Ognuno esprime un proprio punto di vista, come naturale: ci si mette nella specifica prospettiva, si osservano i fenomeni, e poi si racconta in sintesi e nei dettagli quel che ne esce. Badando bene, però, a sviluppare quel racconto sia in modo da non scordarsi mai la posizione del punto di vista, sia ricordandolo al lettore, che non caschi nell’errore di scordarsi gli altri. Le cose si guardano da lontano, da vicino, dall’alto o molto angolate, e ogni volta queste prospettive suggeriscono aspetti nuovi. L’errore più grossolano è appunto di ritenere (come è costretto a fare qualcuno non in grado di spostarsi, né di avere notizia indiretta degli altri osservatori) che quella prospettiva sia l’unica possibile, o comunque infinitamente più aderente all’oggetto di tutte le altre. Un esempio lampante è quello di casa nostra, il posto dove abitiamo magari da sempre, e che osserviamo principalmente dall’interno, da vicino, e che facciamo fatica a individuare se inquadrato da fuori e da lontano, figuriamoci poi se quell’osservazione esterna e remota la fa qualcun altro con occhi diversi: mica sta parlando della medesima cosa! E invece si, pensandoci solo una frazione di secondo. Quella frazione di secondo che non vogliono, assolutamente, dedicare certi specialisti poco propensi a considerarsi tali, i guru dell’economia, meglio se articolata per tabelline.
Economia della necropoli abbandonata
Una esercitazione del genere, al limite del surreale e anche oltre, la fanno certi lettori dello “sviluppo locale” quando confondono a bella posta il territorio con certe quantità estratte dal medesimo territorio, scordandosene colpevolmente l’origine. Certo isolare i fenomeni e analizzarli uno per uno è un ottimo metodo di studio, esattamente come avviene in medicina, in meccanica, dappertutto insomma, ma poi non bisogna dimenticarsi di ricollocare al suo posto il pezzo studiato, sia per lasciar funzionare tutto il resto, sia per verificare se le conclusioni tratte dallo studio non siano magari sballate alla verifica contestuale (la famosa barzelletta del trapianto perfettamente riuscito, ma il paziente è morto). Se si estraggono delle varianti da un territorio, poniamo il reddito, prima di applicare certe conclusioni in forma di giudizi generali, occorrerebbe appunto reintrodurre quelle varianti nella generalità: come le avevo cavate? Da chi? Quando? Adesso è tutto come prima oppure qualcosa è cambiato? Invece succedono cose assurde, come quei bancari che parlano di “gentrification” in una zona, perché è cresciuto il reddito pro capite nelle dichiarazioni al fisco. Così, senza neppure chiedersi se si tratta delle stesse persone che hanno cambiato lavoro, di altre persone arrivate nel frattempo a sostituirle, o se quel reddito viene in effetti speso lì “gentrificando”, oppure se ne va altrove, a territorializzarsi chissà come. Come se facessero indagini sociologiche in un cimitero, basandosi sui dati anagrafici di chi ci sta sepolto, ma senza calcolare l’epoca del decesso né ritenere di dover spiegare che non l’hanno calcolata. Che razza di spaccato professionale, economico, di genere, di fasce di età, ne salterebbe fuori? E se mescolassero magari i vivi e i morti, mettendoci dentro gli operatori, o i visitatori, senza dircelo? Eppure queste cose le fanno, eccome se le fanno.
Houston, avete un grosso problema!
L’Economist, considerato a buona ragione la bibbia dei liberali, in fondo ce lo dice già a partire dalla testata, che privilegia comunque la prospettiva del borsellino, anche se ci sta parlando dell’acquario dei pesci rossi. Però in un suo servizio dedicato alla capitale dei petrolieri texani perde decisamente l’aplomb britannico che dovrebbe (almeno secondo l’immagine comunicata dal marketing) sottendere ogni atomo della sua produzione giornalistica. Houston è la capitale del petrolio, e di uno dei suoi principali prodotti: l’urbanizzazione fine a sé stessa auto-centrica detta sprawl. Un meccanismo che si auto-alimenta, mescolando al più alto valore virtuale aggiunto consumi di beni effimeri, durevoli, investimenti pubblici in infrastrutture, e collegata speculazione finanziaria. Funziona così magnificamente, da un certo punto di vista, che quel punto di vista viene puntualmente adottato faziosamente, e da sempre, da quei centri studi negazionisti legati alla destra petroliera, quando non sanno più dove attaccarsi per difendere il loro modello: guardate a Houston, lì va tutto bene per questo e quest’altro motivo, altro che criticare lo sprawl! I critici dello sprawl però lo dicono chiaramente, di parlare degli impatti ambientali, del verificato rapporto tra forme insediative e qualità della vita, del contributo enorme che si dà al cambiamento climatico. Niente da fare, i nostri eroi targati Tea Party o dintorni replicano puntuali: siete faziosi e comunisti, la dispersione urbana funziona magnificamente, guardate che redditi, e come costano poco le case (a cento chilometri da qualsiasi cosa)! Ecco dove si va a finire negando l’evidenza, ovvero che qualunque cosa si descrive in modo complesso, da vari punti di vista. Ma che lo faccia il compassato Economist, comportandosi come il più fazioso dei ladri di vacche, un po’ colpisce. Si vede che gli inserzionisti pubblicitari pagano molto, molto bene.
Riferimenti:
Life in the sprawl, The Economist, 14 marzo 2015