Il buco del topo
Stropicciatevi gli occhi. É grosso, bigio e scatoloso. Praticamente senza forma. Cos’altro potrebbe essere? Ci siamo. La prima occhiata a qualunque centro commerciale è al tempo stesso uno sguardo su cosa non va nell’architettura dei centri commerciali in generale. Dal di fuori, di regola, non danno un’idea chiara di cosa c’è dentro. Non è una bella cosa. Sembra che non si sia prestata attenzione a come appare l’edificio al cliente mentre lui o lei si avvicinano lungo la strada. Nessuno si è sognato di inventare qualcosa che suggerisca shopping, figuriamoci dirlo in modo chiaro, o gradevole, o interessante. La bruttezza di gran parte dei cigli stradali americani è scoraggiante, e i centri commerciali sono i più grossi edifici mai dedicati all’arte del commercio nella storia del pianeta. Dunque la loro goffaggine è di statura monumentale e proporzioni mastodontiche. Perché le cose stiano così, non è un grande mistero.
Nei secoli, i luoghi del commercio sono stati costruiti tendenzialmente dai mercanti. Che prendevano seriamente la propria responsabilità di attirare clienti. Creavano ambienti pensati per esporre le loro mercanzie, per dare alla clientela la sensazione di un attimo, di un avvenimento, di un luogo. Si può risalire alle antiche storas [sic] greche o ai bazaar e suk dell’era precristiana, e trovare già un’estetica mercantile operante. Un luogo di vendita non doveva essere carino o grazioso, né essere realizzato con materiali lussuosi. In molti casi, era vero l’esatto opposto: un ambiente dove i prodotti vengono offerti ai prezzi più convenienti deve dare la sensazione di essere senza fronzoli. Se si è interessati a frutta e verdure fresca, niente è più promettente di una rozza bancarella sul ciglio della strada, o di un rustico mercato contadino. Non si vuole che il chiosco di giornali del quartiere abbia l’aspetto di una leziosa gioielleria, né che un deposito di legname sembri un fiorista. In ciascun caso, l’aspetto del negozio deve riflettere la principale attività che ha luogo all’interno.
Diamo un’occhiata a qualunque città Americana che mostri ancora architetture di prima della guerra: potremo trovare almeno alcuni dei grossi empori del passato, i grandi magazzini. In molti casi, come a New York, ce ne sono ancora alcuni esempi: Bloomingdale’s, Saks, Lord & Taylor. I principi del buon commercio qui spuntano dappertutto, a partire dall’architettura. L’esperienza dello shopping inizia quando noi, clientela, vediamo per la prima volta l’edificio. A me, ha iniziato a far scorrere la linfa dell’acquisto. Ma c’è un’altra forza al lavoro. I principi mercanti erano uomini del XIXI secolo, spinti da ambizione, forza, determinazione a riuscire secondo le modalità molto concrete dell’epoca. I loro negozi erano degli alter ego, e questi titani del commercio avevano tutti grossi complessi edilizi.
I grandi magazzini di quei tempi portano il nome del proprietario : Gimbel, Macy, Wanamaker, Neiman Marcus, Marshall Field. Uomini che erano contemporanei di figure quail David Rockefeller o Andrew Carnegie, capitani di industria che hanno lasciato un marchio duraturo sul mondo. Gli edifici delle banche erano templi a un istinto, i municipi a un altro, i negozi a un altro ancora. Oggi, le architetture pubbliche esprimono ancora intenzioni e funzioni – stadi sportivi, biblioteche, alberghi, università – il loro aspetto di solito cerca di esprimere qualcosa a proposito di quanto accade all’interno. Al minimo, riescono almeno ad essere diversi l’uno dall’altro. Ma poi ci sono i centri commerciali.
In parte, la colpa è della loro storia poco gloriosa. Il mall discende dallo shopping center, che a sua volta discende dall’umile piccola fila di negozi di fronte a un parcheggio, prima formula commerciale partorita dal suburbio. Il principio organizzativo originario della distribuzione ispirato dalla vita automobilistica, è questa striscia di botteghe – qualche volta raccolte attorno a un supermarket – con 6-8 piccoli esercizi. C’è una fila di posti auto sul fronte, con facile rapido accesso e uscita rispetto alla strada. L’innovazione dello shopping center è di rivoltare le cose, in modo tale che i negozi non si rivolgano più verso la strada, ma l’uno verso l’altro: il cerchio dei carri dei pionieri suburbani, per così dire, ora circondato (anziché fronteggiato) dai posti auto. Da qui, è un passo breve mettere un tetto sopra il tutto. Questa storia, e il fondamentale girare le spalle agli occhi del mondo esterno, conducono il centro commerciale alle condizioni in cui lo troviamo oggi.
I centri commerciali di oggi fanno tristemente poco per segnalarci cosa accade all’interno. Ciò principalmente per un fatto di scollegamento interno. Ospitano attività commerciali, ma non sono posseduti, promossi, costruiti, da commercianti. Sono realizzati da compagnie immobiliari specializzate. Gli uomini che le dirigono non sono principi mercanti. Sono quelli che si prendono un rischio: reperiscono gli appezzamenti di terreno, trovano i finanziatori, ottengono tutte le autorizzazioni pubbliche, incaricano gli architetti, i costruttori, e via dicendo. Ma fanno soldi mettendo al lavoro lo spazio. Il loro ferri del mestiere sono un foglio di lavoro e un buon agente immobiliare. L’obiettivo è trasformare una zolla di prato suburbana in una miniera d’oro, in qualcosa che generi guadagni attraverso i canoni d’affitto, e una percentuale sui ricavi, non offrendo prodotti e servizi. È molto diverso dal modello economico dei loro inquilini, i negozi. Il mall esiste per contenere negozi: in pratica è un negozio di negozi. Ma non pensa a sé stesso come a un negozio. Siamo nel cuore di quello che manca ai centri commerciali, e che nel corso di questo libro si ripresenterà più e più volte.
Comunque, siamo qui. Cosa si vede? «Un grosso muro, con dentro un piccolo buco del topo», così mi è stata descritta la caratteristica architettura del centro commerciale: e si trattava del direttore di progettazione di una delle principali e più apprezzate imprese specializzate nel settore d’America. Se anche questo operatore si è adeguato a quella organizzazione corrente, di alte pareti cieche punteggiate di ingressi anonimi, non stupisce che la gran parte dei centri commerciali siano delle brutture, almeno dal di fuori. Il valore estetico è l’ultima cosa che venga in mente quando ci si immagina un mall. Ecco un problema.
Il fatto che alcuni centri commerciali siano ben progettati, semplicemente spiega perché tutti gli altri non lo sono. É caratteristico dei centri commerciali di città avere qualche qualità estetica. Hanno un bell’aspetto. Penso al Faneuil Hall, di Boston, uno dei più gradevoli angoli della città. É stato fatto così perché chi l’ha costruito sapeva che sarebbe stato un simbolo. Chiunque viene a Boston alla fine ci fa una visita. Un altro motivo per cui i entri commerciali urbani tendono ad essere ben progettati è che le amministrazioni municipali sono molto brave ad obbligare gli operatori immobiliari a costruire cose dotate di valore proprio che migliora il contesto circostante. Avvocati del comune, urbanisti, commissioni di controllo e uffici tecnici hanno una buona esperienza a estorcere compromessi che alla fine avvantaggiano tutte e parti.
Di conseguenza, i mall urbani di solito si inseriscono armoniosamente nel quartiere. Ciò accade in tutte le città del mondo. Lisbona, in Portogallo, ospita uno del più straordinari centri commerciali del mondo, il Vasco da Gama, realizzato in modo da sembrare una nave gigantesca. Anche il Diagonal Mar, a Barcellona, Spagna, riesce a fare di un mall una bellissima cosa. Il Bluewater, in Gran Bretagna, prima era una cava; a Atlanta, una ex acciaieria e famigerata zona dismessa contaminata, sta per essere trasformata nella Atlantic Station, complesso New Urbanist realizzato a integrare abitazioni, uffici, e commercio. Quindi, per i centri commerciali è anche possibile far meglio di quanto vanno a sostituire.
Ma immaginatevi cosa succede di solito quando un grosso operatore comunica le proprie intenzioni a un’amministrazione suburbana. Gran parte delle amministrazioni locali hanno poca esperienza nell’imporre accordi di questo tipo, dato che gran parte dei suburbi nel loro arco di esistenza hanno a che fare con pochi progetti del genere. Anche se l’amministrazione volesse giocare duro e obbligare l’operatore a spendere in una buona progettazione, o in qualche extra come un parco o centro civico, è il proprietario del mall ad avere tutte le carte in mano. É piuttosto facile spostarsi di qualche chilometro, in un’altra circoscrizione amministrativa. Consideriamo ora quanto uno shopping center contribuirà alle casse di un’amministrazione suburbana: un grosso centro di scala regionale può facilmente coprire gran parte dei costi di un sistema scolastico suburbano. É difficile dire di no, su un problema di qualità architettonica.
Il Mall of America, il più grande degli Stati Uniti e maggiore attrazione turistica del Minnesota, può anche essere sembrato bello su un tavolo da disegno. Ma è invecchiato male dopo l’apertura dell’agosto 1992. Si possono vedere macchie sull’esterno dell’edificio, e attraverso l’asfalto dei parcheggi ha cominciato a spuntare l’erba. É enorme e sgradevole. No ci si potrebbe immaginare Disney World o la Statua della Libertà lasciati degradare in questo modo. Eppure questo mall ha più visitatori di Disney World, Graceland, e il Gran Canyon messi insieme. La prossima volta che siete a un centro commerciale, invece di entrare direttamente provate a passeggiare lungo il perimetro. Sarà una delle passeggiate meno divertenti che avrete mai fatto. Sarete soli là fuori, su una stretta striscia di marciapiede, sempre che ce ne sia uno, di marciapiede – molti centri commerciali non li hanno – magari con una o due guardie della sicurezza a farvi compagnia (vi guarderanno da vicino, dato che qualcuno che cammina attorno a un centro commerciale è, per definizione, un tipo sospetto). Ci saranno quasi sicuramente degli arbusti, ben potati, ma si tratta di verde molto generico. Nessuno pensa che lo si possa mai guardare con qualche attenzione. Il suo unico ruolo è di essere verde.
L’edificio può anche essere in buone condizioni, a seconda dell’età e della qualità dei materiali usati, ma la superficie più essere comunque scalfita, incrinata, scolorata. Nessuno prende troppo sul serio queste cose, dato che nessuno pensa che si verrà mai qui a piedi a notarle. Si incontreranno senza dubbio i rappresentanti della nuova classe dei paria d’America: i fumatori. Si radunano vicino agli ingressi, di fianco a posacenere di dimensioni industriali. Occasionalmente qui fuori c’è anche qualche telefonatore cellulare, in cerca del campo ottimale.
Qualche centro commerciale ha delle vetrine davanti ai parcheggi, qualche altro no. Le vetrine sono un problema in un ambiente del genere, perché non esiste un vero avvicinamento pedonale all’edificio. Ci si può arrivare vicino guidando in cerca di un posto per parcheggiare, ma se si decide di esaminare la vetrina si rischia un incidente. Una volta parcheggiato, si schizza verso la destinazione: l’interno. Magari piove, o fa freddo. É facile che ci sia il vento, vista l’assenza di qualunque edificio vicino. E comunque, qui ci si viene per passeggiare al centro commerciale, non nel parcheggio. Un negozio può avere le vetrine più mozzafiato del mondo, ma nessuno ci farà gran caso, in mezzo a un parcheggio. Tutto accade all’interno.
Fashion Show, l’ultra-scintillante mall di Las Vegas, mostra un esempio unico di cura per le architetture e gli aspetti visivi a partire dall’esterno. É uno dei gioielli della Strip, e scusate se è poco. La tecnologia delle insegne diventa più spettacolare ogni giorno che passa: basta farsi una passeggiata in Times Square a New York, calamita dei turisti da tutto il mondo, ed essere testimoni di ogni variante di video digitali su enormi schermi televisivi, o «nastri» vivacemente colorati di notizie che scorrono ad alta velocità lungo facciate curvilinee. Le medesime innovazioni ci sono in qualunque impianto sportivo o sala per concerti rock: siamo una nazione di sofisticati all’avanguardia quando si tratta di nuove tecnologie della comunicazione visiva. I nostri occhi sono abituati a cercare l’ultimo ritrovato.
Naturalmente, è impossibile dimostrare che più attenzione alle architetture farebbe qualche differenza in un centro commerciale corrente. Alla fin fine, l’argomento regge: lo spazio del mercato non ha bisogno di una progettazione migliore, dunque perché spenderci dei soldi? Almeno, questo nel breve periodo. Oggi, con la maggior parte dei mall americani con un’età di oltre vent’anni, il problema di cosa fare dei centri che invecchiano si porrà presto. Se gli edifici avessero qualche valore in sé, probabilmente li restaureremmo, salvando almeno quelli che lo meritano. Ripristiniamo e ri-usiamo molte strutture collettive, come ex uffici postali, alberghi, biblioteche, anche chiese. Ma la gran parte dei centri commerciali sono troppo brutti e banali da meritarsi questo sforzo. Sono stati progettati per servire a uno scopo, niente di più, e una volta che non servono più, devono essere demoliti, sostituendoli con … non saprei. Magari qualcosa di peggio.
Adesso dobbiamo trovare un posto per parcheggiare.
Ehi capo, dov’è la mia macchina?
Bene, e adesso ci siamo davvero. Quasi davvero, direi. Dobbiamo ancora parcheggiare.
Dato che l’America vive con l’automobile, viviamo anche di fianco alla piazzola del parcheggio. Quando si ruminano tutte le motivazioni che hanno spinto gli abitanti delle città verso il suburbio, spesso si trascura la promessa di parcheggiare senza fatica. Immaginatevi l’ordalia quotidiana dell’uomo primitivo, più o meno nel 1950, allora quando le strade urbane pensate per il traffico di cavalli e carri diventarono il luogo delle famiglie del baby boom con le loro due – o tre – macchine. L’irresistibile tentazione del poter smettere con lo sport sanguinario e notturno del parcheggio in seconda fila, di non dover più vagare senza fine aspettando che qualche altro automobilista si spostasse, è stata una componente di quanto ha ispirato la fuga dalla città. Non solo tensioni razziali o aspirazioni di classe. Pura comodità. L’avere un garage, o soltanto un vialetto proprio, era un dono del cielo. Cercate di immaginare un’istituzione suburbana come il centro commerciale senza il parcheggio. É impossibile.
Il mall comincia davvero all’ingresso del parcheggio. Mentre ci si avvicina, c’è sempre quel momento di attesa per vedere se è pieno, vuoto, o qualcosa di intermedio. Dà il tono alla giornata. Godersi un passaggio liscio dalla strada all’ingresso è una manna. Trovare un intoppo, significa cominciare la giornata di shopping sotto una cattiva stella. Una volta entrati nel piazzale, si può girare con la macchina tutto attorno all’edificio senza trovare un ingresso che si annunci esplicitamente come il “principale”. Possono esserci parecchie porte senza pretese a intervalli regolari, nessuna contrassegnata in modo tale da avvertire di cosa sta lì dentro. Oppure, si può prendere la strada più facile, e entrare da uno dei grandi magazzini. Anche se esiste un ingresso del mall che dà l’idea di essere il principale, può darsi che non sia quello usato tutti, o nemmeno dalla maggioranza, dei clienti. Abbiamo studiato molti casi dove c’è una porta usata solo da chi non ha dimestichezza con quel centro. La chiamiamo ingresso dello «straniero». Ma normalmente non è la porta scelta da chi conosce bene quel mall.
In realtà, la progettazione dei centri commerciali riflette la medesima mancanza di gerarchia che affligge gli stessi suburbi. Le città si organizzano per distretti: il centro, le fasce esterne, la zona degli affari, le case dei ricchi, quelle del ceto medio, quelle dei poveri, la zona buona della città, quella meno buona, eccetera. Uno schema che si è evoluto nel corso dei secoli, e quindi tutti lo riconosciamo al primo sguardo. Il suburbio è in gran parte una fuga dalla struttura urbana: esistono isole di abitazioni con commercio a sufficienza per servire gran parte dei bisogni locali, e poi altre strutture sufficienti (scuole, stazioni di polizia, pompieri, chiese, cinema) a farlo funzionare. Il centro commerciale riflette questa assenza di gerarchia. Una unica entrata principale andrebbe contro l’ideale automobilistico suburbano, che detta come si debba sempre riuscire a parcheggiare il più vicino possibile alla propria particolare destinazione.
Dunque, invece di concentrare i migliori posti auto in una zona, essi formano un anello attorno all’edificio. Le priorità di parcheggio dell’uno sono diverse da quelle dell’altro. Si consente una libertà di scelta davvero americana, espressa in forma di caos architettonico e spaziale. Quando si sceglie una piazzola per parcheggiare al centro commerciale, ci sono quattro priorità da giocarsi:
1. Si vuole un punto che sia facile da raggiungere quando si arriva.
2. Si vuole un posto vicino al mall.
3. Si vuole un posto vicino all’ingresso che conduca poi il più direttamente possibile alla prima destinazione all’interno.
4. Si vuole un punto che sia rapido e facile da raggiungere quando si vuole andarsene.
La priorità assoluta fra le quattro è probabilmente quella di parcheggiare entro meno di venti metri dall’ingresso preferito, specialmente quando fa freddo, caldo, piove, ma anche quando c’è bel tempo. Nessuno si diverte a fare una primaverile passeggiata attraverso il parcheggio di un centro commerciale. Quando si fa shopping in città, arrivare a destinazione è una parte piacevole della cosa e può risolversi in gradite sorprese lungo la strada. Veniamo bombardati da una quantità di informazioni quasi senza accorgercene, percorrendo una strada di città. Vediamo le vetrine di altri negozi, naturalmente, ma possiamo anche studiare come si vestono le persone, come portano i capelli, che tipo di cani portano al guinzaglio. Niente di tutto questo, in un parcheggio di centro commerciale.
Ho passato molto tempo fuori nei parcheggi, e non solo nella mia auto. Spesso, quando inizio una consulenza per una catena commerciale o un costruttore, mi trascino qui i dirigenti. Di solito sono sconcertati: Aspetti un momento: i negozi sono là! Ma io insisto. Con tutta la loro conoscenza ed esperienza, ci sono pochi imprenditori o dirigenti che capiscano quanta parte dell’esperienza del cliente avviene nel parcheggio. I medesimi responsabili che sarebbero esterrefatti da piccole manchevolezze nella comodità del cliente all’interno, non dedicano nemmeno un attimo a quanto accade qui fuori.
«Non possiamo semplicemente andare nell’ufficio di vigilanza e guardare il parcheggio sugli schermi video?» mi è stato chiesto.
«Non è la stessa cosa» rispondo.
E così scarpiniamo tutti qui fuori. Faccio marciare i miei prigionieri fino all’angolo più lontano del piazzale, e li faccio restare lì un minuto. Parte della mia missione consiste nel mostrare loro il mall così come lo vede il cliente al primo incontro. Voglio che sperimentino il ruolo di insegne e vetrine in condizioni normali. Se il centro commerciale dedica tante cure a come l’utente fa esperienza del luogo, deve dedicare un po’ di denaro e impegno anche per il parcheggio. Appena si accede dalla strada si dovrebbe trovare qualcuno che accoglie l’auto: un responsabile del traffico. Lui sarebbe il boss, con due o tre ragazzini a tempo parziale che girano a informare gli automobilisti sui posti liberi, il traffico si muoverebbe in modo fluido, e ci sarebbe una sensazione generale gradevole di ordine.
Ma non succede niente di tutto questo. Sono stato in un certo centro commerciale il sabato prima di Natale, col traffico delle dieci di mattina completamente bloccato e gli umori arroventati. La gestione del centro resta indifferente. Ci dice trovatevi un posto, combattete la vostra battaglia, e poi entrate. I gestori dimall credono di controllare i parcheggi installando telecamere di sorveglianza. Come vi racconterà qualunque funzionario di polizia, controllo significa visibilità. Per gran pare del tempo non ci sono grosse questioni, ma sull’arco dell’anno ci sono trenta giorni di apertura in cui lo spazio raggiunge la saturazione. In quei giorni, un po’ di aiuto farebbe molto.
Abbiamo tutti un nostro particolare stile di parcheggio: un altro modo di esprimere chi siamo. Alcuni temperamenti filosofici si accontentano di parcheggiare negli angoli più lontani del piazzale e scarpinare attraverso; i guidatori più competitivi vanno a caccia dei posti migliori, addirittura seguendo chi esce dal centro commerciale dirigendosi verso la propria auto. Avevo una zia che si rifiutava di mettere la macchina dove avrebbe dovuto uscire in retromarcia. Poi c’è anche la questione di come troveremo l’auto al momento di andarcene. Quanti di noi fanno poco caso al contrassegno del parcheggio? Le ricerche mostrano che le persone memorizzano il luogo a seconda dell’età e del sesso. Gli uomini preferiscono lettere e numeri. Alle donne piacciono i colori. Ai bambini i simboli: animali o frutti. Per ogni volta che ho memorizzato il mio contrassegno, ce ne sono parecchie in cui ha vagato senza meta cercando la mia carretta. In queste occasioni, cammino fila dopo fila di macchine schiacciando il telecomando mentre borbotto, «Dai, Greta [chiamo familiarmente così la mia Audi], dove sei?» In un centro commerciale fuori Houston, dopo un’ora alla ricerca dell’auto presa in affitto, ho iniziato a dubitare della mia salute mentale. Ho perso l’aereo, quella volta. La Hertz dovrebbe installare qualche tipo di apparecchio far trovare le macchine. Un aggeggio a cui mi affezionerei per sempre.
I centri commerciali considerano i parcheggi come un male necessario. Vorrei che i costruttori notassero come talvolta si faccia un uso straordinario, creativo di quelle grandi distese di asfalto. Quello più evidente è una cosa nota alla maggior parte degli appassionati di sport: riunioni automobilistiche e picnic nel parcheggio dello stadio. In alcuni casi si tratta di cose decisamene lussuose, con grigliate alla carbonella e refrigeratori di Champagne organizzati in mezzo a camper, furgoncini e fuoristrada. La Ford ora produce un furgone con la possibilità di installare lavandino e cucina a gas.
Questo campeggio di automezzi sull’asfalto è stato ben sfruttato dalla Wal-Mart. Per l’orrore di tutti i gestori di strutture organizzate degli Stati Uniti, il gigante commerciale ora consente ai camper di parcheggiare di notte nei suoi piazzali. Si tratta di una mossa geniale: il pernottatore usa i bagni del negozio la mattina, ma spende anche soldi quando compra da mangiare, abbigliamento, o altre scorte. Il circuito delle corse NASCAR ha reinventato un’altra vecchia tradizione commerciale: il carro del venditore ambulante. Nei giorni delle gare, ci sono dei grossi furgoni che si sistemano nel parcheggio, trasformandosi in negozi con vari prodotti, che fanno arrossire di vergogna il vecchio furgone «roach coach» (il mio termine preferito per definire il chiosco dei panini).
Il concetto del negozio mobile all’aria aperta ha dei meriti. Il migliore esempio che conosco è il tendone per la vendita di tappeti di alta qualità. Lo usano con profitto Bloomingdale’s Home Store e altri. Si monta un enorme tendone in un piazzale a parcheggio, con dentro ammucchiati i tappeti, e per una settimana o due là dentro il negozio conduce quella che poi rappresenta una enorme percentuale del suo fatturato annuo di quel settore. Dimostra che nelle condizioni giuste in un parcheggio si può anche vendere un prodotto sofisticato e costoso.
Alcuni supermercati sono grandi utilizzatori del parcheggio. D’estate, si trova un piccolo negozio di beni di prima necessità organizzato lì, magari sotto un telo per proteggere chi sta alla cassa da un colpo di sole. Non ci sono le solite cose da negozietto, tipo latte, birra, aspirina. Si trovano invece sacchi di carbonella, attrezzi da barbecue, sedie da giardino, ombrelloni, pistole a acqua, insetticida spray, crema solare, e altri accessori da estate suburbana. Sono le cose che ci vengono in mente soltanto all’ultimo minuto, e quel mercatino ci salva il fastidio di tornare indietro a rifarsi tutto il supermercato a prendere qualcosa di essenziale per un sabato pomeriggio. Se si è venuti qui senza alcuna intenzione di comprare cose del genere, quel ministore lì davanti è un potente promemoria.
La cosa frustrante per me, come ricercatore, è che certo si tentano delle innovazioni per quanto riguarda il parcheggio, ma sempre caso per caso, senza tentare di verificare cosa funziona, e cosa no. Le vie principali dei piccoli centri sono morte, e i più importanti e prevedibili luoghi di incontro in molti casi sono diventati i parcheggi del grande shopping center. É un fenomeno da cui trarre vantaggi, non da ignorare, o da scoraggiare. Qualche anno fa facevo parte di un piccolo gruppo di lavoro costituito per aiutare lo Zoo di Phoenix a immaginare il proprio futuro. Il direttore ci caricò sul pulmino dello zoo, tutto verniciato in aerografia con animali a colori. Mentre entravamo nel parcheggio, stava guidando verso il suo posto solito, davanti all’ingresso principale. Gli chiesi invece di fermarsi in mezzo al piazzale vuoto. Mentre ci stavamo allontanando, due macchine si fermarono facendo fischiare le gomme, mentre un gruppetto di ragazzi correva a curiosare da vicino.
«Se avete un cartellone – ho detto al direttore – usatelo».
Un problema diffuso in tutto il commercio suburbano era quello dei dipendenti che arrivano presto, e si prendono tutti i posti per parcheggiare migliori. Ormai, la maggior parte dei negozi riconosce questo problema, e dà indicazioni agli addetti perché si sistemino lontano dall’ingresso principale. É raro, che si presenti il problema opposto. Di recente col mio studio di consulenza abbiamo lavorato su una cosa che si trova soltanto nell’America rurale: la catena Farm & Fleet. Un gruppo regionale con enormi punti vendita – diecimila metri quadrati e oltre – rivolti a coltivatori e altre attività rurali. Si ammucchiano enormi quantità di prodotti vari, dai jeans agli stivali da cowboy di qualità, al filo spinato o ai finimenti per l’asino. Lì, in mezzo al nulla, quei negozi sono circondati da parcheggi infiniti. I terreni in campagna sono ancora economici.
Il problema, è che questi piazzali spesso appaiono sconsolatamente vuoti. Il negozio che abbiamo studiato naturalmente chiedeva ai dipendenti di parcheggiare sul retro. In questo modo, quando ci si avvicinava al mattino, i piazzali apparivano deserti, non si era nemmeno sicuri che il magazzino fosse aperto. Il nostro consiglio è stato di spostare il parcheggio dei dipendenti sul fronte, verso la metà del piazzale: si lasciavano i posti migliori ai clienti, ma si segnalava alle auto di passaggio che il negozio era aperto. Hey! Ma cosa ve ne pare di quel posto? Sta vicino a un ingresso al centro commerciale senza segni particolari, un buon posto da cui entrare nel ventre della bestia. Aiutatemi a ricordare dove ci troviamo: E6, E6, E6, memorizzato, E6, andiamo. […]
Da: The Call of the Mall, Simon & Schuster, 2004 – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini – In seguito il volume è stato integralmente pubblicato anche in italiano da Sperling & Kupfer, tradotto da Gian Luigi Giacone, col titolo Antropologia dello Shopping