Prendiamola un pochino alla lontana, come sempre conviene fare negli approcci «comprensivi»: cosa vi fa venire in mente di primo acchito il contenimento del cosiddetto consumo di suolo? Procediamo per gradi, escludendo l’evocazione più stravagante e sbagliata (perché questo è, senza storie), anche se questo darà fastidio a molti, facendogli forse abbandonare la lettura risentiti: contenimento del consumo di suolo non ha di per sé nulla a che spartire, con le «lotte contro la devastazione del paesaggio», anche se in qualche caso statisticamente opporsi alle trasformazioni del territorio certamente vuol dire anche contrastare nuove urbanizzazioni. Ma dato che il paesaggio si devasta modificando le visuali, si tratti o meno di urbanizzazioni nuove, o di vecchie modificate, o di strutture esistenti innalzate o densificate, lasciamo per conto suo tutta questa discussione, non pertinente col tema. Ci restano le citate «nuove urbanizzazioni», ovvero tutto ciò che trasforma in maniera radicale e rilevante superfici di campagna in superfici urbane, impermeabilizzate oppure no, ma a forte irreversibile artificializzazione: quello è «suolo consumato», risorsa non riproducibile che se ne va per sempre, lasciandoci a fare i conti di quanta ancora ce ne resta, per tutte le cosiddette funzioni dell’ecosistema, per quelle immediatamente utili a farci portare in tavola qualcosa da mangiare, e dulcis in fundo per farci anche contemplare il famoso paesaggio che qualcuno confonde con l’ambiente. Ma almeno una cosa va detta: gli anti-devastazione visiva sono un sintomo da non sottovalutare né liquidare con troppa facilità.
Sopra, sotto, di qua, di là
Quando ci si oppone alle trasformazioni urbane, in genere spontaneamente si tende a reagire con più fermezza secondo un criterio da «un tanto al chilo»: più grande la trasformazione, più grande il pericolo di devastazione. Ma che c’entra questo col consumo di suolo? C’entra ad esempio per tutti i progetti di cosiddetta densificazione, vuoi per edificazione di superfici sostanzialmente già urbanizzate, vuoi per incremento delle cubature senza occupazione di nuovo terreno, crescendo in verticale. Non uso a caso questo termine «verticale» diverso dal solito «verso l’alto» preferito in genere quando si parla di crescita dell’edificato, e per un motivo che in realtà dovrebbe essere abbastanza evidente, ovvero: anche densificando di suolo se ne consuma parecchio, solo che noi lo chiamiamo sottosuolo e non entra nei calcoli. Eppure i libri di urbanistica, geografia, agronomia, discipline ambientali eccetera, quando parlano di «suolo» in relazione alle trasformazioni urbane ce lo dicono sempre chiaro, come la superficie terrestre intesa in quanto tabula rasa, nello stile di ingegneri e architetti, dove il cosiddetto piano campagna è giusto un alinea teorica a separare simbolicamente due ambiti analoghi e disponibili, sia una sciocchezza. Perché è proprio da quella superficie per nulla teorica in giù, che iniziano tutti i caratteri via via cancellati o pericolosamente ignorati dalle trasformazioni tecniche che chiamiamo urbanizzazione.
Il valore ambientale della pianificazione
L’impermeabilizzazione impedisce al suolo di assorbire acqua e svolgere alcune funzioni come far crescere le piante, la rimozione del relativamente sottile strato superficiale rende quasi impossibile restituire quelle superfici al ruolo originario, e man mano si scende costruendo in verticale (che si tratti di manufatti propriamente edilizi o dei classici impianti a rete sotterranei o altro) gli effetti si allargano, anche molto oltre la superficie interessata. Ecco perché anche i processi di riuso, e densificazione, che vengono presentati come alternativa sostenibile alla classica espansione in orizzontale della città e dell’insediamento, di fatto costituiscono «consumo di suolo», perché potenzialmente impediscono lo svolgimento di quei servizi all’ecosistema che il suolo forniva, arrivando anche a mettere in pericolo gli equilibri natura/artificio su cui si regge l’esistenza stessa di una città. Questo, reso evidente da innumerevoli «incidenti» per esempio nei lavori di scavo delle metropolitane, o di altre grandi infrastrutture sotterranee, ha condotto allo sviluppo di studi tesi non solo a non considerare più quanto sta sotto la superficie urbanizzata come spazio disponibile (una sorta di «grattacielo ribaltato») salvo rischi tecnici per le altre strutture e la loro funzionalità, ma a predisporre una sorta di piano regolatore ambientale del sottosuolo legato alle trasformazioni edilizie e urbanistiche. Maggiori particolari al link, sia nella dissertazione di dottorato specificamente proposta, sia negli altri prodotti delle ricerche tematiche su questo argomento, del Laboratorio di Economia Urbana e Ambientale del Politecnico di Losanna.
Riferimenti:
Michael Robert Doyle, Potentialities of the Urban Volume: Mapping underground resource potential and deciphering spatial economies and configurations of multi-level urban spaces (tesi di dottorato), Politecnico di Losanna, dicembre 2016; abstract e documento integrale scaricabile a lato
Copertina: la prima immagine dell’introduzione a Urbanisme, di le Corbusier (carota a parte, ma anche no)