Si è velocemente sviluppato un dibattito pubblico sull’importanza di migliorare le condizioni in cui abitano ampi strati della popolazione britannica. Un sistema sociale che manca di offrire ragionevoli prospettive di costruzione a tanti dei propri cittadini si censura da solo. Accumulare ricchezza di per sé è cosa priva di valore: ne assume tanto quanto arriva ad offrire occasioni di crescita materiale e spirituale. La verifica ultima del grado di civiltà dovrebbe essere quella del tipo di donne e di uomini che produce, quanto serve i reali interessi di chi la sostiene. Ho parlato di crescita materiale prima di tutto, e non perché questo genere di benessere sia superiore a quello intellettuale o spirituale, ma perché gli ultimi due alla lunga diventano impossibili senza il primo. Si tratta della base essenziale, su cui edificare tutto il resto, senza la quale non esistono solide fondamenta.
Nelle fasi iniziali di una civiltà, quando gli uomini ancora conducono una vita semplice e naturale, non c’è molto da preoccuparsi della propria salute fisica; però man mano la situazione in cui si vive diventa sempre più artificiale, e con le proprie mani e la propria volontà si vanno a modificare le leggi della natura, prima o poi si finisce per scoprire quanto, se quelle leggi non sono state sfruttate in modo intelligente, esse lavorino alla distruzione dell’uomo. La moltiplicazione dei bisogni accresce l’energia e inventiva a livelli impensabili, ma per tanti risultati si paga un prezzo, le dimensioni del quale stiamo solo iniziando a valutare. In Inghilterra lo sviluppo delle industrie ha condotto al concentrarsi di popolazione in grandi città, non solo molto più di quanto non sia accaduto altrove, ma là dove l’esperienza avrebbe suggerito quanti errori si sarebbero potuti evitare, nonché i metodi per farlo. Altri paesi che seguono il medesimo percorso hanno avvertito l’allarme del nostro esempio, e ciò ha consentito loro di evitare i pericoli prima che assumessero dimensioni simili a quelle in cui si manifestano da noi.
A Londra ci misuriamo con una città che non solo è il principale centro industriale del mondo, ma anche dove tante altre forze agiscono, al punto che i suoi cittadini a volte si dimenticano quanto sia industriale. Le difficoltà e i pericoli dell’eccessiva concentrazione di abitanti su un territorio sono importanti e numerosi. Ne elencherò brevemente alcuni. La densità di popolazione gonfia il prezzo dei terreni sino a livelli insostenibili, o per dirla in altri termini il valore eccessivo dei terreni da solo produce sovrafollamento. Parlando di trasformazioni, abbiamo una immensa area densamente popolata su cui operare, e agire demolendo un quartiere porta al sovraffollamento di altri, mentre distribuendo la popolazione su una superficie maggiore si finisce per inquinarne comunque irrimediabilmente l’aria. Il costo dei terreni nelle zone centrali è così elevato, che non si possono realizzare alloggi salubri per lavoratori da concedere ad affitti accessibili per il loro reddito, e ai lavoratori altro non resta che scegliere fra i caseggiati speculativi in una posizione a cui riescono a adattarsi, ma dove la situazione igienica non è affatto buona, specie per i bambini, coi villini ammucchiati anche 150 per ettaro, e distanti dal posto di lavoro, che comporta impiegare molta parte del tempo negli spostamenti.
Diventa impossibile anche trovare altro spazio in superficie per nuovi mezzi di comunicazione, e la vita del londinese che si sposta sta assomigliando sempre più a quella di una talpa. Certo non intendo minimamente frustrare l’impegno di chi ha lavorato e lavora a migliorare le condizioni di vita a Londra. C’è e ci sarà ancora tanto bisogno di loro, ma anche una volta fatto tutto ciò che è possibile fare, appare evidente la necessità di gestire in un modo o nell’altro la crescita di popolazione di Londra. Ben sapendo quanto la crescita produca altra crescita, dobbiamo far sì che i nostri sforzi producano effetti degni di nota, e inoltre non vorremmo che allentare la tensione a Londra si traducesse nel sovraffollare altri luoghi. Dovremmo quindi favorire la migrazione dalla capitale di quelle attività che si possono svolgere altrove con uguale o maggiore efficienza, e far sì che questo trasferimento avvenga in modi tali da impedire di riprodurre i difetti da cui le attività si stanno allontanando. I mali di Londra si devono in gran parte alla casualità e carenza di controlli del suo sviluppo. Appare ovvio che, se dovessero sorgere nuovi centri industriali nello stesso modo, probabilmente si ripeterebbero i medesimi difetti; mentre decentrare singoli impianti comporterebbe la perdita dei molti vantaggi dell’industria in una grande città, primo fra tutti la disponibilità di manodopera.
Quindi sarebbe fortemente auspicabile se gli industriali intenzionati a spostare le proprie attività da Londra si unissero in una azione coordinata. Ma questa non è certo una tendenza che contraddistingue il carattere britannico, e l’individualismo così stimolato tra noi per i suoi supposti vantaggi finisce per tradursi in grave ostacolo, non ultima la scarsissima fiducia nelle virtù della collaborazione, e la tendenza a contare solo sulle proprie forze per andare avanti. Inoltre, il tipo di organizzazione che servirebbe allo scopo è di tipo piuttosto elaborato e complesso, richiede conoscenze particolari in molti campi, nonché tempo e dedizione. Insomma, è chiedere troppo, ai nostri industriali, immaginare che si imbarchino da soli in una impresa del genere. Che dovrebbe invece essere compito di organismi pubblici o semi pubblici, i quali non agiscono esclusivamente per il profitto, ma nell’interesse del paese. Sicuramente è il caso di società per le Città Giardino costituite secondo lo schema dell’originaria First Garden City Limited, ma dotate del potere di acquisizione dei terreni, definizione di circoscrizioni amministrative, imposizione di tributi o affitti sui terreni urbanizzati, secondo quanto stabilito a livello ministeriale.
Nelle città costruite secondo i criteri di questi enti o autorità, man mano si effettuano le trasformazioni, i pagamenti devono limitarsi al solo canone, così come pensato originariamente da Ebenezer Howard, e come credo si faccia in Germania in una colonia. Così l’industriale può insediarsi con le sue attività là dove i terreni sono relativamente poco costosi, dove non esiste alcun motivo di contenere al massimo le proprie dimensioni, dove esiste disponibilità di manodopera, e anche acqua gas e altro sono a portata di mano. I bassi costi composti delle varie spese riducono il costo di produzione, e la migliore efficienza, controbilanciano abbondantemente la perdita del vantaggio di vicinanza al mercato centrale di Londra, spostando l’equilibrio a favore della Città Giardino.
Si sono sottolineati i vantaggi per gli industriali dell’istituzione degli enti Città Giardino, perché la riuscita delle città dipende dal potere di attrarre industrie. Si tratta di realizzare condizioni in cui si possa svolgere un lavoro produttivo moderno coi lavoratori e le loro famiglie in situazioni salubri. Nella città giardino l’operaio lavora nei pressi della fabbrica, ha a disposizione una casetta con giardino a un affitto su cui pesa pochissimo il costo del terreno, ci sono orti e spazi per il tempo libero, e nessun motivo per cui tutte le ore non trascorse al lavoro non possano essere trascorse all’aria aperta, giocando, o praticando l’agricoltura, cosa già di per sé ricreativa per chi di solito svolge un lavoro di tipo industriale. È la mancanza di aria pura la principale causa del degrado fisico e dell’insorgenza della tisi, tanto caratteristica degli abitanti delle nostre città.
Con strumenti del tipo di quelli che ho descritto è possibile attuare una redistribuzione della popolazione sul territorio. Ogni nuova città verrà circondata da una superficie tutelata permanentemente da ogni trasformazione edilizia. Piccoli proprietari e altre attività agricole lavorano nelle migliori condizioni quando si trovano nei pressi di un mercato di sbocco, me quei terreni possono essere ceduti ad affitti moderati solo se vengono acquisiti contemporaneamente a quelli per la costruzione della città, da parte di un ente che ponga i vantaggi dei cittadini al di sopra di tutto. Distribuendo insieme popolazione industriale e popolazione agricola, si accresce molto la possibilità che quest’ultima si guadagni da vivere con l’agricoltura. Appare evidente come se chi esprime la domanda di prodotti agricoli è insediato in cittadine di dimensioni contenute, invece di concentrarsi in pochi grandissimi centri, raggiungibili dalle campagne solo in ferrovia, chi lavora la terra nei pressi delle cittadine avrà a disposizione un mercato di sbocco facilmente accessibile, senza i passaggi del trasporto via treno. E se i medesimi coltivatori hanno a disposizione i terreni non in proprietà, ma ad un affitto moderato, si sostiene un settore che darà lavoro a più persone.
Il problema di far ritornare la popolazione alla terra è in ultima analisi tutto economico. Se si adottassero provvedimenti tali per cui i guadagni dell’agricoltura, sia in forma di salari che di profitti, potessero accrescersi in misura simile a quelli di altre attività, la vita nei campi tornerebbe ad essere attraente per molti, e non dimentichiamo che la vicinanza della campagna alla città offre occasioni di rapporti sociali, alleggerendo la noia tipica della vita in un insediamento sparso, eliminando così un ulteriore ostacolo al lavoro nei campi.
Riferimenti:
AA.VV. Housing in Town and Country, Garden City Association, Londra 1906 – Estratto e traduzione di Fabrizio Bottini