Ogni tanto, anzi ahimè troppo spesso, salta fuori qualcuno che fa i giochetti con la terminologia, specie con certe parole meno note di altre. A nessuno – a nessuno sano di mente – ovviamente verrebbe in testa di definire «appendicite» l’estrazione di un molare, giusto perché in entrambi i casi ci sono di mezzo chirurgia, camici, anestesie. Accade perché tutti noi per formazione di base essenziale, arrivata da banalissimo passaparola rafforzato dai media, sappiamo in linea di cos’è un’appendice, una sala operatoria di ospedale, e come si distinguono da una carie e un ambulatorio. Diverso il caso delle parole della città e dell’ambiente, che complice una certa incultura cavalcata da interessati specialisti o lobbisti, rimangono sospese nell’indeterminatezza finché qualcuno non decide di usarle pro domo sua. La fascia di interposizione detta (da un secolo e mezzo circa dell’era moderna) greenbelt subisce spesso e volentieri un destino del genere, salvo forse in Gran Bretagna, dove è stata generazioni fa definita anche in termini di legge, e nel bene e nel male non rischia certo grossolani fraintendimenti. Certo può essere contestata, come fanno ormai da decenni i paladini della «libertà di costruire», ma se si dice greenbelt non ci sono equivoci, tutti sanno che si tratta di una fascia protetta per legge di territorio agricolo e naturale, di notevoli dimensioni e continuità, istituita allo scopo di assicurare un certo equilibrio territoriale e ambientale.
Gli intorbidatori di minestrone
Fra i casi ricorrenti nazionali (senza filtro) italiani, l’architetto paesaggista che reinventa la greenbelt a suo uso e consumo, chiamando così un parco di sua progettazione e concezione, di norma ben radicato nel classico genere urbano con sentieri, panchine e cotillons visuali vari. Certo, vocabolario alla mano, appare teoricamente difficile negare che una striscia più lunga che larga sia senz’altro da classificare belt, né che prati cespugli e filari di alberi, specie se nel contesto di un’area metropolitana fortemente urbanizzata, appaiano agli occhi della maggioranza piuttosto green. Ma accantonare così in allegria un secolo e passa di tradizione culturale, scordandosi per ignoranza o malafede tutta la ricchezza di funzioni ecologiche, agricole-produttive, di antidoto alla conurbazione, di equilibrio fra natura e artificio, o base per ciò che oggi chiamiamo alimentazione a km0, pare davvero troppo. Pare l’ennesima versione ideologica di tutti quelli che vedono una high line in qualunque ponticello con le fioriere, o un central park appena uno speculatore concede i soli dovuti standard minimi di verde pubblico, dopo aver accuratamente asfaltato tutto l’asfaltabile. Ma c’è anche una versione ideologica della greenbelt a sua insaputa, ed è quella adottata dai paesi di lingua e cultura anglosassone, senza particolari problemi di conurbazione, almeno sinora.
Margini di sviluppo urbano
Segnatamente in Usa, Canada, Australia, viene molto usata per le fasce agricole di contenimento la dizione urban growth boundary, e l’innovazione terminologica significa anche sfumatura concettuale non da poco. Perché l’idea matura originaria, di derivazione biblica, si afferma nelle sue forme più organiche nel contesto industriale maturo britannico, quando la più avanzata cultura geografica, sociale, ambientale, individua nella greenbelt l’argine ideale alla formazione di una unica megalopoli compatta, tale da obliterare in un sol colpo le distinzioni fra storie urbane differenti, e fra città e campagna (quella campagna che è da sempre radice identitaria nazionale). Il ruolo della fascia verde di interposizione metropolitana, e quindi implicitamente i suoi caratteri spaziali e contestuali, si devono quindi leggere in varie prospettive, prima fra tutte quella ambivalente esterno-interno. Cioè, la greenbelt è una risorsa naturale intrinseca della città a cui afferisce direttamente, ma è anche indispensabile interfaccia tra la città e il territorio esterno. Nascono da questo principio, in fondo, tutte le elaborazioni sia dentro il filone del Garden City Movement originario (sino alle new town del secondo ‘900), sia in quello geografico e ambientalista da Patrick Geddes in poi. Il margine di sviluppo urbano americano e australiano UGB, invece, nato in un territorio dove la città, anche la grandissima città, raramente ha un corrispettivo a cui conurbarsi, manca proprio di questa ambivalenza esterno-interno di riferimento, oltre che di una sanzione legislativa che ne fissi ruolo e funzioni oltre quella tecnica, effimera e piuttosto banale che si intuisce dal titolo. E non a caso, prosperano in tante città di quei paesi i continui dibattiti, praticamente a ogni elezione, sul mantenimento o lo spostamento un po’ all’esterno dello urban growth boundary. Le parole, insomma, sono sempre importanti.
Riferimenti:
Tom Fedorowytsch, Adelaide urban growth boundary laws pass Parliament, ABC online, 12 aprile 2016