La cosiddetta cultura antiurbana dei secoli e decenni passati, altro non rappresenta che ricerca collettiva, sistematica o meno, di nuove forme di convivenza rispondenti a particolari aspirazioni, vuoi progressiste, vuoi di pura reazione ai mali della città nelle varie epoche e contesti. La tabula rasa aperta alla sperimentazione (che a volte neppure ha la consapevolezza di essere tale) è da sempre il più spontaneo e semplice campo in cui confrontare pratiche e verificarne l’efficacia, nella classica situazione della narrativa utopica, anche quando si tratta oggettivamente di utopie abbastanza domestiche e familiari, osservate individualmente. Da questo punto di vista la suburbanizzazione otto-novecentesca può davvero rappresentare un progetto pilota, di metodo e di merito, a patto di riuscire a distinguerne le componenti pur senza perdere il senso programmatico (quello sostanzialmente della crescita infinita e dell’economia dei consumi) sotteso. È stato spesso osservato che chi si trasferisce nei quartieri variamente suburbani è per molti versi un vero e proprio «pioniere» che va a colonizzare nuove terre con inedite aspettative, stili di vita, risorse intellettuali e non. Se chiamiamo semplicemente urbanizzazione quel processo, pur diverso da quello tradizionale, forse emerge meglio la qualità di ciò che il pioniere persegue.
Famiglia nucleare
Quando pensiamo al genere di propaganda classico degli immobiliaristi tradizionali, che «aspettano al varco i giovani» nel momento in cui decidono di farsi una famiglia e secondo un certo modo di pensare fatalmente saranno attratti dalla casetta con giardino, dall’auto multipla, insomma da tutto ciò che chiamiamo modello suburbano, abbiamo forse colto nel segno. Ciò che vanno a costruire i pionieri quando tra il XIX e buona parte dei XX secolo se ne vanno dalla città, è proprio il Grande Nido della Famiglia. Certo anche quella aggregazione ideale di unità elementari che nella sua forma più sistematica a geometria variabile si definisce Unità di Vicinato, risponde a esigenze analoghe se non proprio identiche, ma a partire dalla sua genesi troppo urbano-sociale e di relazione aperta non è, non può essere, proprio quello spazio ideale. Prendiamo ad esempio la protagonista di Revolutionary Road, April Wheeler, che proprio l’ambiente suburbano porterà a quel tragico suicidio e distruzione non solo simbolica della famiglia e del suo nido. Non si tratta esattamente di una ribelle, in fondo pur nella sua ovvia perfettibilità il rapporto con marito e figli parrebbe collocarsi del tutto nella norma, ma è il decontestualizzarla dalla complessità degli stimoli culturali dagli orizzonti aperti di tipo urbano, a innescare la deflagrazione. Perché la famiglia pioniera è (è stata per generazioni) integralista ed estremista nelle sue scelte, e lo spazio definito per perseguire quelle e solo quelle. Marito che lavora, moglie che bada alla casa, alla «riproduzione» per usare il termine marxista, figli che si preparano a replicare quei ruoli in nuovi cloni. Il suburbio risponde a quelle esigenze in modo assoluto.
Camera di decompressione
Si dice, anche, che «ci sono tutte le comodità e opportunità», raggiungibili in auto e oggi accessibili coi vari strumenti di comunicazione o commercio online. Ma senza calcolare che tutto, vicino lontano comodo o no, sta fuori, da quell’ideale claustrofobico che i pionieri andavano esplicitamente a cercare e costruire pezzo per pezzo, e di cui le luci e relazioni del centro commerciale, per fare un solo esempio, rappresentano solo valvola di sfogo dell’eccesso di pressione, non parte integrante. Basta andare a leggere tutte le riflessioni possibili sul quartiere ideale per capire che lì deve stare solo residenza e privacy nucleare, il resto, tutto tutto il resto, deve starne il più possibile fuori, è sgradito lì, come un cubetto di ghiaccio: fantastico nel whiskey, orripilante giù per la schiena. Lo stesso per gli spazi del lavoro, dei servizi, della cultura, tutti separati, e spesso a loro volta autosegregati, perché il pioniere-famiglia ideale è andato a cercare e sudarsi proprio quello. Ed ecco conclusa qui la breve ma forse abbastanza esaustiva premessa alla domanda conclusiva. Che suona: oggi tutti parlano di densificazioni suburbane per arginare lo spreco della risorsa suolo, e i più accorti elaborano oltre il puro progetto edilizio-urbanistico tecnico anche alcune idee di retrofitting sociale, vuoi rivolte ad una domanda urbana abbastanza tradizionale, vuoi a incontrare gusti ancora da definirsi. Ma cosa cercano i nuovi abitanti (e operatori delle altre funzioni)? È ancora quella famiglia il nucleo centrale invariante, pur con tutte le contraddizioni e drammi e trasformazioni possibili? Oppure si deve riflettere su un nuovo cliente, certo difficile da stilizzare in un Modulor qualsivoglia, ma di urgente definizione? Non pare una domandina di poco conto. Ma sembra che i nostri amici della rivista trendy che ospita l’articolo linkato l’abbiano saltata a piè pari.
Riferimenti:
Edwin Heathcote, The next social revolution will start in the suburbs, GQ, 21 ottobre 2018