Non è certamente un caso, se fra le più generalmente detestate (con o senza motivi fondati, ma è un’altra storia) forme di urbanizzazione c’è il quartiere razionalista dei cosiddetti «casermoni» o alveari che dir si voglia, ovvero quanto invece dalla storia dell’architettura e dell’urbanistica viene dipinto come la più grande sperimentazione scientifica, tecnica, sociale del XX secolo. Dentro quei quartieri, quasi sempre organizzati secondo una interpretazione pur assai personale della neighborhood unit formalizzata nei primi anni del secolo dal sociologo Perry, gli architetti formati alle teorie del movimento moderno hanno messo in pratica la piena immersione delle avanguardie artistiche ad una vita quotidiana coerente coi tempi dell’industrializzazione. Ma l’hanno fatto nelle forme più «radicali e coraggiose» quando le cavie dell’esperimento erano ignari ceti operai o peggio ancora contadini in fase di urbanizzazione e riciclo in addetti alle fabbriche. Poi sono arrivati tutti i possibili ripensamenti degli addetti ai lavori, nuovi manifesti architettonico-urbanistici, nuove tipologie abitative, nuove filosofie sociologiche. Ma vuoi per gli strascichi necessariamente piuttosto lunghi di un processo che è stato oggettivamente enorme e impattante sull’arco di più generazioni, vuoi per nuove strade sbagliate imboccate dagli apprendisti riformatori-rammendatori, pare che si stiano oggi manifestando problemi del tutto analoghi.
Spazio, società, temperatura
Si chiama spesso «ingiustizia ambientale» quella forma contemporanea di discriminazione spaziale per cui i quartieri (già di per sé colpevolmente segregati e omogenei) di edilizia sovvenzionata si trovano in zone penalizzate. Ovvero, all’antica e citata discutibile qualità abitativa decisa da pianificatori convinti di conoscere meglio dei diretti interessati i loro bisogni, si uniscono altri gravi difetti: la vicinanza a forme di inquinamento o a quelle generiche forme di cosiddetti L.UL.U. (Locally Unwanted Land Use) che, sgraditi altrove, si scaricano verso quelle fasce sociali più deboli. Sono in realtà molto varie e articolate queste forme di penalizzazione, e vanno ben oltre quelle per così dire storiche, legate ad esempio alla vicinanza fra le industrie, i loro inevitabili fumi di ciminiere o scarichi velenosi nei corsi d’acqua, e i quartieri in cui abitano i lavoratori addetti alle medesime industrie e le loro famiglie. Comprendono discariche controllate, inceneritori, o attività a impatto sociale più complesso come quelle che uniscono forte incremento del traffico e un relativo degrado spaziale, dal commercio su grande scala, al gioco d’azzardo, ai locali «per adulti». C’è infine una penultima forma di discriminazione studiata in quanto tale solo di recente, ed è quella del cosiddetto suburbio povero, ovvero di espulsione dei ceti a basso reddito dalle zone urbane sottoposte a gentrification, verso fasce molto esterne prive di servizi e occasioni di lavoro, che induce una ulteriore spirale di degrado. Ma si diceva penultima, forma di discriminazione: l’ultima è quella della ingiustizia climatica.
Il pianeta non è uguale per tutti
Parlando di ingiustizia climatica, può venire in mente in prima battuta il caso di alcune popolazioni già colpite direttamente dalla geografia, per così dire, e che costituiscono l’avanguardia di una nuova minacciosa forma di migrazione globale. Però esiste anche la geografia urbana, e si verifica come in molti quartieri si stia manifestando un vero e proprio «disagio da cambiamento climatico». Le temperature si fanno più estreme, e l’ambiente a volte vetusto e comunque di scarsa qualità in cui sono confinate le classi a basso reddito si rivela di più basso profilo anche riguardo alla capacità di adattamento a fenomeni estremi, temperature più elevate e via dicendo. Alcune ricerche recenti provano a fare un passo in più, mescolando l’antica discriminazione nelle forme di progettazione dei quartieri più popolari, a quella nuova della «ingiustizia termica», chiedendosi legittimamente: non sarà che tanta enfasi sulla cosiddetta densificazione urbana tesa al contenimento del consumo di suolo e indirettamente al contrasto del cambiamento climatico, non finisca per pesare sproporzionatamente proprio su chi la subisce senza poter scegliere? Perché si rileva come eccessi di densità relativa, e minore copertura arborea e sistemi di infrastrutture verdi, finiscano per concentrare gli effetti delle isole di calore urbane solo in alcune zone. La tesi è che tutte queste politiche urbanistiche vadano ripensate anche alla luce di questo rischio di discriminazione. Resta un dubbio (già espresso in altri casi su questo sito): che la questione sociale, in queste ricerche, specie nel rilevamento di opinioni tramite questionari, venga semplicemente usata in modo strumentale dagli anti-densificatori a prescindere, ovvero sostanzialmente dai movimenti pro-sprawl.
Riferimenti:
AA.VV. Could urban greening mitigate suburban thermal inequity?: the role of residents’ dispositions and household practices, Environmental Research Letters, settembre 2016