di unitarietà di un’area».
Esperimenti con l’Unità di Vicinato
Descrivendo un processo di una certa complessità, si è spesso tentati di riassumere in un paio di figure di riferimento ciò che invece rappresenta il risultato di molti contributi da direzioni diverse. Tuttavia, così come Perry non «scopre» certo il principio del vicinato, o le Corbusier l’architettura moderna, allo stesso modo il lavoro di entrambi accresce enormemente di valore, focalizzandolo, il lavoro di molti. Nella sua riflessione, Perry certamente non va oltre ciò che già diceva Unwin, salvo riempire di senso e proposte concrete ciò che il primo aveva lasciato vuoto. Prende il quartiere come fatto, e ci mostra come attraverso una progettazione mirata lo si possa trasformare in ciò che chiama neighborhood unit, o equivalente moderno del quartiere medievale, della parrocchia, dell’unità amministrativa base: una entità portata ad esistere non semplicemente sulla base della spontaneità istintiva, ma attraverso un pianificato decentramento delle attività, che per eccesso di centralizzazione avevano smesso di servire la città nel suo insieme.
Perry cerca di determinare quali strutture ed entità possano servire la vita domestica: quante persone corrispondano a una scuola elementare, a un nucleo commerciale, una chiesa e così via; e quale forma del sistema viario possa ricostruire un quartiere coerente, con le funzioni di base a distanza pedonale dalle abitazioni. Col sussidio di planimetrie e schemi, supera i risultati di quel concorso di Chicago nella descrizione di una unità ideale, un quartiere integrale. Alcuni dei caratteri di questo progetto ideale forse non reggerebbero a un esame più dettagliato, ma fissare la distanza massima dalla casa più lontana al parco o al campo da gioco, o alla scuola, stabilire che le grandi arterie di traffico debbano essere deviate tutte attorno al quartiere e non attraverso ad esso, o uno standard fisso del dieci per cento della superficie a parchi e giardini significa dare un contributo di non piccola entità all’idea di città moderna.
Prima ancora della pubblicazione del lavoro di Perry sulla neighborhood unit, gli architetti Stein e Wright nel loro progetto per Sunnyside Gardens a Long Island, nonostante il condizionamento della griglia stradale ortogonale esistente, avevano creato un quartiere in cui spazi aperti campi da gioco e piccole strutture di incontro diventavano componenti integrali della residenza. Nel caso di Radburn svilupparono il medesimo concetto, consultando anche lo stesso Perry e le autorità scolastiche, in un progetto comunitario. Pensata nel 1928 e realizzata nel corso dei tre anni successivi, Radburn incarna la nuova concezione dell’unità di vicinato. Le principali arterie della città vengono deviate attorno, non la attraversano; lo spostamento dei pedoni avviene principalmente su una spina verde che forma il centro e stimola le relazioni dirette; al centro dei vari vicinati componenti sta una scuola elementare, con campo da gioco e piscina; negozi e servizi sono concentrati in un nucleo dotato di parcheggio per le auto, anziché sparpagliati lungo un’arteria di traffico.
La popolazione di ciascun vicinato si calcola in numero di famiglie necessarie ad alimentare una scuola elementare. Le autorità scolastiche di New York consultate all’epoca propendono per scuole di grosse dimensioni molto dotate di strutture, e ciascun quartiere è calcolato da 7.000 a 10.000 persone, portando a una certa rigidità successiva nello stabilire le dimensioni più adeguate per una unità analoga. Salvo nei casi in cui esiste una densità sproporzionatamente elevata, la quota massima andrebbe fissata piuttosto verso i 5.000 abitanti , oltre i quali si dovrebbe iniziare a pensare a progettarne un altro, di vicinato. Non esiste invece una quota minima, specie per quanto riguarda le varie strutture a cui far corrispondere una popolazione. Per quanto riguarda la città nel suo insieme, la cosa principale perle unità di vicinato è il limite della crescita ed estensione: per definire i quartieri e mantenere forme, deve esistere un nucleo centrale di riferimento, e un margine esterno a conferire limite e identità.
Il concetto di Perry sviluppa ulteriormente la nozione elaborata in Germania, di suddividere la città per parti specializzate. Considerando le zone residenziali come funzione, da differenziare nel piano rispetto a quelle commerciali o industriali, si fissa la necessità di pensarle in modo integrato come nuclei, dove la dimensione accettabile è quella data dalla possibilità di raggiungere da casa a piedi un campo da gioco distante non più di 400 metri, il doppio per andare a scuola, o altri spostamenti meno determinabili come quelli a cui è disponibile una donna di casa per raggiungere mercati o negozi. Si tratta di cose apparentemente di tale comune buon senso, da chiedersi chi mai oserebbe metterle in dubbio.
Là dove le correlazioni spaziali risultano ignorate – come spesso avviene nella non-urbanistica irrazionale e discontinua della nostra epoca – tutti i componenti di una comunità pagano un prezzo in termini di tempo perso, spese, scomodità, sovraccarico per le infrastrutture di trasporto, spesa pubblica per nuove arterie di traffico che sarebbero altrimenti inutili, o semplicemente rinunciando a servizi che sarebbero propri di qualunque quartiere residenziale. Il vicinato si basa sostanzialmente sulle necessitò delle famiglie: specialmente su quelle delle madri e dei figli dalla più tenera età all’adolescenza; oltre che sui bisogni di tutte le fasce di età, di accedere a strutture comuni di tipo culturale, dalla scuola alla biblioteca, dalla sala riunioni al cinema alla chiesa. Avere tutto ciò a una breve distanza da casa, significa garantire ad ogni membro della famiglia la possibilità di usarlo, mentre avere le stesse cose sparpagliate invece per la città senza criterio, specie in luoghi distanti, vuol dire scoraggiarne l’uso, spesso impedirlo del tutto se ci sono di mezzo i ragazzi che non possono essere sempre accompagnati.
Quanta autosufficienza-definizione
In uno dei suoi attacchi al principio stesso dell’unità di vicinato, Reginald Isaacs esamina una zona di Chicago ricostruendo una mappa delle attività familiari che lì si svolgono: la carta mostra un teorico vicinato tanto definito quanto privo di strutture sociali, salvo scuola e un negozio alimentare, mentre poi le altre attività familiari si estendono su un raggio che va da tre a trenta chilometri di distanza. Su questa base l’autore si domanda: è possibile che un qualunque vicinato contenga tutte le attività di una normale famiglia? Una questione al tempo stesso ingenua e pretestuosa. Osservando meglio i tipi di attività se ne notano due gruppi, il primo quello delle attività occasionali, come la visita a un conoscente che abita lontano, o una vacanza in montagna, o acquisti particolari, o una giornata di lavoro in una situazione specifica industriale necessariamente fuori zona. Insomma tutte cose che nessuno si sognerebbe mai e poi mai di concentrare in un quartiere. Ma poi ci sono altre attività, come andare a un ambulatorio, in biblioteca, al cinema, in chiesa, al parco o al campo giochi, nei normali negozi, posti che oggi di norma si trovano tutti fuori da quel vicinato, e dimostrano invece quanto tempo ed energia un abitante di una città oggi spreca in spostamenti non necessari: nessuna di queste attività non troverebbe qualche giovamento ricollocandosi dentro una unità di vicinato.
Anche se non ci fossero tutti gli altri vantaggi del relazionarsi diretto e dello scambio amichevole e della coesione politica indotti da una progettazione per quartieri, li si potrebbe giustificare esclusivamente per pure ragioni economiche. Se vogliamo in qualche modo provare a risolvere il problema del trasporto urbano, ciò avverrà localizzando un maggior numero di servizi e strutture raggiungibili a piedi dalle abitazioni; visto che l’efficienza del veicolo a motore privato varia in rapporto inverso rispetto alla densità di popolazione e della quantità di traffico generato. Tutto ciò non significa che un quartiere o vicinato debba praticamente o idealmente essere del tutto autosufficiente. Di fatto nessun tipo di organizzazione sociale, dalla famiglia allo Stato, lo è totalmente. La più grande metropoli in realtà non è più autosufficiente del più piccolo vicinato: dipende da remote fonti di energia, cibo, materie prime e prodotti finiti; e poi nel caso di operazioni come un delicato intervento chirurgico neppure la più grande città può garantire il miglior servizio, che magari si trova invece in un centro minore. Le sole funzioni per cui un vicinato può diventare autosufficiente, sono quelle domestiche, e quelle che da queste derivano. Il quartiere si costruisce attorno alla casa, pensato per trarre i migliori vantaggi dalla cooperazione nelle famiglie, e ne risulta più libertà, piacere, efficacia, nel rispondere ai bisogni della vita familiare in tutte le situazioni.
In breve, l’idea che l’esistenza di quartieri definiti possa rappresentare un ostacolo all’uso complessivo della città non val neppure la penna di essere discussa: al contrario, è solo attraverso un decentramento della maggior quantità possibile di funzioni in sede locale, che quelle accentrate possono evitare sovraccarico e difficoltà di fruizione. Talvolta si tratta di un decentramento praticabile con l’aiuto di qualche strumento tecnico, come quando a milioni grazie agli apparecchi televisivi partecipano a una partita di football, a cui non sarebbe possibile assistere in più di cinquantamila; ma in altri casi il processo deve assumere forme di posizionamento della struttura nel contesto adeguato, a fungere da servizio della comunità. Appare più semplice programmare vicinati nelle zone di nuova urbanizzazione, in cui si progetta tutto lo spazio, piuttosto che in quartieri già esistenti, con vie e limiti di proprietà a rendere assai più difficili le cose.
Per lo stesso motivo, una pianificazione per quartieri appare agevole quando la proprietà dei terreni è di un ente pubblico o di un solo operatore privato, invece che quando è già stata suddivisa in unità minori di trasformazione. Ma anche con quartieri già esistenti, perlomeno dove non sia già intervenuto un degrado o distruzione tali da renderli «zona da ricostruire», è possibile intraprendere azioni per integrarli in una logica di vicinati, attraverso un progetto di nucleo centrale, la riorganizzazione di funzioni in posizioni più adeguate anziché sparpagliate a caso per la città, rimediando anche alle tendenze di ricentralizzazione di quanto oggi ancora disponibile localmente agli abitanti. Non sono molto efficaci, le funzioni centrali, per chi abita lontano da esse, a causa dei lunghi spostamenti necessari a fruirne: anche quando la popolazione è disponibile a quegli spostamenti – come avviene ad esempio nel caso della fedeltà ai grandi magazzini commerciali – il solo concentrarsi in un solo luogo di strutture spesso conduce all’inefficienza, fosse soltanto per la necessità di vendere in quantità maggiori e rifornirsi da remoti depositi.
In America, e prima di tutto nelle grandi città, le grosse strutture commerciali hanno cominciato sin dagli anni ’30 a distribuire le proprie attività per filiali nel suburbio, anche se quando parlai di questa necessità al presidente della catena Macy’s nel 1929, lui replicò che si trattava di un sogno assurdo: il successo, riteneva, stava nel «tenere tutto sotto un medesimo tetto». E invece ciò che era iniziato coi grandi magazzini via via si estende come principio al decentramento di servizi comuni di vicinato, dai musei alle biblioteche, agli ospedali (soprattutto le strutture sanitarie). Salvo necessità molto particolari, ogni ente dovrebbe cercare di moltiplicare sé stesso a scala di quartiere. Nel caso della maternità per esempio, una struttura di vicinato è preferibile sia al parto in casa, spazio inadeguato e forse sopravvalutato, sia a quello in una struttura ospedaliera troppo lontana, salvo in casi in cui serve un intervento chirurgico: il servizio di quartiere offre esattamente le medesime garanzie evitando tanti disagi alla madre e a tutta la famiglia.
In tutti questi aspetti le riflessioni di Perry, eccellenti che fossero trent’anni fa, oggi devono evolversi oltre le pratiche correnti. L’organizzazione per vicinati pare l’unica risposta pratica al gigantismo e inefficienza della metropoli ultra centralizzata. Per conservare le strutture specializzate centrali e i loro servizi specifici, disponibili a scala regionale, occorre scaricarle dal peso di svolgere funzioni puramente locali e minori. Nella Biblioteca Centrale di New York non ci sarebbe spazio per gli studiosi, se non fosse per le biblioteche locali organizzate in rete metropolitana, presenti in ogni zona della città. Una teoria che ha vastissime applicazioni, e sostiene il principio del decentramento per vicinati nella prospettiva dell’ente centralizzato.
La creazione di un quartiere comporta qualcosa di più che non un progetto secondo forme diverse da quelle sinora dominanti nella grande città indifferenziata. Perché richiede la messa a disposizione, nello spazio e nel tempo e nelle correlazioni, di una serie di entità di vicinato, dalla scuola, al luogo di riunione, negozi, caffè, ristoranti, piccoli teatri. Per questo serve una attività continua da parte della pubblica amministrazione: solo dall’esistenza di una offerta organica di tutte queste strutture e servizi, il vicinato spontaneo si trasforma in quanto possiamo definire una vera e propria unità di quartiere. Idealmente, l’unità assume l’antica forma di associazione, mai del tutto sopita anche nella città più disorganica, e la riorganizza secondo uno schema tale da amplificare e arricchire ogni genere di attività quotidiana. E nel farlo, lungi dal frammentare il funzionamento della città nel suo insieme, rende anche più efficace il sistema associativo allargato, che non deve più pensare a svolgere un ruolo rivolto alle comunità locali, oltre a quello urbano, confondendo indifferenziatamente tutto.
Il fatto che – lasciatemelo ribadire ancora – tante significative funzioni urbane siano occasionali, e si collochino al di fuori dei quartieri, o che tanta parte della vita adulta si svolga al di fuori degli ambienti domestici, non fa diminuire l’importanza delle funzioni locali. Nè il continuo ricambio della popolazione in una grande città mina la qualità formativa di una buona progettazione di quartiere. Esiste forse un luogo a maggior ciclo di ricambio di popolazione dell’Università, che si rinnova completamente sull’arco di quattro anni? Eppure, nessuno può negare che il sistema degli edifici e la concentrazione degli studenti nel quartiere universitario facciano parte integrante del meccanismo di formazione, in grado di plasmare l’intera esistenza di chi ci è stato, anche solo per un breve periodo. Università che invece sparpagliando istituti su una vasta area metropolitana perderebbero sia le economie che lo esprit de corps che un quartiere compatto garantisce.
Nuovi problemi di una progettazione per quartieri
Non c’è bisogno di sottolineare quanto l’accettazione del principio di vicinato di per sé non risolva affatto la questione del progetto: al contrario solleva inediti quanto interessanti problemi. Il primo di una certa importanza è quanto isolamento si debba garantire a un quartiere, salvo quello inevitabile determinato dalle grandi arterie di traffico. In città come Pittsburgh, i cui definiti caratteri topografici unitari sono stati articolati molto nettamente per vicinati, privi di correlazione reciproca al punto che anche uno studente delle superiori frequenta senza uscire dalla propria zona di residenza, si evidenziano i rischi di uno «spirito isolazionista», in cui migliore la qualità intrinseca di un quartiere, maggiore il pericolo di autocompiacimento e chiusura psicologica. A Filadelfia la medesima idea ha ostacolato la realizzazione di una serie di ponti sul fiume Schuylkill a collegare direttamente il suburbio di «Main Line» con Germantown e Chestnut Hill, che preferivano stare per conto proprio.
Gli architetti Stein e Wright a Radburn hanno concepito dei vicinati sovrapposti, col nucleo commerciale a servizio e punto di convergenza e mescolanza, oltre a collegare ogni parte al tutto attraverso la spina verde continua e i sottopassaggi, al tempo stesso percorsi pedonali e parco. Entrambe le soluzioni paiono preferibili all’isolamento assoluto del tipo imposto da ampie fasce di verde a cuneo nelle new town britanniche. Quando una interposizione viene utilizzata per definire un quartiere, non la si dovrebbe al tempo stesso sfruttare, sia formalmente che economicamente, per integrarlo al resto?
Il secondo problema, è sino a che punto consentire una certa omogeneità di classe e fascia – del tipo molto accentuato negli ultimi anni negli Stati Uniti con le ordinanze di zoning – e quanto invece si debba mirare a un quartiere, e più in generale a una città, concepita in modo più misto, con case per i redditi alti e redditi bassi. Secondo la mia esperienza personale, di abitante in una zona non segregata, a Sunnyside Gardens, con parecchie diverse fasce di reddito (da 1.200 a 12.000 dollari l’anno) che abitano fianco a fianco, sono convinto si tratti del tipo migliore di organizzazione. Si in termini di formazione dei giovani, che di vitalità delle istituzioni democratiche, tutto gioca a favore di una comunità mista. Qui si può invocare anche un altro principio, che mi sembra applicarsi a diversi aspetti del progetto: quello che un quartiere dovrebbe essere rappresentativo della società più in generale. E che dovrebbe risultare a mio parere dirimente tanto quanto le dimensioni che consentono di raggiungere facilmente caffè o ristoranti a breve distanza.
Detto in altri termini, anche tutto ciò che sta al di fuori del quartiere e appartiene per così dire alla vita adulta, in forme più specializzate, dovrebbe trovare anche lì un suo campione semplificato, disponibile per la comunità locale, conferendo quella varietà oggi così carente nelle zone residenziali. La mescolanza di fasce economiche e sociali dentro un medesimo vicinato dovrebbe corrispondere a una varietà di tipi di abitazione e densità di insediamento. Uno dei migliori esempi dei vantaggi architettonici di questo tipo di composizione è la zona di Lansbury a Londra, ricca di fascino e varietà, nonostante i suoi trecento abitanti ettaro circa, e che manca invece ad altri quartieri dove si arriva a meno della metà.
All’inizio non tutti i vicinati possono essere socialmente attrezzati delle strutture necessarie ad una vita comunitaria. Sembra cosa prudente riservare una certa quota di superfici di riserva da usare in un periodo successivo a questi scopi. Così ci saranno alcune “isole” nel sistema stradale dove potrebbe trovar spazio una chiesa, un cinema, un gruppo di negozi, a cui non si può provvedere precisamente nel piano preliminare. Sino alla eventuale destinazione finale, queste superfici possono essere lasciate a verde o orti. Altra questione da sperimentare, nel progetto di quartiere, è sino a che punto pensare spazi e strutture interessanti sia i più giovani che gli adulti. Oggi la società, in Inghilterra e in America, ha finito per accettare una certa segregazione per fasce di età, in cui giovani e anziani nel tempo libero nulla hanno a che spartire l’uno con l’altro. Ma in Francia o in Italia, su viali o piazze, le varie età coesistono. A Roma in Piazza Navona, ad esempio, gli adulti si incontrano per chiacchierare o mangiare insieme, ma a portata di sguardo i piccoli giocano per conto proprio, tornando a volte “alla base” per rassicurazione e conforto, o qualche boccone. Al Peckham Health Centre, è stato stabilito che di norma le famiglie usino insieme il medesimo centro ricreativo, con l’obiettivo di una maggiore integrazione reciproca; si tratta di un positivo progresso, dal punto di vista morale, rispetto alla separazione tra giovani e adulti e/o al conferimento di ruoli professionali di controllo.
C’è molto spazio per l’innovazione, qui: nuovi tipi di spazio urbano, più liberi dal traffico veicolare di quanto non possa essere una piazza italiana o quella del mercato a Harlow, un ambito più intimo del viale tipico parigino o dello slargo a Hemel Hampstead; ma circondato dal tipo di strutture e funzioni che possono unire giovani e adulti a portata di sguardo reciproco nel tempo libero, così che gli adulti non siano confinati in casa, né i bambini lasciati troppo soli. In questo modo una re-integrazione della famiglia diventa un obiettivo della progettazione di un vicinato. E nascono nuovi problemi architettonici: altezze e proporzioni degli edifici, rapporti tra spazio aperto e costruito, apertura, chiusura. Qui ci sono tante nuove riflessioni da fare sui progetti, visto che reagendo alla congestione della grade città pare che i nostri architetti cerchino semplicemente più spazio, disposti a sacrificare a questo anche aggregazione e socialità.
Impegnati a cercare più spazio, dimenticano la qualità, dello spazio urbano, degli ambiti pubblici adeguati a certe funzioni. Nel vicinato, più che altrove, è necessario recuperare quel senso di intimità e spazio interno smarriti dentro le gigantesche proporzioni della città, dalla velocità dei trasporti. L’architetto moderno deve ripensare in nuovi termini il cul-de-sac, la corte, il portico, recuperando forme originarie e adattandole alle esigenze di oggi. Non basta sospirare di ammirazione per le forme di Piazza San Marco, per produrre il genere di spazi di cui ha bisogno la città moderna, il quartiere moderno. E proviamo a concludere con una sintesi. Il vicinato è un concetto sociale, esiste in forma nascente anche senza alcun progetto o consapevole intervento delle entità che operano per funzioni abitative. Ma attraverso una consapevole progettazione e programmazione il quartiere può diventare parte organica integrata della città. Dibattere i problemi del progetto di quartiere porterà a soluzioni in grado di sviluppare ulteriormente il concetto fissato nelle ricerche di Clarence Perry, sperimentato concretamente a Radburn, o applicato su più vasta scala nelle new towns britanniche. Ora probabilmente è arrivato il momento per ripensare un quadro complessivo delle funzioni sociali del quartiere, per una interpretazione più sottile e comprensiva dei bisogni delle famiglie, in tutti gli stadi e i cicli dello sviluppo umano, una ricerca e una esplorazione davvero avventurosa di soluzioni alternative.
da: The Town Planning Review, gennaio 1954 – Titolo originale: The Neighborhood and the Neighborhood Unit – Traduzione di Fabrizio Bottini
Immagini: Alfred Yeoman (a cura di), City Residential Land Development: Studies in Planning, The City Club of Chicago-University of Chicago Press, 1916; Forest Hills Gardens, The Sage Foundation Homes Company, New York 1912
BIBLIOGRAFIA
- American Public Health Association, Committee on Hygiene of Housing, Planning the Neighborhood, Public Administration Service, Chicago 1948;
- Charles Horton Cooley, Social Organisation, New York 1909;
- James Dahir, The Neighborhood Unit Plan: Its Spread and Acceptance, a Selective Bibliography, Russel Sage Foundation, New York 1947;
- Reginald R. Isaacs, «Are Urban Neighborhoods Possible?» Journal of Housing, luglio-agosto 1948;
- Clarence A. Perry, The Neighborhood Unit: a Scheme of Arrangement for the Family Life Community, Regional Plan of New York and its Environs, Vol. VII, New York 1929;
- Flora e Gordon Stephenson, Community Centres, The Housing Centre, Londra 1946;
- Russel W. Tyler, «The Neighborhood Unit Principle in Town Planning», The Town Planning Review, luglio 1939;
- Raymond Unwin, «Distribution», Town Planning Institute Journal, 1920-21;
- Alfred Yeoman (a cura di), City Residential Land Development, Chicago 1916
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