Inutile sottolineare come nonostante il fondamentale apporto di aspirazioni individuali e familiari, di tempo libero e di relazione, di servizi correlati a questi aspetti, il vero centro e motore delle trasformazioni urbane e territoriali sia da sempre l’attività economica, produttiva, di ricerca, amministrativa o finanziaria. Su tutto l’arco dell’ultimo secolo, gli effetti di questo nucleo-motore sono quelli noti del decentramento produttivo prima, della polarizzazione poi tra dispersione di residenza e attività e concentrazione terziaria centrale, e negli anni più recenti quella della riurbanizzazione, che però pare non essere proprio un processo così lineare. Il primo processo che viene in mente è come abbastanza ovvio quello lungamente teorizzato sul versante spaziale e delle relazioni dall’accoppiata sinergica new urbanism-Richard Florida con l’immagine di quartierini costruiti attorno a gusti e possibilità di un nuovo ceto sociale riassunto dall’accezione di creative class, anche se di fatto più complesso, con fasce di età superiori o fuori dal mondo del lavoro attivo, o economicamente diversificate e a riempire qualche interstizio, perlomeno là dove non è intervenuta la piaga della gentrification appiattente, indotta dall’applicazione meccanica di quelle teorie per lo sviluppo locale. Salvo alcune divagazioni di carattere generale dello stesso Florida, le pratiche però escludono una verifica delle strategie reali delle medesime imprese.
L’opzione conservatrice
Il caso più noto di controtendenza, se non altro perché i protagonisti rappresentano il massimo del massimo quanto a visibilità e rappresentatività, è quello della Apple a Cupertino. Dove non solo si è confermata la strategia ultra-suburbana sul territorio della grande impresa novecentesca, ma il tutto è avvenuto ripescando addirittura modalità da company town ottocentesche. La vicenda è abbastanza nota da poter essere riassunta qui nei tratti fondamentali, a partire dalla decisione dell’ormai quasi morente Steve Jobs di realizzarsi una sorta di mausoleo vivente (i tratti del capitalista fai da te dell’epoca rampante sono già qui chiarissimi) nella forma della «astronave panottica» progettata dall’archistar per tutte le stagioni Norman Foster, ma evidentemente ideata dallo stesso Jobs. Ancora più vintage, la vicenda della corposa variante di piano regolatore imposta con le minacce all’amministrazione locale, per realizzare il mega-toroide del quartier generale nell’ex area del campus Hewlett Packard, scelto per motivi che si possono tranquillamente definire psichiatrici dal padrone delle ferriere. Risultato: l’impresa autoritaria localizzata autoritariamente dentro una sorta di feudo, a imperare come un castello sul contado circostante dove risiedono i suoi lavoratori, in una scelta che più anti-urbana non si può. E di cui l’organizzazione per famiglie tradizionali, per trasporti automobilistici, per abitazioni isolate unifamiliari, sono il portato prevedibile e verificabile.
Una «terza via»?
Fra il bianco e il nero esistono sempre tutte le possibili sfumature di grigio, a costituire nei fatti la quasi totalità dei casi, e lo schema si ripete anche nella oscillazione pendolare dispersione-accentramento delle imprese, in ambiente urbano o antiurbano. Significativo il caso Amazon, che con l’idea di ricollocare la propria centrale strategica in un ambiente urbano adatto alle sinergie sociali e occupazionali in voga (più o meno nella linea della creative class con qualche importante variante) ha innescato una specie di abbastanza inedito e un po’ patetico processo di concorrenza territoriale fra le amministrazioni interessate in ogni angolo del paese, in sostanza con l’eccezione della densità fisica urbanistica e poco altro replicando quasi tutte le dinamiche dell’antica dispersione, in cui il potentato economico calava sulle località in una posizione di potere già consolidata prima di iniziare le trasformazioni fisiche ed economiche. Una ulteriore variante sul tema è quella proposta dal progetto, appena entrato nella fase esecutiva, dell’altro gigante, Microsoft, che nella regione di Seattle ha optato per una propria originale interpretazione del concetto teorico di suburban retrofitting. Ovvero ha deciso di restare dov’è da decenni, in quello che è in sostanza un grosso campus a raggruppare diversi complessi distinti ma in un organismo unitario, gestendo però la trasformazione in senso «urbano»: pedonalità interna, multifunzionalità, uscita relativa dal modello dell’ufficio chiuso, pur ancora caratterizzato nel senso classico della Microsoftown dove tutto sa di azienda. C’è da chiedersi se esista poi qualcosa di simile a una tendenza generale (con le sue eccezioni) nel rapporto tra impresa e territorio, visto che i casi descritti, e il dibattito su centralità o dispersione parallelo, farebbero pensare a una situaizone in cui ognuno si muove un po’ come gli pare più funzionale agli interessi del momento.
Riferimenti:
Rachel Lerman, Microsoft plans multibillion-dollar expansion, renovation of Redmond campus, Seattle Times, 28 novembre 2017