Micidiale il concetto di città macchina, specie quando lo si guarda con l’occhio del liberale di stretta osservanza a propria insaputa, come accade fin troppo spesso ai nostri giorni. Macchina per produrre, consumare, innovare, magari facendo pur tutto in modo «sostenibile» a volte addirittura «equo», ma che con tutto il suo sbilanciamento verso una monocratica efficienza finisce in realtà per assomigliare molto a una grande fabbrica o ufficio, con poco o punto spazio per chi non ne vive in full immersion metabolismo e aspettative. Sono tutti quei soggetti deboli che, al netto dei vari auspici del tutto teorici, pur in buona fede, alla «cittadinanza piena», finiscono per occupare i margini del grande sistema, o peggio ancora a trovarvi inclusione per via di certo «capitalismo compassionevole» come usano dire alcuni sciagurati. E accade, tutto questo, anche in presenza di un fortissimo incremento quantitativo del peso sociale dei citati soggetti, i quali collettivamente parlando non dovrebbero affatto essere considerati deboli, ancor più se si calcola che in futuro cresceranno ancora, e ancor più rapidamente. Uno dei segmenti più vistosi e colpevoli di questa esclusione, è quello rappresentato dagli anziani, che se da un lato vedono allungarsi anche di molto le prospettive di vita, e di vita del tutto attiva, dall’altro paiono pur sempre considerati in una prospettiva vetusta e surreale, ripescata di peso dall’epoca paleoindustriale in cui effettivamente (anche se pur sempre colpevolmente) un ruolo sociale definito non l’avevano.
Il suburbio autoritario ed esclusivo
Quel concetto di città macchina per la produzione di ricchezza, in realtà trova la sua espressione migliore e più pura, dentro la forma insediativa portata avanti per tutto il ‘900 dai paesi industrializzati, ovvero nella dispersione suburbana dei mondi segregati. Pensiamo per un attimo al modello classico dell’American Dream, da cui poi discende più o meno tutto il resto: la casetta della famiglia nucleare, da cui si esce solo per andare a lavorare o a fare shopping. Più precisamente, c’è di preferenza un lui capofamiglia che lavora, il cosiddetto breadwinner, e poi una lei angelo del focolare moderno, la housewife non necessariamente disperata che si occupa dei consumi. Oltre naturalmente all’educazione dei figli, il cui ruolo è di sostituirsi una volta cresciuti ai genitori, e quindi di prepararsi al meglio per quel momento. Se ci facciamo caso, l’anziano, diciamo il nonno e comunque chi non sta più dentro quel ciclo produzione-consumo, non ha un posto chiaro nemmeno nell’immaginario, salvo in qualche cartolina natalizia. Non è certo un caso, se nella logica di segregazione tendenziale di ogni funzione, gruppo sociale, tipologia spaziale, la città e soprattuto il suburbio-macchina tendono a produrre quell’aberrazione simil-ospedaliera o peggio simil-carceraria che chiamiamo «residenza assistita». Un luogo dove l’anziano marginalizzato in quanto non più funzionale al ciclo produzione-consumo-riproduzione, sta in attesa di levarsi di torno pietosamente ma definitivamente. Unica alternativa valida, la costruzione e il mantenimento di reti sociali e assistenziali di servizi, che però proprio nel suburbio trovano di nuovo l’ostacolo a volte insormontabile della mobilità automobilistica.
L’auto come fattore di discriminazione
Anche dal particolare punto di vista che abbiamo assunto, la posizione dei «soggetti deboli» si fa ancora più fragile nel modello di insediamento suburbano disperso e segregato sviluppatosi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Si può dire che in questo modello di non-quartieri monofunzionali, monoclasse, mono fascia demografica, chi esce dalle fasi di vita direttamente produttive e riproduttive ha vita assai dura per fruire di tutti i servizi di cui ha sempre più bisogno, a partire dalle relazioni sociali, perché dipende più che mai dall’automobile, mezzo che via via con l’età diventa più problematico (e costoso) da gestire. Nell’ambiente concepito a prolungamento della fabbrica e dell’ufficio, chi da quel mondo è stato escluso per raggiunti limiti di età non può far altro che arrangiarsi per una pura, difficile sopravvivenza, mentre dentro un tessuto cittadino, soprattutto del tipo sedimentato in epoca pre-industriale, le medesime reti di relazione restano comunque in qualche modo integrate e assai più disponibili. Risulta quindi evidente come qualunque politica urbana rivolta alla trasformazione in senso «sostenibile» di questi quartieri e insediamenti, possa e debba partire proprio dall’obiettivo di una maggiore inclusività, praticabile riflettendo sui due temi correlati della segregazione indotta dallo zoning e dalla mobilità privata che genera e da cui dipende. L’urbanistica sarà anche una fredda tecnica, ma consente se adeguatamente concepita e manovrata di avvicinarsi a obiettivi squisitamente sociali, come quello di includere «soggetti deboli» che, in prospettiva, potrebbero rappresentare quote crescenti per non dire preponderanti di alcune società locali.
Riferimenti:
– No Place to Grow Old: How Canadian Suburbs Can Become Age Friendly, Institute for Research and Public Policy, marzo 2017
– Organizzazione Mondiale della Sanità, Global Age-Friendly Cities: a guide, 2007