In orbita attorno ai coglioni dell’omicidio stradale

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Foto F. Bottini

Ormai pare fatta: il popolo vendicativo e i suoi decerebrati rappresentanti in vena di facili populismi hanno ottenuto la vendetta che cercavano: pene più gravi per alcuni incidenti. Questo ovviamente non farà nulla per diminuire il numero e la gravità degli incidenti, in sé, ma la moda vuole così, che si guardi altrove urlando molto. Dato che nulla pare ormai possibile per redimere questi patentati e pericolosi coglioni, proviamo perlomeno una conoscitiva orbita attorno al loro universo, magari concentrandoci su qualche dettaglio che proprio dettaglio non è, trattandosi di solito del segmento concretamente responsabile del cosiddetto omicidio stradale, quella cosa che fa crash, fisico o logico, contro il povero corpo che ne attraversa la traiettoria. L’alcol per esempio.

L’alcol uccide. Solo per fare una piccola rassegna dei modi specifici in cui uccide, si possono ricordare qui gli effetti a medio termine e quelli a breve. Consumare alcol fa male al fegato, favorisce lo sviluppo di alcuni tumori, debilita in generale l’organismo. E consumare una quantità esagerata di alcol in un breve arco di tempo può ammazzare direttamente senza passare dal via: lo sapeva bene già il poeta Dylan Thomas (quello da cui Bob Dylan ha preso in prestito il nome d’arte) che dopo eterni tentativi di scrollarsi di dosso il vizio, la fece finita proprio buttando giù di colpo un litro di whisky.

Anche le cazzate uccidono. Uccidono in una infinità di modi: chi le combina, chi le subisce, chi le scrive e chi le legge. Magari a volte complici il periodo moscio di altre notizie che spinge tutti a osservare con più attenzione le strade e il traffico, si legge di incidenti mortali provocati dall’alcol, corroborati da statistiche, opinioni di tuttologi, vallette, preti. È forse caduta una cisterna di distillato sopra una famiglia che andava in vacanza al mare? Un intero pullman di turisti tedeschi ha deciso di suicidarsi saccheggiando il bar dell’autogrill e prosciugando l’intera scorta di liquori? Naturalmente no: succede, come sempre, che uno o più veicoli sono andati a sbattere violentemente addosso a qualcuno. Chi stava alla guida di quei veicoli, tra le altre cose, aveva bevuto troppo alcol (non si sa niente sugli investiti). Tra le altre cose, appunto. La cazzata sta nel non tenere mai conto di tutte queste altre cose, che si chiamano contesto.

In quale contesto avviene l’incidente? Apparentemente ci sono tre componenti: le persone, la strada, i veicoli, più l’alcol che squilibra tutto e fa precipitare le cose. Giusto? Sbagliato. Sbagliato perché ci sono tante variabili. Ad esempio siamo andati avanti per anni praticamente senza controlli sul tasso di alcolemia, perché come dicono in tanti gli effetti del bere sono soggettivi. Qui entrano in campo le persone, i loro comportamenti, e anche la loro reazione all’alcol e ai comportamenti indotti. Ma c’è anche la strada, che contiene tutto: se i veicoli, le persone, l’alcol, non si trovassero contemporaneamente lì, non succederebbe niente. Quindi una lettura corretta dei fatti, e ad esempio una coerente politica di prevenzione, dovrebbero ragionevolmente riflettere e lavorare in contemporanea su tutti i fronti. Succede invece l’esatto contrario, ovvero si combina una enorme cazzata, che si aggiunge alle precedenti e ne prepara altre per il futuro.

L’alcol ottenebra la guida, e allora giù coi controlli, il palloncino, l’educazione dei giovani, le norme per le discoteche, i consigli per le mamme, le statistiche sulla capacità di smaltimento dei maschietti e delle femminucce. Le auto che vanno troppo forte, e qui di solito si inizia a capire che qualcosa non va, perché l’unica prevenzione possibile che salta fuori sono cartelli, autovelox, controlli, multe … ma stavamo parlando di un cocktail micidiale, e se si esclude l’alcol non ci capiamo più. Posso inventare tutti i controlli del mondo, che però non valgono se non si è in grado di controllarsi un po’ anche da soli, più o meno sconvolti dai drinks, dal sonno, da qualche droga. E infine la strada, che può essere autostrada dove da sconvolti si viaggia contromano, o strada normale dove si imbocca una curva con poca visibilità, e la sorpresa per l’ostacolo imprevisto fa il resto. Dove l’ostacolo è quella cosa a cui si va addosso, provocando l’incidente. In questa esagerata semplificazione del contesto stradale, probabilmente, sta il vuoto peggiore di tutte le letture, interpretazioni, e anche degli interventi, delle scelte tecniche e politiche di prevenzione.

Vale forse la pena di ricordare un altro specifico caso di qualche tempo (e amministrazione locale) fa, in cui di tutto si era parlato fuorché del contesto in cui avveniva il tonfo di un cofano su un poveraccio di passaggio. Quando in un’area turistica centrale di Roma, un’auto aveva falciato delle ragazze mi pare spagnole, e stavolta – ancora mi pare – l’alcol l’avevano bevuto loro. Non si parlava però di una cosa: che togli l’alcol e togli tutto il resto, l’incidente era successo perché il cofano in movimento si era trovato insieme alle persone nel contesto sbagliato: l’auto non doveva procedere tanto forte, le persone dovevano vederla prima. Non è tutto un problema, come puntualmente ce lo spacciano, di psicologia, di cultura, di comportamenti. Anche queste cose sono indotte e condizionate dal contesto, ovvero dalla carreggiata, dai marciapiedi se ci sono, dal modello di convivenza imposto a veicoli e pedoni.

Nel caso specifico ci si poteva domandare: ma ha senso che in un’area centrale anche frequentata da turisti e piena di luoghi di ritrovo le macchine possano procedere così veloci? E, in subordine, ha senso lasciare alla pura discrezionalità individuale gran parte dei comportamenti stradali? Lo sappiamo tutti cosa ci succede appena entrati in un abitacolo, quando il mondo esterno smette di stare al centro del nostro interesse, salvo quel corridoio/canna di fucile dentro al quale ci spostiamo di solito molto rapidamente verso la destinazione. Sinora la soluzione generalizzata, e parlo dei casi migliori, è stata quella della separazione dei flussi: la carreggiata veloce per i veicoli a motore, la pista ciclabile, il marciapiede o area pedonale. Nei punti di intersezione e potenziale frizione cose varie, tendenzialmente di nuovo separate, quasi sempre passerelle sopra o sotto, qualche volta improvvise discontinuità progettate nei rispettivi universi (un classico la rotatoria con i dossi di rallentamento e la riduzione della carreggiata), o le assai più frequenti discontinuità casuali, e di solito pure fatali.

Ahimè l’unico modello che pare ancora in gran voga è quello degli schizzi di Leonardo da Vinci vecchi di cinque secoli per la separazione delle modalità di traffico. Non è che Leonardo in questo caso abbia sbagliato tutto, è solo che i suoi esegeti anche lì si sono dimenticati del contesto. Lui quei disegni li immaginava dentro un progetto di città ideale, erano solo soluzioni tecniche particolari per un complesso organico, con obiettivi minimi piuttosto ovvi, come evitare che si camminasse nella cacca di cavallo o di bue (l’inquinamento dei veicoli di allora colpiva le suole delle scarpe invece dei polmoni). È applicare il principio in modo estensivo, a un intero universo territoriale, come soluzione panacea, a combinare il guaio. Si fa la rete autostradale dove si viaggia da ottanta all’ora in su, ermeticamente chiusa come un circuito di raffreddamento, con accessi e uscite controllatissimi.

Costa soldi, e tra l’altro non si inserisce per niente nel contesto più generale: una volta superata la barriera siamo al punto di prima. Si fa la rete pedonale e ciclabile, che è pure costosa per via di tutte le intersezioni governate, sottopassi, sovrappassi. Prima o poi i soldi finiscono, e si rinvia a data da destinarsi, dimenticandosi che questi piccoli vuoti sono esattamente il pertugio in cui si infila la cosiddetta fatalità, la distorsione obbligata dei comportamenti con origine tutt’altro che psicologica, sociologica, da consumi alcolici o altro. Poi entra pure tutto il resto, ma l’origine sta tutta nella fede esagerata in Leonardo da Vinci, quando sono spariti da secoli i suoi sponsor signorili che almeno qualcosa gli lasciavano costruire davvero.  Al posto dei signori rinascimentali, oggi abbiamo quelli delle tessere e dei consensi, che per distogliere l’attenzione dai fatti loro si inventano anche paraventi come l’omicidio stradale, rovinare due vite anziché solo una, risolvendo zero problemi salvo i propri.

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