La città di oggi è ancora la città del passato affetta da qualche malessere della crescita. Ai vecchi tempi, quando «riluceva nel primo mattino di una vigorosa infanzia» era soprattutto pittoresca. Una immagine che ancora oggi delizia la nostra sensibilità artistica. Ma sappiamo bene però come in quell’epoca la città non fosse né preveggente, né saggia né industriosamente produttiva. Per dirla tutta, assomigliava molto a un giovane ostinato sempre in lotta coi suoi difetti, spesso perversamente esibizionisticamente chiassosa, molto spensierata. Una ragazzina insomma, che lottava, giocava, e quando era stanca si addormentava serena. Molto graziosa e pittoresca proprio quando era addormentata. Ancora ne scopriamo oggi, di belle addormentate che non si sono svegliate, a cui ci avviciniamo di soppiatto in punta di piedi per rubare un’immagine di infanzia della civiltà, un ricordo di quando portava ancora i calzoncini corti e i riccioli ribelli. Quando ancora il lavoro era cosa individuale, e la comunità si dedicava al gioco, ai conflitti, al riposo. Oggi non si fa nulla da soli. Il lavoro è oggi cosa della comunità intera, mentre questione individuale o al massimo di piccolo gruppo sono diventati il gioco la lotta il riposo. Le città si sono aggiustate e un po’ standardizzate.
Seguendo la medesima metafora possiamo parlare della città di oggi con le braccia e le gambe più lunghe, i capelli pettinati in ordine, la faccia con espressione seria e fino un po’ triste. Si fa poco la lotta ma si lavora molto; si dorme profondamente ma con poca tranquillità. Le città incarnano l’energia che produce ricchezza, ma hanno perduto la gioia di vivere, i loro spazi non sono del tutto adeguati a ciò che ci si vorrebbe fare. Diciamo che sono un po’ patetiche – precocemente invecchiate, innaturalmente lente – e mancano dell’efficienza che, speriamo, arriverà dagli anni dell’evoluzione futura. Oggi le città ci parlano di sforzi infantili per superare difficoltà di inadeguatezza fisica anziché sfruttare produttivamente la propria energia. Una situazione sbagliata. Ed è nostro compito di dottori delle città quello di intervenire perché escano da questa crescita solo a metà entrando nell’età urbana adulta, nella forma compiuta in cui opera un adulto e che provavano freneticamente a imitare senza successo, e potrebbero riuscirci senza nessuno spaventoso costo economico o umano. La città di oggi ancora tanto caratterizzata dal passato è poco adatta alla nuova situazione. Prendiamone ad esempio un elemento al tempo stesso semplice ma assai importante, ben impresso nella memoria di tutti noi.
L’abitare vicino al posto di lavoro era cosa necessaria non soltanto nella pittoresca città medievale, ma anche in quella che abbiamo conosciuto noi. Una necessità che si sta esaurendo. Oggi vale soltanto per chi guadagna di meno – il povero operaio degli sweat-shop o il piccolo commerciante che spinge un carretto a mano ne sono esempi – e in quantità minore per chi ha orari particolari o irregolari, ad esempio i portuali. Chi fa l’architetto o l’avvocato può avere lo studio in centro ma abitare in periferia; mercante, banchiere, assicuratore possono andare a riposarsi ogni giorno in campagna dal lavoro in città; sempre più impiegati e commercianti insieme alle loro famiglie abitano quelle lunghe schiere di casette singole o abbinate che compongono le fasce urbane esterne; nelle prime ore di un giorno lavorativo, o dopo la chiusura delle varie attività, tram e metropolitane si affollano di persone riconoscibili dalla gavetta della colazione, il grande esercito di chi va a lavorare, avanti e indietro, utilizzando i mezzi perché abitano troppo lontano per spostarsi a piedi. È il trionfo della città moderna.
Si è verificato grazie a trasporti sempre più rapidi ed economici. Una evoluzione magnificamente spinta dall’impulso crescente delle attività produttive e commerciali moderne. Che hanno finalmente reso possibile abitare ad una certa distanza dal luogo di lavoro. Certo ancora oggi migliaia e migliaia di persone risiedono a portata di orecchio dalla sirena della fabbrica, ma molte altre migliaia, una massa che si accresce con straordinaria rapidità se consideriamo le complicazioni familiari coinvolte, riesce a cambiare ogni giorno luoghi e atmosfere, rientrando verso il tramonto in un universo di tranquillità che il trambusto dell’industria e del commercio non può disturbare. E si tratta ovviamente di una evoluzione sociale di incalcolabile valore. Ma che non trova però adeguata espressione nella forma urbana. Nonostante le zone di attività e residenza si siano andate separando, conseguentemente sviluppando sistemi di traffico diversificati, in generale non si è modificata la griglia stradale. Anche dentro quelle divisioni di zona si sono sviluppate caratteristiche particolari sino ad articolarle in distretti di diverse necessità sia per quanto riguarda le dimensioni dei lotti che per quelle delle vie.
Ma si continua però a mantenere le strade uniformi in sezione, e i lotti in misure standard. Si sono costruite ferrovie veloci, ma per arrivare nei sobborghi si percorrono strade che non sono cambiate nei secoli. A dire il vero una cosa importante è cambiata: mediamente tutte le strade si sono allargate nelle zone più nuove delle città, ma si tratta di un cambiamento di utilità molto relativa. Dunque la planimetria tipo di una città risente assai poco delle incredibili trasformazioni sociali avvenute, della grande tendenza dei lavoratori ad abitare lontano dal luogo di lavoro, che sempre più spesso si trasforma in realtà. Riconoscerla a adeguarsi significherebbe due grandi gruppi di trasformazioni, che a loro volta allontanerebbero la forma della città sia da quella tradizionale che del secolo scorso. Il primo gruppo di trasformazioni comporta il realizzare vie radiali dritte, lunghe e larghe, con pendenze contenute. Grandi arterie che, accorciando tempi e distanze per raggiungere le zone esterne, rendano più semplici i flussi di spostamento quotidiano, allargando il raggio della localizzazione di case.
Il secondo gruppo di trasformazioni riguarda la riorganizzazione delle vie minori sulle effettive necessità delle zone che servono, specificamente aree residenziali. Forse qualche politico potrebbe obiettare che così si mette in discussione la democrazia ideale, ma riorganizzare le vie minori potrebbe articolare l’area residenziale in distretti diversificati. Del resto dobbiamo riconoscere che questa cosa accade già in qualunque città, è evidente da Chicago a Londra. Risultato delle leggi sociali, che interessano anche lo spazio. È l’attrazione tra simili. È un pur tardo sviluppo per le città della legge di specializzazione per funzioni. Ci piaccia o meno, non possiamo ragionevolmente non riconoscere come questa legge stia trasformando le nostre città, e capire come la cosa continuerà in futuro in termini ancora più accentuati. Già oggi le aree commerciali si articolano tra ingrosso e dettaglio, al loro volta ulteriormente suddivisi fra «vie dei gioiellieri» oppure «strada dell’automobile» o ancora «distretto della pelle» centro finanziario e così via. Le are residenziali si distinguono già per quartieri di ceto alto, medio, lavoratori. Mentre tra le zone commerciali e residenziali sta quella degli spazi popolari-produttivi che mescola in qualche misura i caratteri di entrambe.
I tedeschi, precisi come sono, riconoscono queste leggi al punto di averle trasformate nel cosiddetto Sistema delle Zone nella loro urbanistica. Ma anche in quel caso la corrispondenza tra classificazione di zona e funzione pare più architettonica che ingegneristica. Nella città attuale, in qualunque nazione, si ritrova un sistema stradale generalmente uniforme, per rispondere a necessità che in effetti non sono per nulla uniformi. La si dovrebbe cogliere evidente addirittura a colpo d’occhio questa diversità tra i quartieri. Mettiamo a confronto le necessità di traffico di una via nella sezione commerciale terziaria,o in una strada di quartiere per lavoratori, o infine in una zona di ville e ampi spazi verdi. Nella sovraffollata isola di Manhattan, a New York, dove i valori dei terreni sono enormi, troviamo vie perfettamente identiche sia nella sezione di carreggiata, che nelle dimensioni dei marciapiedi, che ci si trovi nella zona del commercio all’ingrosso, nel sovraffollatissimo East Side, lungo vie di gran moda e pregio o quartieri popolari in affitto. Mentre in una scorrono molti più autocarri che pedoni, e nelle altre passano invece centinaia di pedoni o carretti per ogni singolo veicolo a motore. Flussi di persone che affollano i marciapiedi e si riversano sulla «strada» vera e propria sino a rendere pericoloso passarci con un veicolo. Mentre sull’arteria di attraversamento principale di sezione identica il traffico si compone di automobili e carri da trasporto, un possente flusso che il povero pedone potrebbe osare attraversare solo come i Figli di Israele fecero col Mar Rosso, con Mosè in uniforme da vigile che divide i flussi. E pensiamo alle zone di case in affitto, dove il comune ha chiuso alcune vie al traffico veicolare in certi orari per farci scendere i bambini che le usavano impropriamente come agognati campi da gioco!
Per enorme che sia in realtà il problema, provo qui a ridurlo a termini più semplici senza tenere conto delle differenze tra vie con binari o senza, o in pendenza o meno, o particolarmente lunghe, o sottoposte a punte di traffico in questa o quella direzione, in rapporto a terminali, incroci e tanti altri condizionamenti che possono caratterizzare una via. Ma nulla spiega però la folle standardizzazione delle vie urbane. Centinaia di strade che pur avendo le medesime proporzioni e caratteristiche delle più affollate arterie principali, servono giusto al passaggio di mezza dozzina di pedoni e un paio di veicoli l’ora. Il peggio di tutto è lo spreco di ricorse. Nella maggior parte delle città la superficie dedicata alle vie va dal venticinque al quaranta per cento di quella totale complessiva. Nei centri tradizionali spesso si scende fino al dieci per cento del totale. Riconoscendo diverse necessità noi abbiamo incrementato la quota, ma l’abbiamo fatto in modo uniforme senza pensarci adeguatamente. Nel ridicolo tentativo di concepire una «via media», e avendone ipotizzato dimensioni e organizzazione, fissarle per legge risparmiandoci ulteriori sforzi.
Per fare esempi più concreti prendiamo la municipalità del Bronx a New York: zona dalla topografia magnificamente varia che contiene ogni genere di insediamento suburbano. Ma l’ordinanza sulle strade fissa uniformemente sezioni da 18 metri con 9 metri di carreggiata, o sezioni da 24 metri con 13 di carreggiata, 30 metri con 18 metri e così via, senza alcun riguardo per i caratteri specifici della via salvo quella larghezza. Oppure vediamo l’esempio della città di Washington, che tutti amiamo pensare magnificamente concepita. Lì la legge impone che ogni nuova strada non abbia larghezza inferiore ai 27 metri. Calcoliamo i danni economici di questa «standardizzazione meccanica» che peraltro non è certo monopolio malefico degli Stati Uniti. Come osservava Olmsted qualche mese fa riassumendo un suo viaggio di studio in Europa, si tratta di standard «rilevabili in parecchi quartieri delle città europee, specie in Inghilterra.
Raymond Unwin, nel suo straordinario contributo all’urbanistica, descrive perfettamente il metodo inglese. Scrive: «Una imponente dimora come Chatsworth o Blenheim viene adeguatamente servita da una semplice carreggiata larga 4-6 metri. Gli abitanti di un edificio di quel tipo sono un po’ di più di quelli di una schiera di villini, e la quantità di traffico su ruote da e per quella destinazione più o meno identici; eppure per la strada dei villini si versano asfalto per la carreggiata, cemento per i marciapiedi, cordoli e canaletti di granito, di nuovo granito per la ghiaia, e tutto su una sezione di 12-15 metri e un costo al metro lineare fino a otto sterline, secondo le leggi attuali che ne impongono la realizzazione alle autorità locali».
Il danno economico è di due tipi e si riflette sul valore degli immobili. In parte è rappresentato da quanto deve spendere l’amministrazione locale in realizzazione e manutenzione di tutte quelle inutili superfici stradali, in parte dall’aumento degli affitti a causa della quantità di terreni sottratti alla possibile edificazione dalle vie inutilmente larghe. Forse è meglio chiarire con delle cifre dato che il rapporto tra le cose non è a tutti evidente: a Richmond (Inghilterra) nelle costruzioni, «tasse e assicurazioni» coprono in genere un quinto dell’affitto di un villino da sei stanze. Housing Up-to-Date, l’ottimo bollettino compilato da W. Thompson, presidente del National Housing Reform Council of England, afferma che il costo di strade fogne e altro raggiunge in alcuni casi le 9 sterline per stanza degli alloggi realizzati, ovvero 45 sterline per ciascun villino, anche se la media per edificio di questa quota delle strade è di 9 sterline.
Un calcolo basato su dati riguardanti migliaia e migliaia di casi analoghi di villini, specificamente organizzati a schiera continua in modo da occupare meno affaccio stradale, e che chiarisce il carico sugli affitti delle abitazioni più economiche. Per quanto riguarda la fascia superiore dei tipi a villa, la medesima fonte afferma che i regolamenti edilizi locali inglesi richiedono sempre una via asfaltata o a ghiaia da 12 metri salvo quando non si tratti di una strada secondaria, e ciò comporta nei nuovi quartieri di periferia un costo da 400 fino a 1.000 sterline per ogni ettaro di superficie complessiva «vale a dire più del costo del terreno». Se non fosse così normale e accettato che le strade fossero così tutte uguali apparirebbe incredibile che qualunque amministrazione intelligente consenta, addirittura imponga, un tipo di organizzazione stravagante e illogica del genere. È come se un regolamento edilizio cittadino imponesse che qualunque struttura, pubblica privata e a qualunque funzione, oltre una certa volumetria dovesse essere suddivisa in stanze standard con certe dimensioni, anche se poi la si adibirà a magazzino, o a uffici, o che si tratti di una cattedrale; e se non bastasse che è vietata dentro la circoscrizione la costruzione di qualunque cosa al di sotto di una certa altezza e sviluppo, diciamo due piani e dieci metri di fronte. Di fronte a una ordinanza del genere, se dovesse capitare di incontrarla, qualunque persona intelligente per far corrispondere l’intero di un proprio edificio alla effettiva funzione si farebbe approvare una deroga speciale – o provarci con tutte le proprie forze – per allontanarsi dalla norma standard, ovvero per praticare un comune buon senso, così come accade con le proporzioni delle vie!
Piuttosto interessanti sono anche le argomentazioni con cui cerchiamo di giustificare il nostro attuale sistema. E riguardano nella quasi totalità le arterie troppo larghe, essendo piuttosto rari oggi i casi di vie standard eccessivamente strette. La motivazione più diffusa è che così si anticipa adeguatamente una crescita futura di traffico. Quanto riecheggia in questo l’atteggiamento della città-bambina del passato! Esaminiamo il metodo del ragionamento: c’era una volta la città delel vie troppo strette, indispensabili dovendo tutti abitare stretti dentro le mura; poi le mura scomparvero, la città crebbe cambiando forme, e si notò che le vie non erano abbastanza ampie per reggere il traffico moderno. Usiamo questa logica da bambino perspicace, e logicamente penseremo che in futuro non ci dovranno essere più vie senza un minimo di larghezza fissato arbitrariamente. In genere il minimo è troppo se consideriamo solo le necessità del traffico, nello stesso modo in cui l’antico massimo era troppo poco; e allora fissiamo che una certa quota di quello spazio sia a verde. Con sguardo esperto passiamo ora al fatto che, nel caso di importanti arterie in pendenza anche notevole, o ad affrontare ostacoli quali un corso d’acqua o rilievi, oppure un tratto piuttosto lungo per raggiungere la meta dei quartieri commerciali, magari poco propensi a svilupparsi in quella direzione, quel traffico potrebbe non arrivare mai. Ovvero abbiamo allargato inutilmente una strada che le future generazioni non useranno mai!
Le varie Broadway, Fleet Street, o Cheapside non sono nate grandi e grosse da un minuto all’altro. Nel novantanove per cento dei casi è possibilissimo prevedere con certezza che una data via residenziale non potrà mai trasformarsi in una grande arteria di traffici. Oppure se «mai» sembra una parola troppo forte, diciamo entro un ragionevole arco di tempo. Non sembra del tutto assurdo sovraccaricare la comunità per un lunghissimo periodo dei costi annuali di centinaia e centinaia di sterline per vie inutilmente ampie, solo perché esiste la remota possibilità che magari dopo secoli qualcuna tra quelle vie possa reggere molto più traffico di oggi? E quando non si riesce a prevedere quel futuro, di traffico effettivamente crescente, la tendenza delle attività e delle costruzioni, o delle opere pubbliche, in grado da sole di cambiare radicalmente la città, fornisce comunque per tempo l’indizio che è ora di prepararsi. Se vogliamo essere preveggenti nella trasformazione della città, cerchiamo di esserlo in pratica e non in teoria. Osserviamo, tra le altre cose, come l’attuale tendenza alla trasformazione per quartieri omogenei al proprio interno ma ben distinti dalle altre zone, condizioni in modo possente non solo i valori immobiliari, ma anche gli stessi flussi di traffico. E un sistema di progettazione stradale adeguato a quartieri di questo tipo sconsiglia ulteriormente la logica della via standard.
Lo scopo di una strada è quello di mettere in comunicazione. Aggiungerci, come altro particolare, che ad esempio in una zona residenziale se la sezione stradale non serve al traffico la si può mantenere della stessa larghezza ma metterci altro – erba, fiori, aria e sole per gli edifici – è assurdo, dato che le medesime cose si possono ottenere con metodi assi più economici. Nessun architetto giustificherebbe mai l’aggiunta di nuove rampe di scale in un edificio perché ai ragazzini piace usare i corrimano come scivoli. Allo stesso modo, se effettivamente sulle grandi arterie di traffico più spazio in sé è perfettamente plausibile e auspicabile per l’aspetto, è un motivo in più per non restringerle. Per quelle minori – categoria in cui colloco tutte quelle che non sono né grandi viali né diritti di passaggio per ferrovie urbane – è la stessa relativa intimità a renderle più attraenti, e da un punto di vista estetico non ci guadagnano nulla dagli eccessi di ampiezza. Erba fiori aria aperta e luce solare si possono trovare in altri modi. Sempre assumendo che sia nostro diritto imporle ai quartieri, possiamo comunque ridurre tutte le strade decisamente secondarie a quanto effettivamente necessario alle autentiche necessità di traffico. Facendo questo modifichiamo le dimensioni dei lotti e possiamo riorganizzare costruzioni e spazi liberi, eventualmente ponendo qualche vincolo; il verde può sempre esistere come complemento degli edifici e non della via, e per quanto riguarda le alberature stradali ombreggiano meglio collocate in una via stretta e all’interno del percorso pedonale anziché all’esterno.
Notiamo l’incongruenza di realizzare sempre marciapiedi su entrambi i lati delle vie, indipendentemente dall’esistenza o meno di un traffico pedonale, e sempre paralleli alla carreggiata. Una sopravvivenza. Tra tipi a villa con molto spazio aperto attorno, pittoresco e dall’altimetria irregolare, non sarebbe meglio e cento volte più bello, adeguato a un parco, se non solo le vie secondarie fossero più strette, ma ce ne fossero di meno, aumentando invece i percorsi pedonali? Non si creerebbe così molto facilmente un effetto «rus in urbe», quello che oggi il ceto medio chiama anche «città giardino»? È oggi pratica universalmente diffusa quando si realizzano strade in zone rurali preferire una sezione ridotta ben pavimentata ad una più ampia ma con materiali scadenti. Si ritiene così di servire meglio le esigenze del traffico secondo autentici criteri di economia. Perché non impariamo anche noi? Dal punto di vista del traffico da gestire, la via secondaria in un quartiere residenziale assomiglia molto più alla strada rurale che non all’arteria cittadina principale.
Ma per tornare alle esigenze degli abitanti di quelle vie, il valore di una progettazione aderente alle necessità anziché a teorie immaginarie, emerge in modo particolare nelle zone ad affitti bassi, ovvero quelle dove maggiore è la quantità di persone. Ci dicono che la strada molto ampia sia una ottima cosa nei quartieri poveri, perché non solo offre sole e aria, ma anche spazio per il gioco e la ricreazione. Ma se ci fosse meno superficie dedicata alla strada, e più ad arretramenti e cortili, avremmo comunque luce aria e spazi per il gioco. Superfici che si possono ottenere in due maniere. Aggiungendo a ciascun lotto l’area risparmiata dalla via più stretta, oppure concentrando in un parco o campo da gioco la somma di tutte le sottrazioni alla via. Il vantaggio di questa seconda possibilità pare evidente. Ma anche con la prima si capisce come un bambino sia certamente più sicuro giocando sulla porta di casa dentro i confini della pertinenza dell’abitazione familiare, anziché nella strada. Consideriamo tra l’altro che almeno per metà dell’anno anche alle nostre latitudini la soglia di casa delle famiglie lavoratrici costituisce di fatto una specie di stanza in più, e questa door-yard risponde ancora meglio all’esigenza, per esempio di intrattenere amici e conoscenti. Si allarga lo spazio della casa tanto prezioso per il benessere cittadino.
Entrano poi in campo altri problemi. In certi quartieri i lotti molto profondi sono fonte di molto disagio abitativo: non dovremmo evitare di renderli ancora più profondi? La risposta è semplice. Nei quartieri popolari in affitto dalla popolazione brulicante il volume stesso del traffico impedisce di restringere la via. In una zona di villini dove il difetto dei lotti profondi è quello di tentare la costruzione di entrambe le estremità, non dobbiamo temere la profondità, ma la zona dietro la linea dell’edificazione. Mentre aumentare quella sul fronte non cambia nulla in positivo o in negativo da quel punto di vista. Mi sto forse allontanando troppo da quello che doveva essere il mio tema, esclusivamente espositivo? Forse basta così: nulla è stabilito finché non si stabilisce, anche se di certo il nostro attuale metodo di organizzazione delle vie è talmente sballato da essere per forza in una fase di transizione. La città attuale dimostra, nella sua triste realtà, sia l’essere ancora ancorata al proprio passato, a volte accresciuta in popolazione e spasso anche in dimensioni, sia l’inadeguatezza alle condizioni di vita moderne. Ci fu un’epoca in cui le persone abitavano gli stessi edifici in cui lavoravano, e tutto risultava mescolato e compresso senza alcuna possibilità di differenza funzionale.
Allora, in teoria, che le strade fossero tutte una uguale all’altra poteva anche avere senso, mentre essere diverse rappresentava un potenziale ostacolo al traffico. Ma quell’epoca è finita. Jane Addams, la nostra maggiore pensatrice e operatrice sociale, scrive: «Le città diventano sempre più complesse, ricche di variegate risorse, più organizzate, e hanno molto più bisogno di una migliore ed estesa anatomia locale». Scrive questo, semplicemente e per inciso, volendo dimostrare un’altra cosa, e col tono di chi afferma qualcosa di ovvio. Ma non dice anche chiaramente una grande verità, che noi urbanisti dobbiamo ancora cogliere, o per lo meno cogliere e praticare? L’infanzia è un periodo bellissimo e divertente, ma finisce, e la cosa vale ancor di più per le realizzazioni umane. E la città è forse la più complessa, merita la migliore efficienza per adeguarsi a nuove funzioni. Progettare strade e reti secondo i bisogni di un’epoca che non esiste più vuol dire programmare inefficienza, causare spreco economico che si ripercuoterà su tutti noi, e più pesantemente sui più poveri. Costruendo vie infinitamente più larghe di qualunque necessità di traffico probabile, si sottraggono ai cittadini spazi aperti preziosi, per abitare, facendoli diventare una strada e facendogli anche pagare il prezzo di quel furto.
Nella città ideale del futuro sicuramente si cambierà metodo. Già si vedono innumerevoli segnali di crisi di quel sistema. E la progettazione stradale è un aspetto fondamentale della città moderna, mai cambiamento sarà così urgente. Le antiche vie della piccola città bambina perduta di tanto tempo fa erano molto più adeguate di quanto non siano oggi la maggior parte delle strade che non rispondono affatto alle nostre necessità adulte. Riconosciamo la natura moderna del problema, a affrontiamoli con libertà, senza pregiudizi, e con tanto buon senso.
Da: Royal Institute of British Architects, Town Planning Conference – London 10-15 October 1910 – Transactions – Titolo originale: Cities of the present as representative of a transition period in urban development – The evidence of standardised streets – Estratto e traduzione a cura di Fabrizio Bottini