Secondo un calcolo Google, esistono quest’anno oltre diecimila articoli su Phillip Schofield, il conduttore televisivo britannico coinvolto in uno scandalo con un giovane collega. Google calcola anche cinque notizie su un articolo scientifico pubblicato settimana scorsa, in cui si evidenzia come sia stato gravemente sottovalutato il rischio di un improvviso crollo di produttività dei raccolti delle principali regioni coltivate del mondo. Nel mondo mediatico, da non confondere mai col mondo reale, i pettegolezzi sui personaggi celebri sono migliaia di volte più importanti del rischio di estinzione. Il nuovo studio indaga gli effetti sui raccolti di alcune irregolarità negli andamenti di quelle che i climatologi chiamano «correnti a getto» o Onde di Rossby, i forti venti che soffiano alcuni chilometri sopra le latitudini medie della superficie terrestre. Quando queste si bloccano vengono a verificarsi eventi climatici estremi. Per dirla brutalmente, se si abita nell’emisfero settentrionale col bloccarsi delle correnti a getto a sud delle latitudini medie il tempo si farà freddo e umido. Se si bloccano a nord, ci saranno probabilmente caldo e siccità.
In entrambi i casi, aumentando sempre più il riscaldamento globale, gli effetti si riversano sui raccolti. Verificandosi un certo schema meteorologico, parecchie grandi regioni agricole dell’emisfero settentrionale – l’Ovest del Nord America, l’Europa, l’India, l’Asia orientale – potrebbero restare esposte contemporaneamente a questi effetti, con gravi ripercussioni sui raccolti. Per la nostra sussistenza contiamo di solito su una specie di equilibrio globale: se una zona ha un cattivo raccolto, probabilmente verrà controbilanciata da uno buono da un’altra parte. Anche piccoli cali di produttività del raccolto ma simultanei su diverse zone offrono un esempio di ciò che lo studio definisce «rischio sistemico». E questi choc climatici regionali hanno già contribuito a modificare il quadro cronico della fame globale. Per molti anni la tendenza è stata alla diminuzione. Ma dal 2015 si è vista una inversione. Il che non succede per mancanza di cibo. La spiegazione più probabile è che il sistema alimentare globale abbia perduto resilienza. Quando i sistemi complessi perdono resilienza, invece di assorbire i colpi tendono ad amplificarli. Sinora ciò ha scaricato gli effetti soprattutto sui paesi poveri che dipendono dalle importazioni, causando localmente picchi di prezzi anche quando globalmente erano bassi.
E se questo succede quando i raccolti sono colpiti in un solo paese o regione, possiamo immaginare i risultati se accadesse simultaneamente in parecchie grandi aree produttive. Sono stati pubblicati altri studi su tematiche analoghe, evidenziando per esempio gli impatti delle sempre più frequenti «siccità lampo» e ondate di calore nelle regioni di produzione cerealicola, di come il riscaldamento globale colpisca la sicurezza alimentare. Tutto quasi completamente ignorato dai media. Ci troviamo di fronte ad una prospettiva epocale e impensabile: due immense minacce esistenziali – crisi ambientale e produzione alimentare – che convergono l’una innescando l’altra. Esiste abbondanza di segnali, alcuni dei quali già trattati qui sul Guardian, e con ansia crescente anche in una interpellanza parlamentare: il sistema alimentare globale potrebbe essere prossimo a un picco, secondo meccanismi strutturali non diversi da quelli del crollo finanziario del 2008. Quando un sistema si avvicina ad una soglia critica, è impossibile prevedere quale sarà la spinta esterna definitiva. Se il sistema è fragile, e non se ne ripristina la resilienza, non è un problema di SE ma di QUANDO.
Ma perché mai ciò non campeggia su tutte le prime pagine? Perché, conoscendo i governi questo enorme rischio, non agiscono? Perché l’amministrazione Biden ancora consente trivellazioni petrolifere e di gas tali da spingere a cinque volte tanto il carbon budget USA? Perché il Regno Unito fa sparire 11,6 miliardi di sterline promesse per il fondo climatico internazionale? Perché anche il Partito Laburista ha rinviato il suo green prosperity fund, mentre si dice che Keir Starmer abbia dichiarato «detesto quegli ambientalisti fanatici»? Perché testate come il Sun, Mail, Telegraph o Express si fanno concorrenza a chi attacca di più qualunque politica ambientale di prevenzione al caos climatico? Per che altre cose, qualunque altra cosa, debba essere considerata più importante dai media.
Il vero problema in fondo non è difficile da cogliere: i governi non riescono a spezzare ciò che l’economista Thomas Piketty definisce la spirale di accumulazione della ricchezza. Di conseguenza i ricchi diventano più ricchi, e il processo accelera sempre più. Nel 2021, per esempio, due terzi della nuova ricchezza mondiale erano incorporati dai super-ricchi. La loro quota del reddito nazionale britannico è quasi raddoppiata dagli anni ’80, mentre negli USA è più alta di quanto avveniva nel 1820. La parte più ricca della società diventa il potere politico dominante, e chiede cose più estreme. Una ottima sintesi del problema sta nella frase del ministro dell’ambiente dimissionario britannico Zac Goldsmith: invece di partecipare al vertice ambientale per le decisioni cruciali, Rishi Sunak è andato alla festa estiva di Rupert Murdoch. Non possiamo lavorare tutti insieme alla soluzione dei problemi comuni quando tanto immenso potere sta nelle mani di così pochi. Ciò che vogliono i super ricchi è allargare e consolidare ancora di più questo sistema economico che li mantiene nella posizione di potere. Più hanno da perdere, più diventano creativi nelle loro strategie. Oltre all’approccio abbastanza tradizionale di comprarsi i media e inondare di denaro i partiti politici che li appoggiano, inventano anche nuovi metodi di tutela dei propri interessi.
Mega-imprese e oligarchi con enormi fortune sono in grado di assicurarsi i servigi di discariche di sapere (le chiamano think-tanks), schiere di troll mediatici e social, guru del marketing, psicologi e tanti altri pronti alla bisogna di demonizzare, demoralizzare, abusare, minacciare chiunque provi a difendere l’idea di un pianeta abitabile. Queste fabbriche di sapere spazzatura si inventano leggi in grado di spuntare le contestazioni, messe in atto da politici direttamente finanziati dalla plutocrazia. Pessima situazione. Il tentativo di tutelare i sistemi della terra e quelli umani che da essi dipendono viene condotto da chi opera sostanzialmente ai margini, con risorse scarse, mentre ricchi e potenti usano ogni mezzo a loro disposizione per fermarli. Riuscite a immaginare nei prossimi decenni come si tenterá di spiegare ai bambini tutto questo? Riguardando alle calamità del passato, tanto più piccole di quelle incombenti, ci si chiede sempre: «Ma perché non hanno …»? La risposta sta nel potere: il potere di pochissimi contro gli interessi del genere umano. La lotta per evitare un crollo sistemico è la stessa che oppone democrazia e plutocrazia. In fondo lo è sempre stata ma oggi la scommessa è più azzardata che mai.
da: The Guardian, 15 luglio 2023; Titolo originale: With our food systems on the verge of collapse, it’s the plutocrats v life on Earth – Traduzione di Fabrizio Bottini
L’articolo richiede di essere riletto perche’ alcune frasi sono evidentemente incomplete o mal tradotte. Ad esempio: ” Il nuovo studio indaga gli effetti sui raccolti di alcune irregolarità delle correnti a getto (le onde di Rossby) si bloccano. Causando eventi climatici estremi. Per dirla brutalmente, se si abita nell’emisfero settentrionale e qualche bizzarria delle correnti a getto (i forti venti che soffiano alcuni chilometri sopra la superficie alle latitudini medie) si bloccano a sud di dove siete, il tempo si farà freddo e umido”
Sono mal tradotte dal sottoscritto per fretta e specifica incompetenza terminologica. Non posso far altro che riferirmi all’originale disponibile sul sito del Guardiano. Grazie per la conferma di inadeguatezza divulgativa 🙂