Probabilmente tutti noi crediamo che la sicurezza di chi va in bicicletta sulle strade della città sia importante e ci preoccupiamo parecchio di questo aspetto. Io almeno lo faccio. Ma senza minimizzare quel problema, vorrei ricordare che gli incidenti succedono anche stando fermi su una cyclette per ginnastica da tempo libero o sport ovunque senza fare i pendolari. Negli Stati Uniti nel 1983 – l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati – chi utilizzava questi dispositivi meccanici per far ginnastica, pedalando o vogando, o facendo stretching con cinghie e molle, ha subito 18.000 incidenti, sufficientemente gravi da richiedere un intervento medico immediato di pronto soccorso. Con un incremento del 75% in più rispetto al 1981. Molti di quegli incidenti erano parecchio gravi, autentiche tragedie con menomazioni agli occhi o paralisi dal collo in giù. Una signora a San Antonio si è ferita così gravemente con una cyclette da ricevere con accordo extragiudiziale dai fabbricanti del dispositivo un indennizzo di 900.000 dollari.
L’articolo in cui leggo queste cose, sul Wall Street Journal di qualche giorno fa, prosegue nel descrivere il fenomeno. Pedalare in una postazione fissa domestica può risultare così noioso da far letteralmente perdere la ragione alla gente. Una coppia di Houston intervistata dal giornalista sta pensando di fare esercizio guardando la televisione sulla propria cyclette, un attrezzo per inciso pagato 1.500 dollari. Paiono davvero parecchi soldi per una bicicletta che non ci porta da nessuna parte, e ce ne sono alcune che costano molto di più, fino a 3.448 dollari. Hanno incorporato un computer per verificare che quel movimento fatto abbia più efficacia rispetto a delle ruote che girano semplicemente dirette in qualche posto. C’è anche chi combatte la noia comprandosi delle videocassette di panorami da proiettare sulle pareti della stanza.
Prima di sorridere di queste stravaganze o disprezzarne l’artificiosità, riflettiamo un istante sul fatto che dei poveracci non abbiano letteralmente altro posto in cui usare delle biciclette e andare da qualche parte. Perché abitano in città autostradali come Houston, Dallas, Los Angeles o Detroit, e posti più piccoli come Needville, Texas, e Kalamazoo, Michigan. Per loro sarebbe come decidere di andare a tentare il suicidio pedalando tra corsie e svincoli (1). Sarebbe anche la nostra situazione se la nostra autorità amministrativa metropolitana qui, non avesse avuto i programmi del proprio ufficio trasporti bloccati dall’azione dei cittadini. Sam Cass, il coordinatore di quegli uffici nel 1970, vantava che una volta realizzati i suoi progetti nessun punto della città sarebbe stato più distante di un chilometro da un’autostrada. Rampe di svincolo sparse ovunque. Della città per così dire alla fine restava solo qualche quadrifoglio dentro gli svincoli a quadrifoglio (2). Non è certo l’ambiente ideale per girare in bicicletta. Qualunque persona sana di mente in un posto così la bicicletta se la porterebbe dentro casa per pedalare guardando dei panorami proiettati sui muri.
Ed è un rischio che ancora potrebbe materializzarsi qui da noi, se guardiamo a certi progetti. Penso al prolungamento di Leslie Street, che con grande investimento si sta studiando pare col sostegno degli uffici cittadini di Toronto, contro le osservazioni dei quartieri di North York che ne sarebbero penalizzati. Penso alla proposta di allargare Spadina sotto Bloor, che se sono correttamente informata è già inserita nel bilancio proposto da Mr. Cass. Anche in questo caso col sostegno della città di Toronto. E si tratta precisamente del progetto originario di Cass per un tratto della Spadina Expressway. Sviluppandolo da sud verso nord, secondo un espediente che mi è ben noto negli Stati Uniti: se c’è una opposizione a un progetto di arteria veloce ad una estremità si può cominciare a costruirla partendo dall’estremità opposta.
Marshall McLuhan una volta affermò che il Canada ha la fortuna di avere un sistema di allarme sensibilissimo, basta guardare a ciò che succede negli Stati Uniti. E ciò che è accaduto lì ci dice come il sistema delle arterie veloci urbane a molte corsie per tentare una gestione degli scambi tra centro e suburbio ha addirittura trasformato lo stesso suburbio in un enorme ingorgo che si allarga a tutto il paese. Un articolo su questo argomento ancora dal Wall Street Journal di qualche settimana fa inizia:
«Fairfax County, Virginia. Ogni mattina di giorno lavorativo la signora Gretchen Davis guida lungo la Fairfax Farms Road verso il magazzino dello Ayr Hill Country Store che sta nella non lontana Vienna. Suona quasi idilliaco no? Ma poco più in là da quella strada la signora Davis arriva alla Route 50, importante arterie di scorrimento … Dove un’alluvione di automobili ruggisce nella calma suburbana … Trasformando quello che era un gradevole spostamento di una ventina di minuti in una infinita ora e più di esaurimento nervoso».
Possiamo forse immaginarci la nostra signora Davis che sceglie di affrontare quella strada in bicicletta? O di mandare i figli, se ne ha qualcuno, a scuola nel quartiere o più verso la città?Quello che succede lì sta succedendo normalmente in un sacco di altri posti, come prosegue l’articolo, con perle del tipo: sono oggi milioni gli abitanti dei quartieri suburbani che condividono la medesima frustrazione della signora Davis. Gli urbanisti riconoscono che i blocchi del traffico stanno diventando il problema dei problemi. I complessi terziario commerciali dove si lavora e si usano i servizi stanno troppo isolati per essere raggiunti a piedi e quindi devono comunicare con le automobili. Il traffico al mattino è terribile, e nella pausa pranzo si ripetono gli ingorghi quando la gente esce dagli uffici, salta in auto e si dirige verso qualche ristorante. Quando si blocca l’autostrada il traffico si riversa fuori verso le arterie minori e disturba le zone residenziali. Le aree metropolitane di Dallas o Houston oggi hanno la rete delle grandi arterie di scorrimento bloccata dodici ore al giorno da auto che procedono in fila. Lo stesso succede nel sistema di San Francisco e altrove.
Insomma, quel sistema di allarme per il Canada che sono gli Stati Uniti oggi ci direbbe che il suburbio, un tempo ritenuto il maggiore beneficiario delle reti di arterie superstradali a gestire i movimenti pendolari di veicoli da e verso il centro, si è trasformato in una vittima del medesimo sistema: ed è una lezione che gli abitanti di North York, per fare un esempio, iniziano adesso a cogliere, a differenza dei loro rappresentanti politici. Mi sono dilungata molto su questa follia della expressway, per sottolineare come questo modo di gestire la mobilità produce un ambiente estremamente ostile ai ciclisti. Ma proviamo ora a guardare a un contesto un po’ più ampio. Da molti punti di vista gli interessi di chi si sposta in bicicletta sono identici a quelli di chi cerca una migliore abitabilità sia in centro che nel suburbio.
• Chi pensa alle città e ai suburbi come posti gradevoli e sicuri per far crescere la famiglia;
• Chi pensa alla tranquillità delle zone residenziali e ai rischi per la salute e l’ambiente;
• Chi apprezza gli elementi naturali e di paesaggio delle piccole oasi urbane, e vorrebbe tutelarsi da asfaltature traffico e rumore;
• Chi cerca qualità comodità e risorse per un migliore trasporto pubblico di massa;
• Chi vorrebbe una migliore mobilità per bambini, anziani, e chi non può permettersi un’auto o magari anche due;
• Chi vorrebbe contenere le emissioni di sostanze che causano inquinamento e piogge acide;
• Chi vorrebbe evitare sprechi energetici e le loro conseguenze sui cittadini e sul pianeta.
Chiunque pensa a queste cose rappresenta l’alleato naturale di ogni ciclista, che si tratti del ciclista sportivo, del tempo libero, o del ciclista quotidiano utilitario. In fondo le loro battaglie sono le stesse battaglie dei ciclisti, diverse solo superficialmente ma convergenti negli interessi. E consistono nel cercare di fare di città e suburbi luoghi migliori per la gente: non solo quella parte che passa tante ore della giornata in automobile, ma anche chi cammina, passeggia, corre, pedala, gioca, o cura le piante o magari solo ascolta le rane gracidare.
E a proposito di rane che gracidano ricordo il mio stupore ascoltando l’anno scorso un esponente delle associazioni ciclistiche, affermare che lui e i suoi colleghi si dichiaravano completamente indifferenti agli argomenti che ho appena elencato e alle alleanze che accennavo. La sua organizzazione era comunque favorevole a una nuova arteria di traffico veloce a cui si opponeva un quartiere attraversato, purché quel progetto accorciasse di qualche minuto il percorso per i ciclisti. E lo stesso per l’attraversamento di un corso d’acqua con una striscia verde. Temo mi abbia considerata piuttosto fantasiosa e poco tecnica, quando provavo a spiegargli che chi badava agli habitat per le ranocchie i quel corso d’acqua era certamente un migliore alleato della natura di lui, schierato adesso dalla parte dei costruttori di autostrade e degli ingegneri che le progettano. Leggevo solo settimana scorsa di un altro esponente di associazione ciclistica, secondo cui tutto ciò che è bene per le auto è bene anche per le biciclette, forse convinto che in fondo viaggiano entrambe sulla medesima superficie asfaltata.
Alla fine di questi ragionamenti così angusti in prospettiva sta solo la diffusione del ciclismo casalingo sulla cyclette guardando le videocassette di panorami. Un percorso solitario senza alcuna empatia per altri né alcun interesse per la qualità urbana né per gli altri che la abitano. Oggi i ciclisti non hanno molto potere per chiedere ciò che vorrebbero e di cui avrebbero bisogno. Credo che ne avrebbero di più pedalando insieme ai loro tanti e potenziali alleati, che avvertono e sostengono i medesimi bisogni, e offrendo in cambio il proprio di sostegno alle varie battaglie per la qualità della vita: chi ascolta il gracidare delle ranocchie, chi lavora sui tempi dei semafori per l’attraversamento dei bambini delle scuole, chi difende casa o posto di lavoro dagli espropri autostradali. Si deve capire che le aspirazioni particolari del ciclista assumono diversa statura e respiro dentro un contesto più ampio, quello della città dove si vive e ci si sposta.
In pratica, come costruire elastiche ma operative alleanze tra gruppi di cittadini su questo ampio tema? Racconterò a titolo di esempio una vicenda che mi è capitata ai tempi in cui alleanze del genere dovevano ancora essere faticosamente e discontinuamente inventate. Era il 1956, abitavo a New York, e mi capitò di far parte di un gruppo a difesa di un parco pubblico dal rischio di essere attraversato da una progettata arterie di attraversamento veloce a molte corsie (3). Non eravamo affatto efficaci in principio. Dominava Robert Moses, zar dei lavori pubblici di New York e devastatore della città, che ad una assemblea pubblica ci liquidava «non siete niente solo un gruppetto di mamme». Insomma non avevamo nessuna capacità di pressione.
C’erano tante altre associazioni nella zona ciascuna con un proprio tema o spazio di specifico interesse. Parevano alleate naturali e logiche, ma erano un po’ troppo politico-burocratiche, anche se certo non si pensavano affatto in quel modo, coi loro comitati esecutivi, esponenti di spicco e tutto il resto. Per decidere qualcosa ci impiegavano del tempo, in riunioni abbastanza rare, in cui si discuteva questa o quella iniziativa, e via così. Aggiungere qualcos’altro all’ordine del giorno pareva laborioso e strano, peggio ancora convincere tutti gli esponenti più focalizzati sulle loro procedure. Eravamo prigionieri dei nostri volantini di deliberata protesta, incapaci di mobilitare un sostegno più ampio allargato a tutta la comunità e alla città, capaci solo di mandare lettere ai giornali, petizioni, raccogliere dati e idee. Una città per andare in bicicletta era la stessa città che serviva per camminare, passeggiare, correre, giocare, guardare le vetrine, o ascoltare il gracidare delle ranocchie se siete degli appassionati di gracidare delle ranocchie.
Fu a questo punto che un signore di parecchio senso civico e notevole esperienza organizzativa, ebbe l’idea di iniziare ciò che definiva «associazione ombrello», a unire gli alleati naturali sia formalmente che informalmente, in una battaglia che poteva interessare a tutti (4). Fu così che cambiammo il nostro nome, da All But Emergency Traffic a Committee to Save Washington Square. Il metodo funzionava: non solo coinvolgemmo molti alleati evitando sia il passaggio di una autostrada che l’allargamento della strada normale attraverso il parco al passaggio di veicoli non di emergenza, ma cominciammo anche a costruire convergenze su altri e diversi obiettivi comuni.
Qualcosa di molto simile è poi successo a Toronto nei primi anni ’70, quando in molti quartieri ci si mobilitava per contrastare gli spaventosi progetti urbanistici e autostradali. Si iniziò a operare in «confederazioni ombrello» con le associazioni tematiche che si sostenevano l’una con l’altra. Svolse un ruolo importantissimo lo The Stop Spadina Save Our City Coordinating Committee per far partire queste alleanze e altri obiettivi. Credo che ancora oggi sia indispensabile per i ciclisti cercare alleati del genere, altrimenti non si andrà molto lontano nel migliorare la città per tutti, per farla un posto migliore in cui vivere. Se il mutuo sostegno si rivelerà efficace anche stavolta certo non posso dirlo, e certamente non nascerà senza un certo impegno, ma di sicuro occorre capire quanto il vero obiettivo di tutti e anche dei ciclisti debba essere una città per camminare, passeggiare, correre, giocare, guardare le vetrine, e ascoltare le ranocchie a chi piace farlo.
Discorso tenuto al convegno sulla promozione della ciclabilità, Comune di Toronto, 26–27 aprile 1985; ora in Vital Little Plans – The short works of Jane Jacobs, a cura di Samuel Zipp e Nathan Storring, Random House, New York 2016; Titolo originale: Pedaling Together – Traduzione di Fabrizio Bottini
NOTE
(1) Jacobs si riferisce a due note arterie a scorrimento veloce di Toronto. Nella frase successiva il riferimento all’autorità metropolitana riguarda un ente amministrativo oggi abolito di Toronto, per un territorio comprendente York, East York, North York, Etobicoke, Scarborough, e la città centrale vera e propria. Nel 1998, il Governo dell’Ontario ha fuso tutte queste circoscrizioni municipali in una sola «mega-città».
(2) Gli schemi degli svincoli in cui si incrociano le arterie di scorrimento veloce assumono a volte la forma simile a un quadrifoglio. Dire che dentro uno svincolo a quadrifoglio resta solo del quadrifoglio significa che ci resta poco o nulla.
(3) Lo spazio in questione è Washington Square Park, per la cui difesa a suo tempo Jacobs si spese moltissimo, come raccontato in questo stesso volume nel saggio «Reason, Emotion, Pressure: There Is No Other Recipe».
(4) L’uomo di «alto senso civico» di cui si parla è Raymond “Ray” Rubinow (1905–96), amministratore e coordinatore di varie associazioni, conservazionista che ha anche collaborato alla salvezza di Carnegie Hall.