La speranza del Paese si chiama risparmio. Senza risparmio niente investimenti, senza investimenti niente crescita. Gli investimenti esteri possono certo aiutare, ma non sostituire l’apporto di risorse nazionali. L’economia resta un sistema dinamico dove risparmio e investimento si equivalgono, ma solo nel lungo termine, mentre nel breve possono differire parecchio1. «Il risparmio è dunque la condizione indispensabile affinché abbia luogo l’accumulazione di capitale materiale e di conoscenze che è connaturata allo sviluppo economico», non un atto di penitenza destinato a peggiorare i fondamentali della nostra già precaria situazione economica.
Gli economisti hanno addirittura stabilito una precisa correlazione tra propensione al risparmio e tasso di crescita dell’economia. «Sappiamo, da Harrod e Domar, che nel lungo periodo fra quota del reddito risparmiata, o propensione al risparmio (s), e tasso di crescita dell’economia (g) vale la relazione g=s/k, dove k è la quantità di capitale impiegato per ottenere un’unità di prodotto. Dato il parametro k – che non pare subire brusche modifiche nel corso dello sviluppo economico – la formula ha un’implicazione fondamentale. Tassi di crescita più elevati richiedono un maggior volume di nuovi investimenti rispetto al capitale esistente. Richiedono cioè la disponibilità a risparmiare. L’elevatezza di s segnala dunque la potenzialità di crescita dell’economia.»2
Il modo in cui la propensione al risparmio determina la crescita economica è però un problema complesso che riguarda due distinte questioni:
«a) quale relazione vi sia fra decisioni di risparmiare e decisioni di investire;
b) se e per quale via le decisioni di investire influenzino in modo permanente il tasso di crescita dell’economia.»
Come spiega Keynes «la decisione di investire implica [ … ] l’emissione di passività o la riduzione di liquidità [ … ]»3 e le scelte se assumere debiti o spendere denaro posseduto dipendono a loro volta dalle aspettative che si hanno verso il futuro. Poi però c’è un secondo passaggio che bisogna necessariamente considerare: «perché le intenzioni di risparmio si traducano effettivamente in investimenti capaci di influenzare la crescita, il potere d’acquisto dei risparmiatori dev’essere allocato di volta in volta ai soggetti più idonei a impiegarlo».
Il risparmio è in sostanza una risorsa perennemente scarsa che deve essere impiegata bene. Non solo non esiste automatismo tra risparmio e sviluppo economico, ma esiste il rischio di un utilizzo pigro e dispersivo del risparmio. Se all’ammontare del risparmio non corrisponde un analogo ammontare di investimenti il risultato netto è una diminuzione dei consumi che si traduce in un calo del reddito nazionale. Anche chi ha sostenuto con forza la rispondenza tra risparmio e investimento4 non ha mancato di rimarcare i fattori di criticità. Tra tutti i fattori che influenzano la produzione aggregata «sono quelli che determinano gli investimenti ad essere i meno attendibili, in quanto sono quelli maggiormente influenzati dalle nostre opinioni sul futuro, futuro sul quale sappiamo così poco»5.
Risparmio, investimento e utilizzo ottimale del risparmio stesso sono dunque fattori essenziali per il buon andamento dell’economia di un paese. L’importanza del risparmio, in un’economia sofisticata, è legata anche alla sua pervasività, al fatto cioè che non riguarda solo categorie privilegiate, ma coinvolge tutti gli strati sociali. I lavoratori, il cui reddito per gli economisti classici era indissolubilmente asservito alla possibilità di riproduzione (salario di sussistenza), sono diventati essi stessi rentiers e le risorse che essi reimmettono nel circuito economico sono una componente essenziale della moderna economia. «Va sottolineato che dei tre profili – risparmio, ricchezza, ricchezza finanziaria lorda e netta (attività finanziarie al netto delle passività finanziarie) – quello della detenzione di attività finanziarie da parte della classe dei salariati è di particolare interesse per l’analisi economica e per la storia economica.»
Ancora nel 2003 [ … ] «Solo 1/3 del flusso del risparmio famigliare viene investito in immobili. La componente finanziaria della ricchezza netta delle famiglie italiane, ancora bassa nella comparazione internazionale, è salita dal 28 per cento del 1995 al 32 nel 2003, dopo aver toccato un picco del 38 per cento nel 2000. Al settore è imputato il 30 per cento delle attività finanziarie lorde del paese.» Fino a quell’anno dunque, sebbene l’Italia non fosse ancora allineata ai paesi considerati avanzati, la tendenza era in quella direzione, anche con riferimento ai lavoratori in senso stretto, tanto che «circa il 30 per cento del flusso del risparmio italiano è espresso dai lavoratori dipendenti e pensionati e dalle loro famiglie. Essi lo investono per il 40 per cento in attività finanziarie piuttosto che in beni immobili. La ricchezza finanziaria di tali famiglie costituisce quasi ¾ dello stock totale delle attività finanziarie delle famiglie italiane».
Dunque i lavoratori possono essere rentiers. Ma rentiers utili all’economia, dei quali è tutt’altro che auspicabile l’eutanasia: il loro risparmio si trasforma in ricchezza sociale e finanzia lo sviluppo. È una ricchezza finanziaria niente affatto passiva, perché entra direttamente nel flusso dell’economia reale e aiuta concretamente a superare il ponte sull’abisso tra immobilità e sviluppo. Intorno alla metà del primo decennio del secolo, però, lo scenario nazionale cambia in maniera radicale: «Nel 1990 su un risparmio di 119,23 miliardi ne sono stati investiti in abitazioni 29,756; nel 2010, su 108,248 miliardi, ben 54,830 sarebbero stati dedicati alle case»6. Più della metà del risparmio confluisce nell’acquisto della casa e nel 2011 solo il 10 per cento delle famiglie italiane investe in azioni o fondi. Quel segno, tutto positivo, secondo il quale le famiglie sono propense a canalizzare il risparmio nel finanziamento alle imprese, da considerare anche sotto il profilo della coesione sociale, in quanto partecipa direttamente alla formazione di capitale «che genera capitale»7, assume una connotazione a prevalenza negativa, tendente all’immobilismo, alla passività, alla conservazione. Certo diminuisce il reddito e diminuisce il risparmio in maniera davvero preoccupante8, ma quel poco che rimane finisce immobilizzato nel mattone. Per alcuni un investimento, prudenziale o speculativo, per molti una necessità. Da qualche anno parecchi lavoratori hanno cessato di essere rentiers e i loro salari si stiano riavvicinando troppo al prezzo della sussistenza. Il problema è che la componente immobiliare, almeno per le fasce più deboli della popolazione, non è affatto una libera scelta di portafoglio9, ma una necessità dovuta all’assenza di una politica pubblica per la casa e all’aggressività della speculazione, soprattutto nelle fasi espansive del ciclo.
La realizzazione di un perverso intreccio tra il risparmio popolare e l’irresponsabile mondo della finanza porta a compimento quel processo descritto da Anthony Atkinson, che spiega perfettamente l’enigma sotteso al riequilibrio della ricchezza dopo la seconda guerra mondiale. La questione che pone questo autore è la seguente: perché il processo che ha portato a una consistenze riduzione delle disuguaglianze tra il 1945 e gli anni settanta si è interrotto a partire dagli anni ottanta? Che cosa è successo? Atkinson mostra come in alcuni paesi il declino dei maggiori patrimoni a beneficio della gran maggioranza dei cittadini non è stato un semplice trasferimento di ricchezza. Che l’Inghilterra, ad esempio, stia diventando una democrazia di proprietari significa in buona sostanza che tutti stanno diventando proprietari di abitazioni. Ma la casa «è una risorsa piuttosto particolare, in quanto genera un rendimento sotto forma di reddito imputato», perché non contribuisce a incrementare, a differenza di altre forme di proprietà, la ricchezza di chi la possiede. «C’è un cuneo fra il tasso di rendimento del capitale e il reddito ricevuto dai risparmiatori. La crescita della ricchezza popolare ha contribuito alla crescente finanziarizzazione dell’economia.»10
Dal punto di vista più generale dei processi di accumulazione di capitale, anche un autore come Piketty, non particolarmente interessato ai riflessi dell’immobiliare nell’economia, coglie perfettamente il punto, sottolineando come il mattone sia l’investimento privilegiato delle classi medie, tra le quali «la proprietà della prima abitazione e le modalità del suo acquisto e del suo pagamento svolgono il più delle volte un ruolo essenziale», seppur spesso supportate da un non trascurabile risparmio finanziario. «Tuttavia l’importanza degli immobili scende di molto man mano che si sale nella gerarchia dei patrimoni»11, per la ragione che «a formare la vera ricchezza concorrono, in via prioritaria, sempre gli attivi finanziari professionali». Nei dispositivi di collocamento del risparmio ha origine dunque una crescente disuguaglianza che a sua volta è di impedimento allo sviluppo economico, perché fino a un certo livello di reddito il risparmio finisce in buona parte immobilizzato nel soddisfacimento di un bisogno, quantunque la casa venga impropriamente considerata una scelta di investimento, mentre col crescere delle disponibilità aumentano le possibilità e le convenienze di impiego differenziato.
NOTE
1 Si vedano in proposito i due saggi di R. F. Harrod, Keynes e la teoria tradizionale e Sgurdo retrospettivo su Keynes, in R. Lekachman (a cura di), Il sistema keynesiano, Franco Angeli, Milano, 1966.
2 Tutte le citazioni senza indicazione dell’autore sono tratte da P. Ciocca, Il tempo dell’economia. Strutture, fatti, interpreti del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
3 H. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, pag. 119.
4 Keynes ritiene addirittura che l’uguaglianza risparmio e investimento sia di ovvia banalità, in pratica una tautologia. È bene però ricordare però che nel Trattato sulla moneta viene ben spiegato che occorre distinguere tra l’investimento inteso come acquisto di azioni, che è un semplice trasferimento di possesso di quote societarie, e l’investimento inteso come aggiunta di beni capitali all’economia nel suo insieme. Il rapporto tra risparmio e investimento è ulteriormente complicato perché anche il detenere moneta, in quanto bene capitale, viene considerato nel sistema keynesiano una scelta di investimento. In una prefazione del ’39 sostiene che tutte le polemiche legate alla sua tesi sull’eguaglianza tra risparmio e investimento sono dovute al fatto che si fa confusione tra ciò che vale per il sistema e ciò che vale per il singolo individuo. «Non vi è alcuna ragione perché l’investimento che io decido sia legato da un qualsiasi rapporto con l’ammontare del mio risparmio. È del tutto legittimo considerare che il reddito di un individuo è indipendente dall’importo che quell’individuo consuma e investe. Ma devo rilevare che tutto questo non ci deve far perdere di vista che la domanda originata dal consumo e dall’investimento del singolo individuo è la fonte dei redditi di altri individui: cosicché i redditi in generale non sono indipendenti, ma al contrario dipendono dalla disposizione degli individui a spendere e ad investire. E siccome la disposizione degli individui a spendere e ad investire dipende a sua volta dai loro redditi, si trova una relazione fra il risparmio globale e l’investimento globale; ed è molto facile stabilire, senza che l’affermazione si possa ragionevolmente mettere in dubbio, che questa relazione è di eguaglianza esatta e necessaria.» J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino, 1971, pag. 181 (Prefazione all’edizione francese, 1939).
5 Il corsivo è di Minsky in una lunga citazione dalla Teoria generale di Keynes. H. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1981, pag. 125.
6 Milano Finanza, 29 marzo 2011.
7 «[ … ] il capitale è ciò che genera capitale (contributo ad una maggiore produttività) [ … ]». S. Kuznets, Sviluppo economico e struttura, Il Saggiatore di Alberto Mondadori, Milano, 1969, pag. 49.
8 I dati forniti dall’OECD, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che riguardano la propensione al risparmio netta delle sole famiglie consumatrici negli anni di incubazione della crisi, fino al 2007, sono impietosi. «Nel 1990, l’Italia aveva una propensione netta al risparmio doppia rispetto alle due medie dei Paesi [ … ]. In particolare, significativamente superiore a quella della Francia e della Germania. Poi, una riduzione pressoché continua, che dal 21,7% del 1990 ha, nel 2006, raggiunto l’8,7%, per poi diminuire ancora di quasi 2 punti percentuali, a 6,8, nel 2007. Nel 2007, la propensione al risparmio italiana si colloca al di sotto di quella di Francia e Germania, e al di sotto della media dei Paesi europei [ … ]. Dal 1990, soltanto la Corea ha sperimentato un processo di caduta della propensione netta al risparmio più accentuato di quello italiano (in termini di punti percentuali di reddito disponibile netto). Dal 2002, anno in cui si è assistito all’ultimo recupero (da 10,54 a 11,40%), la riduzione avvenuta tra il 2006 e il 2007 è la più consistente. All’interno di un processo di generale riduzione della propensione al risparmio su scala internazionale, l’Italia si contraddistingue per la portata e la velocità del fenomeno, che tra il 2006 e il 2007 si è ripresentato ai ritmi più elevati tra i Paesi presi in esame.» Dal sito del centro di ricerca CERM, 2008.
9 Si veda in proposito l’articolo di Marianna Brunetti, Elena Giarda e Costanza Torricelli, pubblicato in Lavoce.info del 31-08-2012, Poca liquidità nei portafogli degli italiani. Le autrici attribuiscono giustamente la fragilità economica delle famiglie italiane nella crisi in corso all’eccessivo peso della proprietà immobiliare e alla loro scarsa liquidità. «È importante allora chiedersi quali possano essere, in questo mutato contesto, le conseguenze delle scelte di composizione del portafoglio famigliare, e in particolare le implicazioni di portafogli fortemente immobilizzati come quelli delle famiglie italiane. Nel 2010, ad esempio, il valore delle attività reali era pari a circa 1,6 volte quello delle attività finanziarie. Anche nel confronto internazionale si nota che l’Italia è storicamente il paese con il più elevato rapporto tra ricchezza netta su reddito disponibile. Ciò deriva da valori molto elevati di ricchezza immobiliare e relativamente bassi valori di debito, anche se quest’ultimo mostra un andamento fortemente in crescita». [ … ] «Complessivamente, a differenza di quanto evidenziato per altri paesi, la fragilità finanziaria non è necessariamente connessa alla classe media italiana, ma sembra essere più legata a un eccesso di proprietà immobiliare nei portafogli, soprattutto per i più giovani e per i più anziani. Per i primi si anticipa forse troppo l’acquisto della prima casa creando peraltro vincoli sulla mobilità sempre più richiesta dal mercato del lavoro? Per i secondi gli immobili di residenza hanno forse dimensione e costi eccessivi rispetto alla composizione del nucleo famigliare? Su ciò è opportuno che riflettano le famiglie: nelle loro scelte di portafoglio, devono tenere in considerazione l’opportunità di detenere strumenti sufficientemente liquidi per fronteggiare il rischio spese inattese o interruzioni del flusso di reddito, soprattutto in un periodo di perdurante crisi economica come quello attuale. Ma una riflessione dovrebbero farla anche gli intermediari e i consulenti finanziari: potrebbero dover rivedere le regole standard per la gestione dei portafogli delle famiglie, che tendono a essere troppo sbilanciati verso la proprietà immobiliare e a mostrare un certo grado di pro-ciclicità nel possesso di attività rischiose e illiquide (ad esempio azioni e immobili).»
10 A. B. Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare, Raffaello Cortina, Milano, 2015, pag. 75.
11 T. Piketty, Il capitale del XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014, pag. 396.