La sociologia dei processi e conflitti urbani ha già ampiamente descritto, in modo sistematico, il modo in cui le opposizioni locali alle trasformazioni interagiscono coi (e nei) vari livelli decisionali, e mettendone in luce l’apporto certamente positivo, in quanto espressione di un sintomo vitale di reattività dialettica. Meno chiaro, e per motivo abbastanza ovvi di prospettiva storica di osservazione, il ruolo degli esiti dei conflitti locali alla scala meno locale, nonché l’eventuale radice di tali esiti nella composizione, cultura, intenzioni prevalenti interne ai gruppi. Quello che non pare funzionare assolutamente mai, salvo rarissimi casi, è il famoso virtuoso act local think global, visto che la composizione dei gruppi si articola puntualmente fra atteggiamenti di chiusura conservatrice puramente egoista, e posizioni più aperte e progressiste che però si incarnano quasi sempre in chi individua quel «progresso» al di fuori dell’istanza specifica, magari semplicemente nella possibilità di riciclare la propria leadership su un altro piano. L’esito cosiddetto positivo è sempre quello di spostare la questione altrove, e se non è una conclusione nimby quella difficile trovarne altre meno corrispondenti alla lettera dell’acronimo. Ergo torniamo a quel giudizio parzialmente positivo sul ruolo delle opposizioni locali, solo quando fungono da sintomo di malessere e disagio, un sintomo da non confondere con la terapia, perché di fatto si identifica con la negazione del cambiamento, quando questo cambiamento pervade invece il contesto.
Rimbalzi
Il puro rimbalzo del problema spesso avviene nel tempo, come si nota per esempio coi tracciati di infrastrutture importanti, di fatto semplicemente rinviati e inseriti in programmi di più ampio respiro che la dimensione locale di fatto la scavalcano, diluendola magari sull’arco di una generazione, passaggi di proprietà, evoluzioni socioeconomiche e di stili di vita o aspettative. Oppure il rimbalzo avviene, banalmente, nello spazio «fuori dal cortile» finendo per penalizzare soggetti meno combattivi o dotati di minore potere contrattuale, determinando quella che spesso viene chiamata ingiustizia ambientale, dove si scaricano o concentrano impatti impossibili da contenere, ma magari spalmabili diversamente, sulle popolazioni con meno potere, economico, politico, mediatico. Così il sintomo, il famoso ruolo positivo e potenzialmente propositivo dell’atteggiamento nimby, si esaurisce nel nulla di un prurito e di una grattatina, senza alcun effetto sulla consapevolezza della qualità delle trasformazioni, e in generale sui processi decisionali: schivato l’ostacolo si va avanti esattamente come prima. Questo nelle trasformazioni della città può rivelarsi un ostacolo davvero micidiale nel percorso verso insediamenti più sostenibili, in particolare nei processi di graduale densificazione, per quanto cautamente sostenuti da programmi e politiche graduali.
Democrazia
Come osservano più o meno da sempre tutti coloro che affrontano l’urbanistica dalla prospettiva della disciplina sociale, oltre la pura tecnica al servizio della discrezionalità politica, in un mondo comunque dominato dal mercato della domanda e dell’offerta risulta centrale, se si vuole che le decisioni strategiche abbiano un senso non contingente, far sì che le regole possano essere condivise e trasparenti, ovvero operare in una prospettiva democratica. Il che non sta però a significare confusione con una pura ricerca del consenso, come spesso emerge ad esempio in certi processi «partecipati», dove invece di cercare bisogni reali a cui rispondere adeguatamente, si vanno a trovare i punti deboli della resistenza al cambiamento, facendoci dilagare interessi precostituiti. Si dovrebbe, si deve anzi, sempre tenere a mente che la democrazia è un mezzo, non un fine in sé e per sé, serve (anche) a far qualcosa nel modo giusto, ed è in grado di renderla anche più giusta e adeguata, quella cosa. Che fare, quando ci si trova di fronte l’opposizione frontale dura e pura, agguerrita e potente ma desolatamente nimby, a un’idea? Ovviamente prima di tutto verificare la correttezza dell’idea, e in dettaglio i modi in cui la si è declinata, e la si è presentata ai diretti interessati. Un quartiere a bassissima densità, del tipo coi lotti giganteschi, che obbliga lo sviluppo demografico e urbanistico di fatto ad occupare nuovi territori, sprecando suolo, danneggiando l’agricoltura e le risorse naturali, ha diritto di opporsi a un piano che nel tempo consenta maggiori superfici di pavimento, lavorando tecnicamente su arretramenti, distanze, numero di piani consentiti? E soprattutto, ha diritto una amministrazione eletta, per svicolare dallo scontro con gli influenti nimby che vogliono restare attaccati al loro tradizionale stile di vita, di scaricare su altri gli impatti delle decisioni urbanistiche? La vicenda brevemente descritta nell’articolo linkato, è la milionesima in cui si pone il quesito, squisitamente democratico e per nulla «ambientalista».
Riferimenti:
Briana Sheperd, Plans for high-density housing in Perth’s western suburbs canned by Planning Minister, ABC Net News, 6 settembre 2016