Il degrado ambientale forse ha già prodotto anche un degrado dell’ambientalismo, ridotto a vago istinto animale che si compiace della propria idiozia rotolandosi da qualche parte, beatamente ignaro di quanto gli accade attorno. Le pecore per esempio: gran parte della gente non ha mai fatto il pastore, ovvio, né si è mai sognata di capire qualcosa di pecore. Ha qualche vaga idea, per aver visto milioni di capi sfilargli davanti al cinema o in televisione, oppure quando per il cambio di stagione i prati attorno ad alcune aree urbane di passaggio fra la pianura e la montagna si riempiono all’improvviso di pecore belanti, cani ringhiosi, e qualche pastore da lontano a controllare l’andazzo della ditta. Ci sono anche casi sporadici di rapporti diretti e quotidiani con quei tipi di gregge tascabile: poche pecore e capre, che scorazzano in piena area metropolitana, in eterni andirivieni fra pochi prati degni di questo nome o sponde di cavalcavia, praticando forse una versione pecoreccia del set-aside, uso ottimale delle risorse erbivore a rotazione.
Ma anche con queste limitatissime esperienze e relative conoscenze, almeno una cosa dovrebbe essere abbastanza chiara a tutti: la cacca di pecora puzza. Per essere cacca di erbivoro, si intende, niente a che fare con gli onnivori tipo maiale, o peggio i carnivori come cani e gatti. Lo sappiamo tutti cosa ci succede pestando il classico ricordino di Fido sul marciapiede o al parco, quando il suo padrone che lo ama tanto quanto disprezza i suoi concittadini si dimentica per così dire di raccoglierlo (il ricordino, non il concittadino). Però anche la portatrice sana di pura lana vergine non scherza, come ci ricordano certe esperienze ciclabili. Quando si pedala su percorsi di fianco ai prati dopo che ci sono passate le greggi, e poi tocca scrostare le gomme, a volte addirittura sbloccare le ganasce dei freni. Quella roba addosso ti resta, ben oltre il ricordo.
Per questo, pur ritenendo interessanti quegli articoli di giornale sull’uso degli ovini nella manutenzione del verde urbano, chiunque pensandoci in fondo non potrebbe fare a meno di porsi il problema. Certo è ormai da lustri che si vede qui e là qualcuno che con capretta nana singola o a gruppi, o simpatica bestiola del genere, tiene pulito un pezzettino di sterpaglia vicino a casa, di solito nel suburbio estremo. Però leggere che ditte specializzate affittano squadre di pecore professioniste per la falciature regolare di verde pubblico in centro a Parigi, o a New York, ti fa pensare. Più precisamente, ti fa ripensare a quella orrenda puzza che non se ne va più dalle mani neppure col sapone, dopo aver pulito le ruote della bici, e che si liberava nell’aria a casa, o sull’autobus, coi vicini che ti guardavano sospettosi. Ecco la differenza, piccola ma tangibilissima, fra la contemplazione delle pecore in un bel film storico sull’arcadia pastorale, e una frequentazione più ravvicinata e aulente. Ma pare che ci sia troppa gente ormai abituata a fare cortocircuito mentale (in realtà «mente» pare una parola forte, in certi casi) quasi direttamente dal divano di casa, da cui la natura appare ideale, magnifica, inodore e facilmente gestibile col telecomando.
Nascono così orsi polari bianchi come la neve delle cartoline natalizie, simpatici come batuffoli di cotone animati, senza nessun rapporto con quel lurido e grondante assassino da una tonnellata, che ti stende a tre metri solo con l’orrendo alito al pesce morto da una settimana. Non ci sarebbe bisogno di aver partecipato a una battuta di caccia insieme a una famiglia Inuit ancestrale, per sapere queste cosucce: è sufficiente essere entrato in uno zoo qualunque, e usare il cervello, se la natura vera ci ha dotato di quell’organo. Così come basta ragionare un istante per intuire che il centro di Parigi, o di qualunque altra città o cittadina, percorso in lungo e in largo da greggi che falciano l’erba pubblica stivandola in pancia, finisca fatalmente per concimarsi secondo forme nuove e inedite. Sarà pure concime sano, naturale eccetera, ma come sanno tutti il processo della concimazione, come quello della digestione, è appunto un processo, con passaggi intermedi non sempre coordinati con il resto. Questo «resto» nelle aree urbane è il passaggio delle persone, quello dei bambini piccoli che giocano per terra senza farci troppo caso, le ruote dei veicoli che raccattano ovviamente tutto quanto di appiccicoso trovano, eccetera.
Così, una volta trovando condiviso per l’ennesima volta sulla pagina Facebook un articolo che magnificava le neo-falciatrici lanose come alternativa «sostenibile» a quelle a motore, mi è scappata la battuta. E ho postato in tre righe scarse: si consuma più benzina per le falciatrici, oppure per ripulirsi degnamente le suole dopo aver passeggiato nelle aiuole a manutenzione ecologica? Nulla di aggressivo, solo una domanda un pochino estrema, ma credo lecita e intuitiva, per chi il gregge l’ha incrociato almeno un paio di volte, oltre a vederselo sullo schermo dal divano. Dio ce ne scampi! Pioggia di improperi peggio che per il responsabile del disastro Exxon Valdez in Alaska, robetta tipo farcisciti la testa di merda di pecora, così magari il concime ti fa venire qualche idea meno cretina e dannosa per il pianeta, eccetera.
Succede sempre più spesso, quando si prova ad abbozzare un ragionamento sulle questioni cosiddette ambientali. Sono in tanti ad essere esasperati, ed è giusto: perché non si va un po’ di più in bicicletta invece di usare l’auto per qualunque piccolo spostamento? Perché pare non si possa fare a meno di ipermercati da diecimila metri quadrati con un mare di parcheggi, giusto per comprarsi una fettina di formaggio? Perché si consumano decine e decine di gadgets elettronici di cui si sfrutta il 10% delle possibilità, per poi liberarsene quando esce un nuovo modello dotato di funzioni che ci resteranno egualmente ignote? Tutte domande giuste e sacrosante, ma a cui il bestione neo-troglodita dal divano del soggiorno cerca risposte facili come premere un tasto del telecomando. La macchina inquina? Si aboliscono le macchine, guardate me che ieri sono andata da mia zia a piedi! L’ipermercato consuma territorio e produce traffico? Io mi coltivo le melanzane in giardino, e sono buonissime! E che bisogno c’è del tablet di ultima generazione? Quando vado in vacanza io spedisco ancora le cartoline agli amici, leccando personalmente il francobollo con quella cosa qui che ho tra i denti!
Naturale che «risposte» del genere lascino perplessi, esattamente come quando certe forze politiche di protesta si presentano con programmi che non sono tali neanche per scherzo, che semplificano la realtà fino a farla diventare una caricatura tragicomica. Le forze politiche si possono a volte in parte scusare per via della necessaria comunicazione di massa: magari qualche idea più complessa ce l’hanno in serbo, oppure la elaboreranno in fretta dopo le elezioni. Il troglodita da salotto invece non elabora proprio nulla, salvo il modo di darti un colpo di clava sulla testa quando provi a ragionare con lui. La pecora è naturale, la falciatrice è il male. Stop. Il resto si risolve spegnendo la Tv e andando a far spesa: all’ipermercato, in macchina, e mentre si mandano messaggini alla zia. Mica si può far proprio tutto, no?