Spesso qualcuno prova a legare qualche bandolo della matassa che chiamiamo modello di sviluppo, e a cercarne il senso: onestamente pare difficile andare oltre un vago istinto scimmiesco ad arraffare e spilluzzicare. Un ottimo esempio è quello del ciclo alimentazione-ambiente-territorio. Ci ricordiamo in tanti, direttamente o per sentito dire, l’incredibile choc collettivo provocato nei primi anni ’70 dalla pura rivendicazione dei paesi produttori di petrolio di avere qualche peso in più nelle decisioni che riguardavano l’energia a livello mondiale. Si trattava di poco più che rivendicazioni per alzare il prezzo, in un primo momento, ma bastarono appunto a traumatizzare prima i grandi strateghi, e a onde sempre più ampie il cittadino comune. Per chi le ha vissute, quelle giornate di volontaria o forzosa riduzione dei consumi energetici si sono stampate indelebilmente nella memoria. Non per tutti nello stesso modo, però: c’è chi ha iniziato a porsi delle domande, e chi invece si è attaccato alla prima risposta a portata di mano per recuperare il business as usual. Questo giusto per dividere schematicamente il mondo in due. Naturalmente sia le riflessioni dei dubbiosi che le soluzioni degli istintivi sono state varie e numerose, ma pare importante da subito distinguere almeno questi due approcci: il primo se non altro riconosce che esiste un problema, e che magari la soluzione facile non c’è, a rischio di crearne mille altri invece di risolverlo.
Con la cosiddetta austerity petrolifera anni ’70 si capì abbastanza in fretta che avevano prevalso gli istintivi, quando dopo poco tempo l’industria riprese a sfornare automobili opulente quanto e più dei modelli anni ’60, in pratica buttando a mare per lungo tempo certe interessanti ricerche su risparmio ed efficienza che pure avevano fatto capolino all’inizio. La cosa non vale solo per le automobili ovviamente, ma per tutto il modello di vita di cui l’auto è una delle punte di iceberg vistose. Prendiamo l’alimentazione: è almeno dal momento in cui qualunque società moderna esce dallo stato di puro bisogno, che si presenta un problema di inadeguatezza della dieta. Ovvero che superata per fortuna la fase in cui si ingurgitava qualunque cosa pur di arrivare a sera, ci si trova a poter scegliere, e ovviamente si sbaglia per eccesso. Per eccesso di calorie, per eccesso di squilibri di un apporto rispetto all’altro, per eccesso di sfruttamento delle risorse necessarie al ciclo produzione-trasformazione-distribuzione di quanto mettiamo nello stomaco.
Una cosa che ha portato in tempi recenti all’idea della cosiddetta dieta delle cento miglia o del chilometro zero (due declinazioni leggermente diverse ma analoghe del medesimo concetto). Molto più di una moda, ma anche molto più del concetto localista reazionario, vagamente mistico, che assume spesso. Preferisco qui la dizione chilometro zero, anche se spesso proprio il suo uso corrente genera strafalcioni e distorsioni quasi comiche. Ed esclude in linea di massima almeno apparentemente altri percorsi pure coerenti, come quello del cosiddetto commercio solidale (solidarietà a parte, perché è un’altra cosa), o di organizzazione della rete distributiva dal punto di vista delle imprese, e tanto altro. Il criterio della distanza minima però implica ad esempio un taglio netto sia alla dipendenza quasi totale dalle filiere lunghe, sia un forte ridimensionamento dell’apporto nutritivo dei prodotti caratteristici di queste filiere lunghe.
A un convegno di ambientalisti mi è capitato di assistere a una scenetta molto efficace e divertente. Un noto studioso, dopo aver appoggiato sul tavolo un vasetto di verdure in salamoia, ha letto prima l’etichetta degli ingredienti (ortaggi, acqua, sale), poi quella della remotissima ad inutilmente esotica provenienza, e infine quella del prezzo, irrisorio visto che il vasetto era stato acquistato per l’occasione in un locale discount. Poi, ci ha fatto un rapido calcolo di quanta parte di quel prezzo finale derivava dal carburante bruciato per portare da chissà dove quel vasetto. Risatine fra il pubblico, qualche applauso, e qualcosa su cui riflettere tornando a casa, ovviamente. Poniamo però che invece del vasetto di verdure in salamoia si fosse trattato di un piatto cucinato locale composto da parecchi ingredienti, dove ci sono tanti contenuti reali e virtuali: quell’esempio, al convegno, avrebbe di sicuro provocato effetti diversi e contrastanti. Sapendolo benissimo, lo studioso aveva lasciato perdere semplificando al massimo: il mezzo è il messaggio, sempre e comunque.
Morale: basta pensare un istante a cosa ci può stare nel piccolo raggio delle cento miglia o chilometro zero, per dedurre che troviamo molte cose, a volte moltissime, della nostra dieta, ma tante altre proprio no, o neppure in prospettiva ragionevole: in particolare ci sono vegetali a profusione, cereali, frutta, ma proteine animali molto meno, e magari mancano cose assolutamente fondamentali come il sale. Insomma pensandoci anche solo pochi secondi salta all’occhio che non si campa per tutta la vita delle piante aromatiche pur squisite dietro la siepe della nonna, o dell’amata piantina di peperoni sul davanzale che l’anno scorso ne ha prodotti ben due, uno un pure un po’ scalcagnato. Si potrebbe continuare a lungo a fare quei ragionamenti, che sono in sostanza gli stessi che tanti anni fa hanno condotto alla formazione dei mercati mondiali, che secondo Marx e Engels avevano iniziato già prima dell’industrializzazione a strappare milioni di contadini all’idiotismo della vita rustica, e alla carente povera alimentazione locale. Si ripresenta come all’epoca della crisi energetica, nei nostri termini, il citato bivio tra una risposta istintiva, o una più meditata riflessione e verifica del modello. Piuttosto nota a tutti la risposta business as usual: se non c’è petrolio a sufficienza per trasportare tutti gli ingredienti dei piatti in tavola, troviamo un sostituto del petrolio. Dal cappello del prestigiatore spunta il coniglio dell’agrocarburante. E ci risiamo.
Nel senso, ci risiamo col modello che non va, lo stesso che non andava già nei ’70 quando fu ridotto a una questione di geopolitica, da risolvere economicamente e militarmente. Non ha funzionato né da quel punto di vista, né da quello ambientale, e la stessa cosa vale quando si trasferisce armi e bagagli il medesimo modello, che so, in Amazzonia o in Africa, devastando milioni di ettari di pianure e foreste, trasformate in fabbriche di bio-gasolio o polpette per i fast-food (o spezzatino tradizionale della zia con patate, o ragù per cannelloni). Ma non va neppure il raggio delle cento miglia o chilometro zero che dovrebbe essere una alternativa, perché come facciamo a mangiarcelo, quel fumante piatto in tavola? A questo punto entra in campo la pacata riflessione, ciò che va oltre i modelli semplificati. La domanda andrebbe riformulata: posto che l’idea di restringere il raggio pare abbastanza sensata, come è possibile vivere più che decentemente (magari molto molto meglio) considerando un bacino non spropositato? Ecco che le cose iniziano miracolosamente ad apparire in una luce diversa, perché noi non siamo ovviamente più da generazioni i contadini nella situazione di pura sopravvivenza fra stenti, quindi abbiamo parecchi vantaggi già in partenza.
Abbiamo conoscenze tecniche, mediche, dietetiche, culturali, e naturalmente mezzi più avanzati, si tratta di usarli al meglio. Domandandosi ad esempio già in partenza se quel modello alimentare-ambientale sia davvero indispensabile. La risposta suona: niente affatto, possiamo usare bene il territorio ed evitare il disastro degli allevamenti intensivi cambiando dieta, magari non necessariamente tutti subito, ma iniziando seriamente a farlo. Due porzioni di carne al giorno (questo dicono gli studi, se li si vuole leggere invece di arrabbiarsi punti sul vivo) fanno solo un gran male, e a dire la verità si può anche vivere benissimo senza mangiarla affatto, la carne. Idealmente, dal nostro territorio di riferimento spariscono ettari di stalle e letame, feci di allevamento, mattatoi. Certamente qui e là resta qualche animale, una capra un vitello un pollo o gallina ma niente di che, roba che non dà fastidio neppure in soggiorno, per dire. Proseguiamo il medesimo ragionamento su tanti altri aspetti della dieta, più o meno basilari, e contemporaneamente pensiamo ad altre prospettive del nostro cerchio magico ambiente alimentazione territorio. Cosa ne esce? Chissà. Di sicuro si inizia a capire meglio anche cosa ci stiamo a fare sulla terra, e cosa potremmo invece fare di meglio.
Qualcuno, va da sé, proprio non vuole capirla. Sono quelli del vasetto di verdure in salamoia da colture remote e prezzo artificiosamente stracciato, che se ne fregano altamente se a diecimila chilometri di distanza ci sono contadini disperati costretti a una vita infame per rifornirli di una cosa che potrebbero tenere nel loro orto, e magari pagarla pure meno. Oppure sostituirla con qualcos’altro, impianti di confezionamento centralizzati eccetera. Questi «tizi» non sono singoli individui, ma costituiscono una filiera complessa e stratificata, che va dal piatto, alla produzione, alla distribuzione, alla ricerca, e tutti quanti considerano questa nostra terra una vacca da mungere a più non posso: se muore se ne compra un’altra, o troviamo il modo di andarcene. Dove? Boh! È questo modo di non-pensare, che ha inventato gli Ogm secondo il modello attuale, ben diverso da quanto ci raccontano i loro prezzolati cantori, ovvero che le modificazioni genetiche si fanno da sempre selezionando specie: balle! La selezione dei contadini avveniva per esperimenti graduali legati al territorio, dove gli impatti ambientali e sociali avevano il tempo di sedimentarsi ed eventualmente rivelare la propria natura indigeribile in modo chiaro, prima di sfuggire a qualunque controllo.
Oggi succede tutto in un laboratorio di «scienziati pazzi» dell’ingegneria genetica, di fianco a un altro analogo laboratorio di «scienziati pazzi» del marketing, in comunicazione diretta con i pazzi per nulla scienziati delle lobbies economiche-politiche. Basta far approvare una leggina o un comma di un articolo di legge, e tutto si può scatenare, come i salmoni da mezza tonnellata brevettati per invadere il mercato dell’affumicato. Eroi negativi davvero sfrenati nell’animalità capitalistica un po’ scimmiesca (senza offesa per le simpatiche scimmie), con un approccio d’istinto davvero senza freni. L’ONU ribadisce che esiste, prima ancora di quello sanitario o magari etico, un grave problema produttivo, che l’aumento della popolazione mondiale non può tradursi sempre nel disboscare foreste per allevare animali da macello. Anche perché tra non molto ci sarà troppa gente a cui rifilare hamburger, e troppi pochi capi da macellare, anche radendo al suolo tutte le foreste e facendo land grabbing a man bassa dove ceti politici inadeguati e ignoranti lo consentono. Ma di nuovo la risposta istintiva fa scoccare la scintilla dell’ideona «vincente»: puntare sulla bistecca in provetta, sanguinolenta carne prodotta col camice bianco del tecnico anziché col grembiule del macellaio: fa più moderno, eh?
Un incubo, ma i nostri idioti ( non avrei un altro termine adeguato per descriverli) costituiscono sistema socioeconomico, di potere, di decisione politica, e sono pure una specie di maggioranza a quanto pare. Del resto reagire d’istinto è proprio la prima cosa che si fa, dobbiamo tutti sforzarci, di solito, per fare qualcosa di più intelligente fermandoci un istante. Molti invece non si fermano affatto, perché il tempo è denaro eccetera. Toccherà provare a fermarli in altro modo, nel frattempo iniziamo a costruirlo pazientemente e pensando, il nostro ambiente migliore. Magari a partire dalle conoscenze e dalla divulgazione.
Riferimenti:
Alex Renton, Inside the meat lab: the future of food, The Guardian, 5 gennaio 2013