Bruttissima cosa perdere, seppur temporaneamente, l’uso di un braccio. Ci sono cose considerate del tutto banali e scontate, che all’improvviso diventano impossibili, o praticabili soltanto in modo lento, tortuoso, a dir poco sommario. Nel mio caso, dopo la slogatura della spalla sinistra appartengono al regno del difficilmente praticabile (e con un po’ di dolore che avverte da andarci piano) un sacco di banali attività domestiche a cui di solito non si pensa neppure. Ma diventa del tutto impossibile la pratica del ciclismo urbano: impossibile viaggiare con una mano sola nel traffico con l’altra appesa al collo, impossibile rischiare una frenata brusca solo con l’anteriore a rischio di caduta dalla parte sbagliata, dove passano i veicoli a quattro ruote, impossibile o macchinoso al limite dell’assurdo anche spostare la bici su o giù per qualche gradino, o legarla col lucchetto, o caricarla decentemente di una piccola spesa senza far rovesciare tutto a terra. Insomma, per una settimana ho girato, sto ancora girando, in città e anche un pochino fuori a piedi, con qualche rarissima puntata sui mezzi e quattro chilometri in car sharing (il cambio automatico è fantastico per chi ha una mano e una frazione dell’altra). È stata e ancora è un’occasione per osservare sia gli spazi urbani da un altro punto di vista, devo dire molto diverso dal solito e che non mi aspettavo, e contemporaneamente osservare i ciclisti da pedone. Qualche conferma e qualche piccola sorpresa.
Segregazione e integrazione
C’è un modo segregato e uno integrato di usare lo spazio urbano e metropolitano, e la posizione di chi cambia spesso prospettiva di osservazione consente di cogliere meglio le differenze, e al tempo stesso sentirsi «dentro il flusso» da protagonista. Con la bicicletta questo certamente avviene molto più che non con l’auto, o certi modi molto molto meccanici e passivi di usare il trasporto pubblico, ma è solo spostandosi a piedi che si colgono i limiti di osservazione delle due ruote, le quali a modo loro viaggiano assai segregate, e ne vorrebbero addirittura di più, di segregazione. La vera domanda è: serve, questa segregazione? Dipende dal nostro obiettivo, sociale e urbano. Se facciamo parte di quel genere di movimento assai in voga riassumibile semplificando assai con la dicitura «ciclismo militante», certamente sì. Nel senso che vorremmo in buona sostanza una specie di trionfo della bicicletta, perché ci piace così, un trionfo che però finisce per assomigliare decisamente troppo a quello dell’auto novecentesca che va a scimmiottare. Perché cos’altro sono le continue rivendicazioni di percorsi dedicati veloci ovunque, attraversamenti e incroci dove è privilegiato il mezzo a pedali, o al massimo una convivenza che già appare un po’ squilibrata fra pedoni e ciclisti nelle zone da cui i veicoli a motore sono totalmente esclusi? Osservando dall’esterno il comportamento, vuoi obbligato vuoi soggettivamente scelto dalla maggior parte dei ciclisti, si nota proprio una forte tendenza alla non integrazione, a un comportamento analogo a quello delle auto o delle moto, e si capisce la gran voga delle bike superhighways dedicate in tutto il mondo. Ma appunto: vorremmo una città sostenibile, integrata, amica dell’ambiente, o ci siamo convertiti tutti alla fede del ciclismo? Pare una questione sciocca, ma camminando ne vengono in mente tante.
Quello che le bici non dicono
Non c’è alcuna differenza fondamentale fra il tipo di prospettiva esclusiva del ciclista «puro» e quello ben noto della bestia da abitacolo che chiamiamo automobilista. Salvo naturalmente quel paio di particolari che lo rendono a parere di tanti (troppi) l’alternativa vincente e sostenibile per la mobilità dolce locale: ha un rapporto lievemente più integrato col contesto, sia perché è privo di abitacolo a fare da bozzolo, sia perché si sposta a velocità più contenute, sia perché va ad occupare in modo assai più elastico «nicchie spaziali» che lo obbligano a una maggiore interazione positiva (a volte meno) col territorio e i suoi abitanti. Ora quale migliore percorso se non quello di puntare proprio in questa direzione, ovvero integrare ancora di più col resto quell’ottimo tipo di mobilità dolce rappresentato dalla bicicletta? Qui entrano in campo «quelli delle bike superhighways», che ne vogliono invece ancora meno, non vogliono proprio saperne di pensare, ad esempio, a un ciclista che si rapporta con veicoli che lo rispettano come si deve, ma anche coi pedoni e il loro spazio vitale. Un ciclista che a sua volta si trasforma cessando di essere tale, solo perché assai volentieri rinuncia a quel particolare punto di vista assumendone in altro: lega a un palo il mezzo di proprietà, o lo ripiega e se lo mette sotto il braccio, o parcheggia a una stazione di bike sharing, e sale sul tram, o cammina dentro un gruppo di isolati storici dove oggettivamente la bicicletta sarebbe un fastidio. Questo per il ciclista puro, il paladino delle piste dedicate, è inconcepibile, lui vorrebbe sfrecciare su due ruote anche a Venezia, per dire, immerso nella fede, protetto dalle montagne di danni fatti per decenni dalle auto, ma prontissimo a replicare in versione ridotta qualcosa di analogo. Ecco cosa viene in mente, quando non si può pedalare per una settimana, e si è obbligati ad assumere un punto di vista che non ci si aspettava, comparandolo con l’altro solito. Risultano a dir poco inquietanti, in questa prospettiva, certe posizioni degli «esperti» come quelle dell’articolo linkato dal Guardian di oggi, che vorrebbero promuovere il ciclismo in sé invece di una migliore mobilità e abitabilità. Esperti de che? Voi siete dei teologi, ragazzi miei, e pure un po’ fanatici, datevi una calmata!
Riferimenti:
Joanna Witt, How can people be encouraged to cycle, The Guardian, 31 marzo 2016