Per le discipline umane, lo sganciamento dai banali vincoli della materia è, cosa piuttosto ovvia, una straordinaria risorsa di conoscenza e libera riflessione. Perché in effetti non esiste nulla di più limitante, un vero e proprio paraocchi, della costante immersione in un concreto contesto con cui ci si deve gioco forza misurare, che preme da tutte le parti, e impedisce di guardare le cose da un’altra prospettiva. Quando si parla di spazio abitato, di insediamento umano, la camicia di forza logica si presenta addirittura raddoppiata, dato che non solo a fare da paraocchi c’è lo spazio fisico, e spazio fisico complesso, articolato, multifunzione e popolato da tanti soggetti diversi, ma soprattutto: quello spazio fisico è il sedimento storico di tante idee (anche del tipo elaborato liberamente e senza costrizioni) che hanno contribuito nel corso delle generazioni a plasmarne le forme. Più che mai utile quindi, ciclicamente e regolarmente, provare a riflettere sganciati da quella zavorra mentale secondo cui la strada è fatta così e cosà, l’alloggio serve a quelle funzioni individuali e/o di gruppo, le reti tecniche rispondo a dati bisogni e non ad altri, e così via.
Soli si muore
Ci sono poi gli approfondimenti tematici che, ulteriormente, sganciano l’oggetto dalla costrizione spaziale e dal contesto condizionante, per esempio separando un alloggio dalla famiglia che lo abita o viceversa, e riflettendo in una sorta di laboratorio sperimentale sul concetto assoluto di nucleo familiare, o su quello di riparo dalle intemperie, e via di questo passo. C’è però qualcuno (anzi più di qualcuno) troppo propenso a procedere autonomamente per la propria strada, scordandosi del tutto da dove era partito, salvo tornarci sventolando la propria «scoperta», che per sua natura non è affatto tale finché non torna ad operare a regime là dove era iniziato tutto. Era successo massicciamente qualche generazione fa col percorso della «città macchina», che restituiva sul territorio chiavi in mano la propria riorganizzazione globale, di tipo industriale, oggi accade con l’economia neoliberale dei sacri principi, egemone da decenni in tanti altri aspetti della vita umana, e a quanto pare ansiosa di imporsi anche nelle forme urbane. L’idea di fondo è che, se un tempo il punto di convergenza ed equilibrio di spazi, funzioni, bellezza, giustizia, sostenibilità, efficienza, era da ricercarsi in una ideale «urbanistica», incrocio perfettibile e in costante evoluzione, oggi si dovrebbe constatare l’evidente fallimento dell’approccio, da sostituirsi con le libere dinamiche del mercato della domanda e offerta di spazi. Si tratta, forse inutile dirlo, di una semplificazione estrema e integralista, forse ancor più di quella a sua volta estrema del modernismo originario figlio delle avanguardie novecentesche. Nondimeno, l’attacco ideologico si sta sviluppando su un fronte apparentemente infinito.
Economie di sottoscala
L’ultimissima battaglia, in corso su una piuttosto subdola prospettiva della «questione delle abitazioni», parte dall’affermazione: la casa è una merce costosa, a volte inaccessibile, perché non viene prodotta in grande serie e quantità, e questa produzione di massa è ostacolata dai vincoli urbanistici. Come tutti i fanatismi religiosi, anche quello dell’economia urbana neoliberale non si fa alcun problema a negare alla radice qualunque fondamento al «pensiero antagonista», se queste fondamenta sono in qualche modo ostacolo al proprio libero dispiegarsi, e adesso siamo arrivati all’antica modellistica territoriale, quella di derivazione tradizionale e biblica della fascia verde di interposizione, detta via via greenbelt o negli anni più recenti in alcuni contesti specie anglosassoni urban growth boundary, da cui poi discende di fatto tutto il resto. Perché l’idea di fascia naturale a delimitare un rigido confine tra urbano e rurale, poi determina il metabolismo dell’interazione città-campagna, le forme, le densità, le reti di relazioni ed ecologiche, il rapporto tra attività umane e risorse, per finire a caratteri anche minuti come il tipo di quartieri, di edilizia, di organizzazioni sociali. E invece no: nella testa balzana del fanatico integralista neoliberale quella prescrizione di massima (che, lo ricordo, sta in parecchi passaggi della Bibbia, oltre che in un paio di secoli di studi urbani) è stata inventata dagli scienziati pazzi autonominatisi urbanisti, per far aumentare artificialmente il prezzo delle case. Forse, bisognerebbe solo chiedere, a questi predicatori accademici dagli occhi spiritati, che razza di idea di città hanno dentro quella loro testa vuota: case che costano poco, ok, va bene. E poi? Che ci facciamo, poi? Sta lì, nell’irrompere della realtà dentro la loro fragile provetta di laboratorio mentale, tutta la debolezza intrinseca della follia contabile anti-umana.
Riferimenti:
Scott Beyer, Portland’s Urban Growth Boundary: A Driver of Suburban Sprawl, Forbes, 29 marzo 2017 (il vero senso dell’attacco integralista si coglie dai links dell’articolo, che di per sé forse può anche suonare locale e quindi relativamente innocuo, ai più estremi siti della destra «libertaria»)