C’era una volta un Re: rilassato, nell’ozio dell’ultimo sole autunnale, che un po’ troppo distratto firmava la sua condanna a morte. La condanna verrà poi eseguita una sera estiva di qualche anno dopo, a duecento metri dal tavolino della firma. Pare l’inizio di una fiaba per spaventare i bambini, ma è solo il contenuto di un documento urbanistico: il Regio decreto 16 ottobre 1886, Sistemazione di via Borghetto e della Strada per Villa Regia, a Monza. Si legge nell’intestazione che il decreto viene materialmente firmato dal re d’Italia Umberto I, proprio su una scrivania che sta in fondo a quella Strada per Villa Regia. Un’occhiata alle mappe svela poi che quella Sistemazione stradale serve a far svoltare il tram da cui scenderà la sera del 29 luglio 1900, Gaetano Bresci con la sua pistola, a vendicare i morti dei moti popolari spietatamente repressi dal generale Bava Beccaris.
Ma non c’è sempre bisogno di cercare casi tanto particolari: l’urbanistica, alla faccia di chi vorrebbe sempre ridurla in un modo o nell’altro ad aspetti tecnici oggettivi e misurabili, dimostra invece sempre di essere un ricco serbatoio di storia sociale, di immaginario collettivo, idee per il futuro, riflessioni sulla condizione umana. Per trovare splendide descrizioni di vita quotidiana nelle città, o dei sogni di città, non è sempre indispensabile rivolgersi alla letteratura di denuncia o di genere. Spesso basta scorrere le introduzioni e spiegazioni degli estensori di piani regolatori, per scoprire tante cose.
Il corpo e l’anima
C’è all’inizio l’idea di organismo urbano, che nel XIX secolo sul tavolo del progettista/chirurgo viene dissezionato nelle parti componenti, per ricomporlo, modificarlo, risanarlo. Per esempio a Venezia, dove oltre le immagini già da cartolina delle sue gondole e damine, o i quadri eroici risorgimentali dipinti da Ippolito Nievo, ospita una popolazione (tripla di quella attuale) operaia, marinara, in condizioni spaventose: «se si considera in quali specie di lupanari essa è rinchiusa, si può ben dire che questa classe infelice non ha niente da farsi invidiare dalla popolazione agricola che nelle città dell’Italia meridionale forma il ribrezzo dei viaggiatori»[1]. Sul tavolo operatorio si tracciano linee geometriche esatte e misurabili, figure schematiche pe collocare indagini mediche, rilievi della municipalità, dati raccolti dalle parrocchie. Riga, squadra e compasso invece del bisturi e dei punti di sutura, fra simboli grafici nuovi a rappresentare nuovi obiettivi. La città antica tortuosa è ritagliata dalle linee nette della certezza scientifica: «ci sembra di aver diviso la città in quattro scompartimenti, ciascuno dei quali ha una fisionomia propria e circostanze particolari che noi tenteremo di delineare partitamente per poi comporne una sintesi»[2].
Il municipio di Bologna discute verso la metà degli anni ’80 il proprio piano regolatore, ed esamina prima altre esperienze, quelle che secondo l’ispirazione della legge italiana dividono la città fra quartieri esistenti, da risanare col Piano Regolatore Edilizio, e zone di espansione per cui disegnare in grandi lotti regolari del Piano Regolatore di Ampliamento. Notano però gli amministratori bolognesi: «ma una delle ragioni principali, che possono indurre un municipio a stabilire un piano regolatore, può rimanere, con questo procedimento, frustrata»[3]. Meglio, molto meglio, il chiaro contenitore logico ed evidente del grande disegno unitario che sappia reggere nel tempo, che dia la possibilità di uno sguardo sinottico ma preciso. È l’idea stessa di piano regolatore, che si sposta da una sequenza di atti amministrativi e di spesa, a un vero e proprio progetto, guadagnando in chiarezza e (ciò che non guasta mai) capacità di provocare consenso. Ne avrà un gran bisogno di consenso, sui quarant’anni preventivati per dare forma definitiva a quello schema.
Davanti al grande disegno diventa possibile ponderatamente giudicare se «sotto il punto di vista storico ed archeologico, … conservare qualche parte dell’antica costruzione, in modo da tramandare ai posteri il tipo della sua struttura e le tracce del suo andamento»[4]. Con una città che allarga le sue strade verso l’esterno a cercare maggior respiro, ci si aspetta che anche i cittadini seguano almeno virtualmente un percorso simile. È a loro che si rivolge, in fondo, il grande disegno, e tutti devono ricordarsi che si tratta di un contenitore che deve essere riempito dall’iniziativa dei singoli e gruppi, senza aspettare alcuna improbabile manna dal cielo: «quest’attività e quest’industria devono essere in grado di assegnare alla realizzazione del piano regolatore dei capitali anche maggiori di quelli, che il Comune è tenuto di dedicarvi»[5]. Chiaro, no?
Terre di mezzo
Cesare Albertini, capo dell’ufficio urbanistica di Milano tra le due guerre mondiali, replicava ai suoi critici che gran parte delle trasformazioni proposte dal Comune erano scelte obbligate, da programmi sviluppati molti anni prima. Certo gli strascichi del passato, della città oscura e malata del XIX secolo, sono sia una questione ancora da risolvere, sia un modo di vedere la città radicato nella cultura tecnica. Gli elaborati dei concorsi, in gran voga nel periodo fascista come palestra per gli allenamenti di metodo dei giovani architetti-urbanisti, non vanno oltre la cartellonistica da mostre, «dormono i loro sonni tranquilli negli archivi municipali: … l’improvvisazione e la superficialità sono evidentemente destinate all’insuccesso; soltanto con uno studio accurato di anni e di decenni, … si possono studiare opere di tanta difficoltà e di tanta mole!»[6].
Tornano implacabili i temi dell’ampliamento della città ottocentesca, solo con qualche aggiustamento di linguaggio. Il grande anello di circonvallazione di solito lungo la vecchia cinta muraria, non ancora dominato dalle auto e soluzione di continuità con i quartieri più nuovi, mentre però silenziosamente la Fabbrica Italiana Automobili Torino inizia a pensare ad una produzione meno elitaria, che sconvolgerà la pace di quei viali da passeggio. Grosso problema, l’arretratezza culturale di chi dovrebbe prevedere il futuro ma non si accorge delle cose che cambiano sotto il suo naso. Il Piano Regolatore di Ampliamento per Padova, è approvato per esempio per i soli quartieri esterni nel 1924, dove già nel dibattito su Bologna del 1885 era chiara la necessità di sintetizzare in un grande unico disegno il futuro condiviso della città. Vero che i problemi non sembrano proprio sembrano quelli di una frizzante swinging age metropolitana: «gineprai di costruzioni, che costituiscono una permanente offesa ai più elementari precetti dell’igiene e della viabilità … in località prive di fognatura, di illuminazione, di acqua, … della maggior parte dei benefici della civile convivenza»[7]. A problemi antichi, verrebbe da dire, si rendono adeguate soluzioni antiche.
Resta comunque enorme la distanza fra un dibattito teorico anche italiano, dove i riferimenti sono il razionalismo del primo le Corbusier, o i sobborghi alla Raymond Unwin, o la cultura riformista delle siedlungen tedesche, e questa miscela di problemi e culture arretrati. Altrettanto difficile prendere partito pro o contro i giovani turchi del futuro fascistissimo e pimpante Istituto Nazionale di Urbanistica, che sarcastici dileggiano gli uffici municipali e i loro piani regolatori, la cui principale colpa sembra essere quella di esprimere bene o male la società locale[8]. Almeno nei concorsi di idee banditi dalle podesterie, la ricerca trova lo spazio negato dalla produzione corrente di piani urbanistici, meglio ancora quando poi ne nasce l’iter perfetto: competizione fra idee, dibattito locale, redazione e approvazione.
È il caso di Foggia, dove si cerca una sintesi fra la bonifica integrale fascista, e il regional planning internazionale. Il bando di concorso chiede «distinti piani regolatori per borgate rurali capaci di accogliere complessivamente circa 2.000 famiglie. Dovrà pertanto il progettista designare fin d’ora le località ove tali borgate potranno sorgere, prevedendole site oltre la strada di circumvallazione. Dette borgate verranno collegate alla città mediante comode strade in modo da far affluire rapidamente in essa prodotti dell’industria agricola»[9]. In un confronto con le idee tradizionali, salta all’occhio come la circonvallazione smetta di essere l’ottocentesco passeggio e anello di connessione fra centro e periferia, per diventare il limite di una moderna greenbelt agricola.
La città come organismo è ora materiale vivo su cui operare a tutto campo, ampliando analisi e progetto al bacino alimentare regionale, anche se non mancano temi classici, dal risanamento igienico, ai traffici interni, ai rapporti con la ferrovia. Siamo comunque a «una migliore comprensione del fenomeno urbano, una visione sempre meno locale e più regionale del problema. Il sistema di sviluppo urbano per unità periferiche ben individuate, anziché per anelli isotropi»[10].
Improvvisamente, la città moderna
Quando si fa urbanistica, ci vuole un gran sense of humour, con questo spirito Bruno Zevi invita gli studiosi italiani ad affrontare una nuova stagione di dibattito, fra ricostruzione e boom economico[11]. Ce ne vuole parecchio di umorismo, per provare a comprendere le bizantine sottigliezze fra una idea di «piano» inaccettabile in una economia liberale, e invece il «programma» dei partiti che si vogliono onestamente democratici e filoamericani. «È corrente il concetto, adulterato, del termine pianificazione come sinonimo di applicazione politico-economica di criteri strettamente dirigistici. Bisogna invece riconoscere alla pianificazione il significato logico di programmazione. … Accordiamoci, perciò, sul significato di pianificazione: il corretto, saggio e preordinato programmare una qualunque attività che non si esaurisca con l’atto che la enuncia. Tale definizione rimane, fuori di dubbio, legittima ed inalterata anche per l’applicazione del termine pianificazione in campi, per scopi e con aggettivazioni diverse implicanti, spesso, principii dottrinali»[12]. Mah!
Quelle citate, sono frasi di un assessore di Cremona, che forse coi campanili dell’Emilia rossa che spuntano dietro gli argini e i pioppeti, si vuole allontanare anche tecnicamente e culturalmente da un’urbanistica dirigista e comunisteggiante, di intelligenza implicita col nemico. Sul paese nel dopoguerra è inopinatamente arrivata la modernizzazione automobilistica: che ne sarà ad esempio delle piazze, dove il ruolo centrale dell’uomo e delle sue attività sembra soccombere sotto il peso delle lamiere, in movimento o parcheggiate?[13] Il veicolo privato fa scomparire del tutto il vecchio anello a verde e edilizia rappresentativa ella circonvallazione tradizionale: resta una infrastruttura di mobilità complessa, «grande arteria anulare svincolata da ogni attraversamento a livello di linee ferroviarie ed altresì convenientemente attrezzata nella sezione e negli incroci e raccordi con le altre strade. Essa raccoglierà le varie correnti di traffico e le smisterà nelle diverse direzioni, scorrendo tangenzialmente alla città, ma non così vicino ad essa da interessarne la compagine edilizia»[14]. Non siamo certo alle freeway losangeline, ma il ruolo pare proprio analogo, almeno in prospettiva.
A Ravenna, luogo simbolo del nuovo ciclo di sviluppo industriale nazionale, il dibattito urbanistico ancora a fine anni ’30 si riduceva alla zona monumentale o «dantesca», e ai problemi della bonifica integrale nel resto del vastissimo territorio. Ora si ragiona nel quadro dei flussi padani e dell’Alto Adriatico: «il triangolo morto di cui è stata il centro e l’espressione prende vita e si inserisce in un sistema economico avanzato come quello della valle padana. Muta, fino a capovolgersi, uno degli elementi fondamentali che hanno fatto la storia di Ravenna, e le conseguenze non possono che essere addirittura rivoluzionarie»[15]. Si profila un ruolo moderno e direzionale per il centro, e una progressiva colonizzazione agricola, industriale, infrastrutturale a scala comunale allargata. L’idea moderna di ambiente scaturisce dalla somma dei vari fattori: il tempo libero, la tutela del paesaggio, il crescente ruolo del turismo.
Nell’era del boom economico quella società che tutti abbiamo vissuto o intravisto ad esempio nel Sorpasso di Dino Risi, «rifugge dal soggiorno in località attrezzate per cercare ambienti naturali il più possibile indenni da interventi umani e capaci di esercitare un richiamo soltanto in forza della loro originale bellezza. Pressoché tutto il litorale ha tali caratteristiche e capacità … ed il turismo naturista lo ha riconosciuto»[16]. Poche parole, che testimoniano il salto fra un uso contemplativo del paesaggio, e il consumo di massa, anticipando anche una possibile controtendenza pianificata rispetto all’altro uso che sarà di lì a pochi anni caratteristico: lo sprawl dei cosiddetti «lidi» di seconde case.
Conclude questo brevissimo, ideale percorso fra documenti di piano regolatore e frammenti di storia sociale, una serie di immagini dal nord-est fine anni ’60. Treviso prepara l’ultimo progetto cittadino prima della delega alle Regioni della competenza urbanistica. La relazione dell’ingegnere incaricato testimonia una fase matura, forse tecnocratica o burocratica dell’approccio alla città. Si nota però il nuovo rapporto che il centro storico prova a instaurare con le invadenti, striscianti funzioni terziarie che ne svuotano le case e prosciugano la vitalità sociale. Si ritiene «pericoloso, per la conservazione delle caratteristiche del centro storico, non prevedere e non scegliere oggi nuove aree destinate ad ospitare le future sedi direzionali. Avverrebbe fatalmente quello che è avvenuto in questi ultimi venti anni; e cioè una trasformazione delle vecchie strutture urbane»[17].
Come già sentito per Ravenna, c’è nuovo ruolo allargato dell’ambiente, degli spazi verdi, del loro definitivo passaggio da fiori all’occhiello per quartieri eleganti, a servizi così come li classifica il contemporaneo decreto sugli standards urbanistici. Per i parchi urbani «le stesse condizioni ambientali che oggi noi ricerchiamo in luoghi molto lontani dalla nostra residenza, in campagna, in montagna e sulle spiagge»[18]. E per le arterie extraurbane la funzione inedita di strada vetrina, che anticipa di qualche tempo il modello di strip mall all’italiana, ipermercati, motel, multisala, discoteche, commercio big-box. Quasi un ingresso ufficiale nel contesto che oggi chiameremmo post-industriale, e forse non è un caso se proprio contemporaneamente a quel piano per Treviso, lungo quella che la relazione chiama «rete della viabilità principale di adduzione alla città», a San Trovaso di Preganziol nasce il primo corso di laurea specifico in urbanistica. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Immagini: RAPu, Rete Archivi Piani Urbanistici, materiali di ricerca
Note
[1] Pietro Marsich, Sul riordinamento della Città di Venezia, Tipografia del Commercio, Venezia 1867, p. 8.
[2] idem, p. 4.
[3] Municipio di Bologna, Relazione della Giunta al Consiglio circa il Piano Edilizio Regolatore e di Ampliamento della Città [1885], Regia Tipografia, Bologna 1890, p. 25.[4] idem, p. 14.
[5] idem, p. 31.
[6] Giulio Tian, Prefazione a: Piano Regolatore di Ampliamento della città di Taranto, Relazione Tecnica [1922], ristampa Arti Grafiche Tornar, Pisa 1943-XXI.
[7] Comune di Padova, Piano Regolatore di Ampliamento della Città, Società cooperativa tipografica, Padova 1924, pp. 8-9.
[8] Significativa, a questo proposito, una breve citazione di costume dallo stesso documento: “malgrado le disposizioni di legge e dei regolamenti, questi trovano difficile applicazione fra la gente meno educata e meno civile (il costume dovrebbe precedere la legge, ciò che da noi purtroppo resta sempre un pio desiderio)”. ivi, p. 56.
[9] Comune di Foggia, Concorso nazionale per il progetto di Piano regolatore e di Ampliamento della Città [1928], Tipografica Editrice Fiammata, Foggia 1930-VIII, p. 8.
[10] Cesare Chiodi, Lo sviluppo periferico delle grandi città in Italia, in Atti del XIX Congresso Internazionale dell’Abitazione e dei Piani Regolatori, INU, Roma 1929. Chiodi, fra i partecipanti al concorso, era stato uno dei principali sostenitori della centralità della dimensione regionale del piano, anche in contesti ad economia agricola. Brevi citazioni sul caso di Foggia sono inserite in Comune di Foggia, Concorso nazionale … cit.
[11] “È dunque questo un congresso di urbanistica di tipo nuovo, che potrà essere noioso o divertente a seconda del sense of humour che avranno gli oratori anche discutendo di cose serissime”. Bruno Zevi, L’organizzazione al IV Congresso Nazionale di Urbanistica, in Istituto Nazionale di Urbanistica, La Pianificazione Regionale, Roma 1953, p. 18.
[12] Comune di Cremona, Piano Regolatore Generale, 1956, pp. 6-7.
[13] “Che fare? Siamo sinceri: o l’uomo-macchina ridiventa solo uomo e la piazza lo servirà mirabilmente; o rimane uomo-macchina ed allora dovremo rifare le piazze, ridimensionandole. Le stesse considerazioni valgono, seppure con minore evidenza, per le strade e, in generale, per tutto il vecchio assetto urbano. Come regolarci? In termini più generali: quali saranno le caratteristiche della civiltà della macchina?”. idem, p. 10.
[14] idem, p. 36.
[15] Comune di Ravenna, Piano Regolatore Generale – Relazione, s.d. [coordinatore Ludovico Quaroni, 1959], p. 6.
[16] idem, p. 28.
[17] Comune di Treviso, Relazione Illustrativa sul Piano Regolatore Generale, 1968, p. 50.
[18] idem, p. 66.