Tra le moltissime critiche rivolte alle nuove forme del verde urbano, più o meno integrato dentro gli spazi artificiali della città, certamente spicca quella di non essere affatto verde, ovvero di usare strumentalmente quegli addomesticati elementi naturali a scopo promozionale di altro, segnatamente il valore immobiliare (via qualità estetica-architettonica) dei privatissimi interventi edilizi. Osservate però da un’altra angolatura, quelle medesime forme spurie di verde urbano, sempre che non vengano impropriamente a sostituirne altre meno discutibili, ma ad esse si aggiungano, svolgono comunque anche un ruolo pubblico, sia di carattere vagamente ecologico che sociale-simbolico, aggiungendosi a ciò che potremmo probabilmente definire il verde virtuale della città postmoderna. Dove l’aggettivo virtuale non è sinonimo di smaterializzato, presenza solo ideale, ma spazio contenitore di entità diverse che altrimenti finirebbero per operare e apparire del tutto separate. Del resto quando si parla delle cosiddette infrastrutture verdi salta spesso all’occhio come e quanto si compongano, pur nella ideale unità e organicità, di vasi comunicanti solo in parte: superfici pubbliche e private «continue» solo nella funzione ecologica, ma non certo in quella della accessibilità sociale, aree e impianti di produzione agricola che è spesso complicato addirittura classificare come verdi (serre, strutture verticali, high-tech varie), figuriamoci poi considerarle tutt’uno con parchi, giardini, oasi naturali extraurbane.
Non di solo mangiare vive l’uomo
Forse li abbiamo incontrati tutti, quei personaggi del tutto indifferenti alle piante dentro o vicino casa, ma pronti a riconoscerne e sostenerne decisi il ruolo se «si mangiano». Per contro esiste anche chi considera propriamente verde soltanto uno spazio o ambito che garantisce un certo livello estetico di qualità, classificando il resto come «inutili sterpaglie» anche sacrificabili. E infine anche molti inclini a pensare esclusivamente all’aspetto prestazionale, di accessibilità massima per l’uso ricreativo, ovvero a sovrapporre integralmente la classificazione tecnica di «verde attrezzato», dove spesso oltre la dizione burocratica di naturale esiste poco o nulla. Se osservato specificamente dalla prospettiva agricola-alimentare, o meglio della produzione di alimenti, questo articolarsi anche estremo della soggettiva legittimazione del verde urbano-metropolitano si incrocia molto virtuosamente coi risultati di numerosi studi e sondaggi locali proprio concentrati sul ruolo complesso di certi spazi. Da cui emerge assai chiaramente quanto si rafforza l’immagine positiva e identitaria per esempio degli orti urbani, quando uscendo dall’angusta prospettiva della sola produzione, o integrazione economica, se ne sommano i vantaggi per le relazioni interpersonali e di quartiere, il ruolo di volano per altri aspetti della vita sociale, o semplicemente di richiamo indiretto ad altri aspetti dell’esistenza urbana. E la cosa, per «estensione virtuale» si collega immediatamente ad altre componenti del tutto staccate ma afferenti all’unico tema, ovvero dell’equilibrio natura-artificio nella città sostenibile.
Messaggi e programma ambientale
Dal punto di vista degli operatori pubblici e privati coinvolti a vario titolo nella «produzione» gestione conservazione del verde, e probabilmente anche dei suoi usi e funzioni (pensiamo ad esempio alla distribuzione alimentare o ai servizi ambientali) ciò darebbe indicazioni assai chiare su come concepire e programmare una componente essenziale della città, in una prospettiva di sostenibilità autentica e non semplicemente proclamata. La questione portante, e se vogliamo molto alla moda oggi, della cosiddetta agricoltura urbana, scambiata da alcuni come una sorta di «cuneo verde rurale» a scardinare la logica socio-spaziale della città, diventa la base per declinare in modo equilibrato anche gli altri aspetti, o quanto meno non escluderli mai dal cocktail. In particolare pensare a quegli spazi e strutture come ciò che «dà da mangiare alla metropoli» è una sciocchezza e una menzogna, dato che quel contributo, sia in termini alimentari che economici, è confermato dalle ricerche come minoritario e a volte quasi marginale, da solo. Occorre invece tornare sempre alla pluralità dei ruoli della natura in città, recuperandone in primo luogo quello sociale, di immagine, estetico e prestazionale. Tornando specificamente ai già citati orti di quartiere, per esempio, ricordandone la funzione di spazio pubblico, luogo di relazioni, tempo libero, sosta, parco in senso molto lato, e poi complemento di tante altre attività urbane. Altrimenti, il rischio è che gli ambiti verdi si collochino sempre in bilico tra una imposizione dall’alto con poca legittimazione sociale, e un bene collettivo sempre sul punto di scivolare verso l’interesse privato.
Riferimenti:
Micheal Hardman, Urban farms won’t feed our cities – but they’re still a great idea, City Metric, 29 aprile 2019