Quando si spalancarono le porte dell’automobilismo di massa, tutto apparve improvvisamente possibile, anche ciò che pensandoci solo un istante non lo era affatto. Stare in un posto e potersi quasi istantaneamente spostare nell’altro in effetti era un sogno covato troppo a lungo per non provocare quel terremoto, quella trafelata corsa da un lato di chi appena se lo poteva permettere ad afferrare il veicolo promesso dal destino, e dall’altro di spianargli la strada perché quel saltellare un pochino frenetico e meccanico potesse svolgersi nel migliore dei modi. Con un duplice effetto nell’immediato, a cui si aggiungerà in seguito un ben più micidiale effetto collaterale. Immediatamente, viene ad enfatizzarsi quella specializzazione funzionale un po’ ingegneristica e già limitatamente praticata in precedenza: uno spazio per abitare, uno per lavorare, uno per divertirsi, o addirittura spazi separati e diversi per lavorare in un certo modo e non in un altro, o abitare secondo una certa preferenza specifica. Con la disponibilità dell’auto che avvicina virtualmente tutti questi diversi e remoti posti, dal punto di vista fisico finiscono per allontanarsi l’una dall’altra non solo le funzioni, ma anche i singoli luoghi di queste funzioni: la casa lontano dall’altra casa, l’ufficio lontano dall’altro ufficio, e così via. Si enfatizza così il valore dello spazio dedicato e privato, a tutto discapito di quello pubblico di relazione, almeno potenziale, e aperto, non troppo rigidamente definito. Ma qui entra in campo il famoso, micidiale effetto collaterale.
Conseguenze impreviste
Come ben sappiamo noi esseri umani, certe parti del corpo se non vengono usate ed esercitate regolarmente, finiscono per atrofizzarsi e in pratica sparire dalla funzionalità corrente. Qualcosa di simile avviene con l’esplosione dell’automobilismo di massa allo spazio aperto e pubblico, quello con funzioni prima poco definite sia socialmente che spazialmente, perché il muoversi da un luogo all’altro sta a significare di fatto l’obliterare altri luoghi. La strada, concettualmente una linea che collega il punto A al punto B, e poi altri punti tra di loro, in realtà è ben altro, e sino a quel momento aveva svolto ruoli vari di ambiente di incontro, relazione, attività economica e sociale, nonché soluzione di continuità fra ambiti privati specializzati e ambiti aperti naturali di vario tipo. Ma il moltiplicarsi dell’andirivieni di auto richiede sempre più corsie e sempre più ampie, opere di complemento come svincoli su più livelli, sovrappassi, sottopassi, corridoi di accelerazione, decelerazione, piazzali di sosta e interscambio. Tutto questo erode quello spazio indefinito prima a disposizione, e finisce per allontanare ulteriormente le funzioni e i loro luoghi. Molto in sintesi, sono questi i caratteri da cui nasce l’organizzazione spaziale del suburbio di matrice automobilistica, e anche in parte quel genere di riorganizzazione urbana a cui assistiamo nei decenni centrali del XX secolo: luoghi lontani, separati da una terra di nessuno fruibile esclusivamente in auto. E non esiste una soluzione facile al problema così determinato.
Come dovrebbe cambiare il suburbio automobilistico
La mobilità dolce è di gran moda, per motivazioni ambientali, di stili di vita, e anche per risvolti commerciali (non dimentichiamoci che lo shopping mall nasce come paradiso del pedone nel pieno trionfo dell’automobile). E il mercato inizia a reagire da par suo, rivalutando i luoghi e relativi immobili che per un motivo o per l’altro sono scampati alla furia distruttrice delle corsie stradali: la pedonalità, la ciclabilità locale, sono oggi un asset, ma così come avviene da sempre col verde privato dell’alloggio o condominiale o di quartiere, non basta affermarne l’esistenza o poco più per conferire valore di scambio. Recuperare il senso delle reti di relazione spaziale perdute nel secolo dell’automobile, significa anche colmare il gap della distanza con uno strumento diverso da quello del veicolo, ovvero avvicinare luoghi e funzioni sostituendone alle infrastrutture dedicate. Questo è, in sostanza, fornire una risposta all’attuale domanda di spazi qualificati, in una parola «densificare», mettere più cose interconnesse a distanza pedonale. Chissà cosa penserebbero, gli acquirenti di certi nuovi o rifatti quartierini di lusso magari in stile classico new urbanism, con le vie che un po’ scimmiottano un centro storico o un villaggio antico, se gli si dicesse che quella è, né più né meno, la stessa «densificazione» che temono come la peste, immaginando certi incubi di torri mal concepite e peggio realizzate da generazioni di architetti e costruttori affetti da megalomania. Si tratta, però, semplicemente, di chiarirsi e di spiegarsi. A modo suo, il cliente ha sempre ragione.
Riferimenti:
Marcelle Sussman Fischler, Suburban buyers ask: can I walk to town? The New York Times, 16 dicembre 2016