Il fatto che quasi tutta la pubblicistica internazionale, più o meno da sempre, si riferisca alla Garden City come a una «invenzione di Ebenezer Howard», ha indotto un equivoco di proporzioni enormi. Naturalmente fu lo stesso Howard ad alimentarlo non poco, intestandosi indebitamente una paternità culturale soltanto in minima parte propria, e che invece sia prima che dopo la pubblicazione del suo famoso opuscolo trova senso legittimo in tantissimi altri testi ed esperienze. Si evolve almeno lungo buona parte del XIX secolo, quel vago modello di insediamento ideale a basse densità e look suburbano, dai quartieri per arricchiti alle decentrate cittadelle operaie del paternalismo. E continuerà ad evolversi solo formalmente citando un riferimento a Howard, a partire da quel corposo manuale pubblicato dal rappresentante della camera alta Sennett pochissimi anni dopo l’opuscoletto riformista, che pare dire: ragazzi, guardate qui come si fa veramente, mica per gioco come voialtri! Tutti questi richiami sostanzialmente per dire, che quando parliamo di città giardino non è affatto vero che esista un modello di confronto su cui commisurare qualità, intenzioni coerenti o meno, adesione ad una filosofia autentica, almeno se stiamo parlando di forme fisiche, e non di quell’impasto particolare che esse assumono nel progetto «paradigmatico» ma anche no di Raymond Unwin per Letchworth. Poi ovviamente ci sono le intenzioni, buone e meno buone.
Di buone intenzioni è lastricata la Broadway
Che ci dice il progetto del profeta da tutti riconosciuto e al tempo stesso tradito all’istante? In sintesi racconta, banalmente, che la classe operaia industriale del suo tempo nella città industriale ci sta male, specie per via della pessima qualità delle case, per la loro lontananza dagli spazi aperti, e per la troppa vicinanza all’inquinamento degli impianti vetusti. Tutto, ma proprio tutto, il resto dell’idea territoriale e urbanistica di base deriva da lì, con l’aggiunta (quella si fondamentale e originale) del modello organizzativo cooperativo, la gestione ordinaria socioeconomica della comunità, il modello di impresa partecipata, e lì stiamo giusti dentro al filone politico riformista dentro cui si colloca coerentemente Ebenezer Howard. Ma proprio nel momento in cui esplode il successo mediatico e di consenso per la Città Giardino sedicente howardiana, sono tutti lì ad alitare sul collo del vecchio socialista fabiano per dirgli che in fondo la «real reform» a cui si riferiva, è un bel gruppo di villini col prato davanti, il resto sono sciocchezzuole, dettagli, pinzillacchere. E in fondo hanno pure ragione questi banalizzatori, perché lo stesso Howard in fondo aveva sfruttato quell’ossimoro di origine biblica per fatti propri, e la città giardino resta tale legittimamente anche senza la sua cooperativa, anche senza la partecipazione organizzata, anche con una diversa organizzazione proprietaria. Puff! Tutto svanito il sogno riformista e torniamo al volo nel regno del solido mattone in proprietà riverniciato di nuovo.
Innovatori incompresi?
In fondo dovrebbe essere illuminante, che già i suoi contemporanei socialisti di tutta Europa rimproverassero al collega britannico di pretendere troppo col suo modellino organizzativo: bastava e avanzava sventolare una generica città dell’avvenire meno schifosa di quella esistente, e sui dettagli poi adattarsi a quel che passava il convento di caso in caso. Curiosissimo poi lo sbarco oltre Atlantico di quel concetto, che esplicitamente per bocca degli stessi protagonisti «riformisti» rifuggiva da qualunque sospetto anticapitalistico lì impresentabile, focalizzandosi sulle forme fisiche del quartiere prima (Forest Hills Garden) e sui suoi contenuti socio-spaziali pochissimo più tardi (gli studi originari di Clarence Perry sul raggio d’azione degli edifici scolastici). In pratica, con la sola e ovvia eccezione delle New Town britanniche del dopoguerra, il cui contenuto pur assai diverso discende comunque in modo diretto dalle intenzioni di Howard e dei suoi collaboratori originali, «città giardino» per tutto il ‘900 e sino ai nostri giorni sta semplicemente ma legittimamente per quartiere coordinato e pianificato (di iniziativa pubblica, privata, cooperativa, mista) con qualche pretesa o realtà ambientale, diremmo sostenibile. Ed è quindi perfettamente legittimo anche l’articolo allegato scaricabile, che di fronte al dilemma tutto americano e di mercato, fra le preferenze dell’ultima generazione per l’urbano e il modello di sviluppo suburbano dell’American Dream, suggerisce di «tornare alla città giardino». Cosa si intenda poi, giudicatelo voi, ma certamente è suo innegabile diritto.
Riferimenti:
Dean Saitta, Kyle Cascioli, Ron Throupe, Garden cities, Sterling Ranch and sustainable urban development in the American West, Journal of Urban Regeneration and Renewal, Vol 9, n. 2, inverno 2015-2016 (scarica direttamente un pdf immagine leggibilissimo fatto in casa dagli Autori per aggirare il copyright della Rivista)
Immagine di copertina: casa esagonale a molti alloggi per una città giardino, da Alfred Richard Sennett, Garden Cities in theory and practice, 1905