Titolo originale: Downtown is for people, estratto da, The Editors of Fortune, The Exploding Metropolis (a cura di William H. Whyte), Doubleday, 1958 – Traduzione di Fabrizio Bottini
Siamo in un momento critico per il futuro della città. In tutto il paese urbanisti e amministratori stanno preparando una serie di progetti di riqualificazione che fisseranno i caratteri delle zone centrali per generazioni a venire. Si demoliscono vaste superfici, profonde parecchi isolati; solo in alcuni casi la trasformazione è già in corso, ma in quasi ogni grande centro si è pronti a partire con le costruzioni, i progetti saranno presto completati. Di che tipo di progetti si tratta? Tutto molto spazioso, verde, poco affollato. Grandi vedute su spazi aperti. Tutto solido, simmetrico, ordinato. Netto, deciso, monumentale. Tutte le caratteristiche di un ben tenuto, dignitoso, cimitero urbano.
Ciascun progetto assomiglia parecchio a tutti gli altri: il complesso per appartamenti e uffici al Golden Gate Gateway di San Francisco, il Civic Center di New Orleans, l’auditorium con appartamenti per Lower Hill a Pittsburgh, il Convention Center di Cleveland, ancora uffici e appartamenti a Quality Hill, Kansas City, o il progetto Capitol Hill a Nashville. Da una città all’altra, gli schizzi degli architetti evocano le medesime scene sognanti, nessuna concessione alle particolarità, ai vezzi, alla sorpresa, nessuna traccia del fatto che esista una città con una propria tradizione e carattere. Questi progetti non rivitalizzeranno il centro: lo ammazzeranno. Perché si pongono contro la città. Negano la strada. Eliminano la funzione della strada. Eliminano la sua varietà. Con una eccezione degna di nota, il piano di Gruen per Fort Worth: curioso che nelle molte città che vorrebbero imitarlo non si sia colto quello che è il suo elemento centrale. Senza quasi alcuna eccezione tutti i progetti propongono una risposta standardizzata ad ogni necessità: commercio, salute, cultura, amministrazione, di qualunque attività si tratti, si prende un pezzo della vita della città, lo si astrae dal trambusto del centro, e lo si ricolloca come isola autosufficiente, in maestosa solitudine.
Certo esistono motivi in abbondanza per ricostruire i centri città: crollano gli affari dei negozi, è a rischio la base fiscale, valori immobiliari che ristagnano, trasporti pubblici insufficienti, condizioni di traffico e parcheggio impossibili, gli slum degradati tutto attorno. Ma senza alcuna intenzione di sottovalutare questi gravi problemi, forse sarebbe meglio considerare quanto rende il centro città un luogo magnetico, in rado di infondere la gaiezza, meraviglia, l’allegro trambusto che fa venire la voglia di venirci e restarci. È questo magnetismo, il cuore del problema. Tutti gli altri valori del centro ne sono solo effetti collaterali. Creare un’atmosfera di urbanità ed esuberanza, non è compito da poco.
Siamo troppo solenni rispetto al centro città. Architetti, urbanisti – e uomini d’affari – sono tutti presi da sogni di ordine, affascinati da plastici in scala e vedute a volo d’uccello. È un modo piuttosto indiretto di affrontare la realtà, ed è ahimè sintomatico di una filosofia progettuale oggi dominante: per primi vengono gli edifici, perché l’obiettivo di ricostruire una città è quello di aderire al concetto astratto di quanto logicamente dovrebbe essere. Ma con la logica di chi? La logica di quei progetti è una logica da bambini egocentrici, che giocano coi loro bei cubetti gridando “Guarda cos’ho fatto!”: un tipo di prospettiva assai coltivato nelle nostre scuole dia architettura e progettazione. E i cittadini sono tanto affascinati dal semplice fatto della ricostruzione, che i risultati finali passano in secondo piano.
Con un approccio del genere, i risultati alla fine saranno utili tanto quanto i vecchi cimeli del movimento City Beautiful, che nei primi anni del secolo voleva ringiovanire le città facendole più verdi, ariose, monumentali. Perché l’intreccio sottile, la sua vita, quanto fa valere la pena di recuperare il centro, non la si crea artificialmente. Nessun può capire cosa funzioni per le nostre città semplicemente guardando ai grandi boulevard di Parigi, come facevano quelli di City Beautiful, né guardando le città giardino suburbane, maneggiando plastici in scala, inventando città immaginarie. Bisogna uscire, e camminare. Camminate, e vedrete che molti dei presupposti sui quali si basano i progetti sono sbagliati. Vedrete, per esempio, che un complesso civico valido e ben tenuto non necessariamente migliora anche ciò che lo circonda (è il caso delle università urbane nel mezzo del degrado, o i dintorni sfiniti di ambiziosi monumenti come l’auditorium cittadino di St. Louis, o il passeggio di Cleveland).
Vedrete che non fa parte della natura del centro, espandersi. Notate quanto sia straordinariamente piccolo; quanto improvvisamente lasci spazio, oltre un minuscolo nucleo molto concentrato, a zone sottoutilizzate. La sua tendenza non è a sparpagliarsi, ma a farsi ancora più denso e compatto. Né si tratta di una tendenza residuo del passato: la quantità delle persone che ci lavora cresce, e viste le tendenze di lungo periodo all’aumento dei colletti bianchi, crescerà sempre di più. La tendenza a farsi più denso è una qualità fondamentale, e persistente, per ottime e sensatissime ragioni. Se si esce e si cammina, si nota tutta una serie di altri indizi. Perché mai il nodo centrale è una tale mescolanza di cose? Perché chi lavora negli uffici della bella Park Avenue e New York, svolta al primo angolo possibile verso la Lexington o la Madison? Perché le bistecche migliori chissà perché si mangiano nei locali degli edifici più vecchi? Perché gli isolati piccoli sono più pieni di attività di quelli grandi?
La premessa di queste critiche, è che il metodo migliore per progettare il centro, sia guardare come la gente lo usa, oggi, cercarne i punti di forza, e sfruttarli, consolidarli. Non esiste alcuna logica che possa essere imposta dall’alto alla città, è la gente che la costruisce, ed è a loro, non agli edifici, che dobbiamo adeguare i nostri piani. Ciò non significa accettare la condizione attuale. La città ha bisogno di una ripulita, perché è sporca, congestionata. Ma ci sono anche cose che vanno benissimo, e con la sola vecchia e semplice osservazione possiamo scoprire quali sono. Possiamo vedere cosa piace alla gente.
Quante cose si possono fare con una semplice via
Il primo posto dove guardare è la strada. E bisogna anche farlo alla svelta, perché questi progetti non stanno solo portando via i rumori e il traffico delle macchine dalla strada, stanno portandosi via anche la strada. Al suo posto ci saranno spazi aperti, ampie vedute, tanto posto per tutti. Ma la strada fa molte più cose di qualunque altra parte della città. È il suo sistema nervoso, dove scorrono umori, sensazioni, sguardi. È il principale punto di scambio e comunicazione. Chi usa le città lo sa benissimo, che non c’è bisogno di meno strade, ma di più, soprattutto per i pedoni. Che si inventano costantemente nuovi percorsi alternativi, dagli ingressi degli edifici a metà degli isolati, attraverso i negozi che ne occupano tutta la profondità, anche parcheggi o vicoli di servizio. Lo sa anche chi la costruisce, la città, e che affitta spazi lungo questi percorsi nascosti.
Il Rockefeller Center, spesso citato a dimostrazione di quanto certi progetti facciano bene alla città, presenta differenze fondamentali rispetto ai progetti ch si concepiscono oggi. Rispetta la strada. Il Rockefeller Center si lega strettamente a tutte le vie che lo tagliano. Una delle sue caratteristiche più brillanti è la nuova via, a dividere isolati che altrove sono troppo lunghi. Gli spazi aperti sono nicchie stradali, piccole definite e vivacissime, e non grosse, vuote e noiose. Cosa più importante, è così denso e concentrato che la sua omogeneità è un fatto del tutto relativo e minore nell’area. Con questa estrema densità, la vita della strada trabocca anche al livello sottostante, cosa che spesso avviene nei progetti molto riusciti, ma i nostri progettisti ne hanno tratto una morale sbagliata: per tenere il più possibile sgombro il livello strada convogliano la gente nelle vie sotterranee, nonostante in teoria lo scopo dello spazio aperto sia quello di dare più aria e cielo, non di meno. Difficile pensare a un metodo più rapido per spegnere un centro città, del cacciare le sue attività più vivaci, le luci più vive, sottoterra, eppure è esattamente quello che si è fatto al Penn Center di Filadelfia, o al Gateway Center di Pittsburgh. Qualunque direzione di grande magazzino che seguisse una politica del genere per i propri vitali spazi a livello strada, farebbe fallire l’esercizio.
Il vicolo pieno di attività
Il vero potenziale sta nella strada, ed esistono molte più occasioni per sfruttarlo di quanto non si capisca di solito. Prendiamo ad esempio Maiden Lane, una specie di vicolo secondario di servizio lungo due isolati, a San Francisco. A partire da nulla più che non qualche retro sporco e dimenticato di grande magazzino e edifici anonimi, un gruppo di commercianti ha trasformato quel vicolo in una delle più belle strade dello shopping d’America. Maiden Lane ha alberi lungo il marciapiede, panchine di legno che invitano alla sosta per guardare il passeggio e chi curiosa nelle vetrine, pavimentazioni colorate, ombrelloni sul ciglio stradale quando il sole è caldo. Tutti gli esercenti fanno cose diverse: qualcuno mette dei tavoli all’esterno con esposte le merci, qualcuno mette dei vasi fuori dalle vetrine e fa crescere dei rampicanti. Ogni edifico, vecchio o nuovo, ha una propria specificità; il più celebrato è una distesa di mattoni bruni con ingresso curvo, dell’architetto Frank Lloyd Wright. Suprema la qualità dell’ambiente per il pedone, che nelle ore di unta è il vero padrone della strada. Maiden Lane è un’oasi, con un’irresistibile atmosfera intima, allegra, spontanea. È una delle principali calamite del centro di San Francisco.
Certo non è possibile ricostruire tutti i centri come se fossero un ammasso di Maiden Lane, e se lo si facesse sarebbe una cosa insopportabilmente stravagante. Ma i principi di base descritti si possono applicare in qualunque città secondo forme particolari. Il piano di Victor Gruen e associati per Fort Worth è un esempio che si distingue da questo punto di vista. Se ne è discusso soprattutto per la sua capacità di mettere a disposizione enormi quantità di parcheggi perimetrali, e di convertire il centro città in isola pedonale, ma non per lo scopo principale, che è quello di dar vita alle strade, con varietà e interventi particolari. Si tratta dell’aspetto non affrontato dalla maggioranza delle più o meno ottanta città che, secondo gli ultimi calcoli, stanno seriamente prendendo in considerazione di emulare Gruen nei suoi principi di gestione del traffico.
Non esiste nessuna magia, nel togliere semplicemente le auto dal centro, e i sicuro non ce n’è nel realizzare spazi tranquilli, quieti, e morti. Eliminare le auto è importante solo per via delle grandi occasioni che apre per far funzionare meglio le strade, mantenere le attività compatte e concentrate. A questi scopi, nel piano di Gruen ci sono fra gli interventi per la strada gallerie sul marciapiede, colonne, striscioni, chioschi, caffè all’aperto, piccoli palchi per la musica, aiuole fiorite, effetti particolari di illuminazione. Si devono promuovere concerti, balli, mostre per le strade. L’idea generale è di renderle più sorprendenti, varie, attive, di quanto non fossero prima, non meno.
Una delle cose belle del piano per Fort Worth, è che lavora sugli edifici esistenti, ed è una virtù positiva, non solo un trucco per risparmiare. Pensate a una città qualunque dove la gente va volentieri, e vedrete che di norma ci sono edifici vecchi e nuovi mescolati insieme. Una mescolanza che è fra i grandi vantaggi del centro. Perché la strada ha bisogno di attività commerciali ad alta resa, a resa media, bassa, e anche a nessuna resa. Il ristorantino intimo, il buon posto per mangiare una bistecca, la galleria d’arte, il club universitario, il buon sarto, la libreria o il negozio di antiquariato: il tipo di attività alle quali sono tanto congeniali gli edifici più vecchi. Le vie del centro devono offrire questa mescolanza di edifici, con tutta la sua implicita – ma ben compresa – possibilità di scelta.
Quanto sono piccole, le grandi città
Non è solo per motivi di bellezza, ma anche di economia, che risulta tanto essenziale la possibilità di scelta. Senza una certa composizione delle strade i centri città sarebbero tutti identici e funzionalmente standardizzati. Sono necessarie, le nuove costruzioni, ma non sempre e comunque cosa positiva: la loro inesorabile economia risulta fatale a centinaia di imprese che riescono a vivere benissimo negli edifici vecchi. Notate come quando si costruisce un nuovo edificio, al pianterreno in genere si colloca la grande catena di grandi magazzini, o di ristoranti. Difetto inevitabile nei nuovi grossi quartieri commerciali è la mancanza di varietà nelle epoche dei fabbricati, e uno dei motivi perché anche nei casi migliori non si riesce a introdurre l’elemento inusuale: cosa trascurata dai progettisti di questi shopping center. Siamo propensi ad accostare l‘idea della grande città a quella della grande impresa, e della piccola città alla piccola impresa. Niente di più falso. Certo le grandi imprese si collocano nelle grandi città, ma trovano congeniali anche le piccole. I grandi sono molto autosufficienti, in grado di sostenere le professionalità specializzate e impianti di cui hanno bisogno, senza nessuna difficoltà a raggiungere vasti mercati.
Ma per la piccola attività, più specializzata, funziona tutto al contrario. Deve attingere all’esterno per capacità e forniture, ha un mercato molto selettivo e deve rivolgersi a centinaia di migliaia di persone. Senza la grande città centrale non potrebbe esistere: più grande la città, più grande non solo la quantità, ma anche la quota, delle imprese più piccole. Un nucleo metropolitano per le persone significa centro in cui si addensano tantissime piccole componenti, in mostra sulla strada.
Il punto di vista del pedone
Guardiamo per un attimo alla dimensione fisica della strada. L’utente del centro è soprattutto a piedi, e per trovarsi bene deve vedere contrasti in abbondanza. Deve intuire che la strada non è senza fine, o noiosa, per non stancarsi semplicemente guardandola. Quindi sono spesso gradevoli le vie di cui si vede una fine, o quelle in cui si evidenziano contrasti a intervalli frequenti. Georgy Kepes e Kevin Lynch, docenti del M.I.T., hanno fatto una ricerca su quello che notano i pedoni nelle vie del centro di Boston. Anche se la cosa che ha attirato più attenzione è la quota di spazi aperti, chi cammina dimostra anche un grande interesse negli elementi caratterizzanti di ogni tipo che vede davanti a sé, che siano spazio, verde, vetrine, un orologio, una chiesa. Qualunque cosa si distingua, grande o semplice particolare, risulta interessante. Strade strette, se non sono troppo strette (come spesso succede a Boston) o troppo soffocate dalle auto, riescono a rallegrare il pedone offrendogli una continua possibilità di scelta fra i due lati, e il doppio delle cose da guardare. Per le differenze, ciascuno può scegliere da sé, camminando nelle strade del centro.
Ma ciò non vuol dire che una strada centrale debba essere sempre corta e stretta. Anche da questo punto di vista occorre varietà. Le strade, che siano strette o ragionevolmente ampie, hanno un valore unico nella rivitalizzazione del centro, che va usato e sviluppato, non sprecato. Ciò significa anche che, quando si decide di separare il traffico pedonale da quello automobilistico, il progettista farebbe meglio a destinare ai pedoni il percorso più stretto, anziché quello ampio e spettacolare. Là dove l’uso esclusivo dei pedoni avviene in vie monotonamente larghe, si creerà un problema. Esse diventano invece molto più vivaci e convincenti spezzate in vari tratti. Ad esempio il progetto di Gruen interrompe le lunghe prospettive della griglia regolare di Fort Worth restringendo le strade in alcuni punti, o allargandole in piazze in altri. È anche dimostrazione di ottima sensibilità spettacolare, il giocare sulla varietà delle vie, sui contrasti, sui tipi di attività, attraverso vetrine, arredi, colori, mettendo in scena al meglio sfruttando il contraltare dei piccoli particolari con le grandi banche, i grandi negozi, gli atri, le pareti degli edifici.
Gran parte dei progetti di riqualificazione non ci riescono. Sono concepiti come blocchi unici: elementi distinti e autosufficienti nella città La strada che li costeggia è pensata solo come margine, priva di importanze in sé. Guardate le immagini a volo d’uccello di questi progetti nelle pubblicazioni: quando ci si prende la pena di mostrarle, le strade circostanti, un aerografo le ha sempre smorzate nei toni, sino a una innocua sfumatura. Ma è la strada, non l’isolato, ad essere l’elemento più significativo. Quando un commerciante sceglie lo spazio per il suo negozio, ragiona su cosa c’è davanti, a destra, a sinistra, sulla via, e non su cosa si trova dall’altra parte dell’isolato. Quando si estende la riqualificazione, o si diffonde il degrado, ciò avviene seguendo la via. Ci sono interi quartieri di attività che traggono il nome da una sola via, non dagli isolati, ma dalle vie: Wall Street, Quinta Strada, State Street, Canal Street, Beacon Street.
Perché mai i progettisti si concentrano tanto sull’isolato e ignorano la strada? La risposta va cercata nelle tecniche di analisi semplificate. Dopo aver ricostruito le condizioni dell’edificato, le funzioni, gli spazi utilizzati e no, fatto una valutazione generale, si unificano i dati isolato per isolato, dato che risulta più semplice, e si traduce il tutto su una adeguata legenda. Non conta quanto caratteristica possa essere la via, i dati di quell’affaccio dell’isolato sono resi omogenei a quelli degli altri tre lati. A strada, statisticamente, scompare, senza lasciar traccia. Il progettista ora ha una traccia grafica del centro città, tanto condizionante quanto fuorviante. Visto che credono più a quelle carte per isolati che ai propri occhi, i costruttori pensano che le vie siano elementi separatori di aree, non unificanti, come invece sono. Vengono prese importanti decisioni di riqualificazione su questa base, su quale sia un isolato “buono” oppure “cattivo”, e via via verso altre incongruenze che non produrrebbe neppure il più ottuso laissez-faire.
Ne è un ottimo esempio il Lincoln Center for Performing Arts di New York. Il suo super-blocco a funzioni culturali è concepito in termini grandiosi, per essere il centro dell’universo musicale e della danza a New York. Ma le sue strade non sono in grado di sostenere nulla. Quella a est è un importante percorso per autocarri, dove i convogli di merci diretti verso le zone industriali producono un rumore rombante così forte da azzerare qualunque conversazione sul marciapiede. A nord, la strada è condivisa con l’edificio enorme e tetro di una scuola superiore. A sud c’è un altro complesso a super-blocco, ilcampus dell’università Fordham. Che ne è della Metropolitan Opera, gioiello della corona per tutto il progetto? Il vecchio complesso per l’opera era da lungo tempo penalizzato dal fatto di trovarsi fuori contesto, in mezzo alle vie del quartiere della moda, coi loro possenti edifici a laboratorio e quegli enormi locali delle caffetterie. Qui c’è un insegnamento, per chi la progetta. Ma se si realizzerà quanto pubblicato, l’opera avrà nuovi problemi con quanto le sta vicino. Il vero ingresso sarà sul retro, perché solo qui l’edifico è adeguato alla strada, e qui il pubblico scenderà da automobili e taxi. E affacciate sull’altro lato della via, ci sono le torri di uno dei complessi di case popolari più tetri di tutta New York. Dalla padella alla brace.
Se chi riqualifica i centri città deve dipendere in modo tanto rilevante dalle carte delle analisi, anziché dalla semplice osservazione, si dovrebbero costruire delle mappe con l’aspetto di una rete, in cui i dati vengono analizzati in questa forma, maglia per maglia, e non dentro i buchi. Così si avrebbe una immagine della città che comprende e mostra chiaramente la Quinta Strada, State Street, Skid Row. Nei rari casi in cui davvero una via urbana è elemento di separazione, lo si può evidenziare, ma per verificarlo non c’è altro modo che camminarci e guardare.
Il cliente ha sempre ragione
Nella loro dipendenza dalle planimetrie, considerate una specie di realtà superiore, architetti e urbanisti pensano di poter creare un passeggio semplicemente disegnandolo in pianta dove lo si desidera, e poi costruendolo. Ma un passeggio ha bisogno di chi ci passeggia. La gente ha ragioni molto concrete per andare in un certo posto in città, e chiunque la voglia attirare lì deve fornirgliele. Quel nuovo, bellissimo e luccicante tratto della Park Avenue di New York, appena ricostruito, illustra benissimo questo tipo di ostinazione. La gente non ci va, almeno non in quantità tale da giustificare l’elegante pezzo di città coi suoi straordinari gioielli, dalla Lever House al Seagram Building. Chi lavora negli uffici, tutti i visitatori che si riversano fuori da questi edifici, spessissimo svoltano subito l’angolo, verso Lexington Avenue a est, o verso la Madison a ovest.
Presupponendo che il cliente ha sempre ragione, e che la cosa vale anche per gli utenti degli spazi urbani centrali, appare evidente come Lexington e Madison abbiano qualcosa che alla Park manca. Lo spazio liberato dallo sfortunato edificio Astor Plaza sarebbe un’ottima occasione per realizzare questo elemento mancante, e fare della Park Avenue una autentica passeggiata su uno sviluppo di parecchi isolati. Anziché essere altezzosa e formale, la strada poteva trasformarsi in una furbesca serie di immagini commerciali e urbane, magari negozi su due livelli, ristoranti a terrazza, bar, fontane, rientranze. La torre Seagram e la Lever House, coi loro spazi a piazza, anziché perdere di valore potrebbero raccogliere così il frutto di tutta la propria gloria e individualità, questa per loro sarebbe una guarnitura.
La passeggiata pensata in quanto tale, ma senza gente che ci passeggia, la si può vedere anche nella prima delle strade “greenway” progettate per Filadelfia. Ci sono alberi, ampi marciapiedi, belle prospettive: ma nessuno che ci cammina. Parallela, a qualche centinaio di metri di distanza, c’è una via piuttosto disordinata su cui si allineano negozi e attività: trabocca di gente. Un paradosso che non è sfuggito agli urbanisti di Filadelfia, visto per nelle prossime greenwayintendono inserire almeno alcune strutture commerciali.
Per fortuna, a Filadelfia sia gli amministratori che gli urbanisti sono ottimi camminatori, e uno dei risultati è questo interesse e tentativo di migliorare la naturale attrattività della via urbana. “Bisogna pensare una strada alla volta” ha dichiarato Harry Batten, presidente del consiglio di amministrazione della N.W. Ayer & Son, e fra gli esponenti di maggior spicco del Movimento per la Grande Filadelfia. “Prendiamo per esempio la Chestnut, che è una bella strada per lo shopping; dovremmo eliminare tutto quanto la danneggia, come i vuoti dei piazzali a parcheggio. Trovare esercenti interessati ad andarci, e riuscire a convincerli a trasferirsi”. D’altra parte, c’è Market Street, sul lato opposto del Penn Center: botteghe economiche, negozi di trucchi magici, piccoli cinema, insegne vistose: proprio il genere di via che nella maggior parte delle città è considerata elemento di degrado. Batten, convinto che la città si componga di vari tipi di persone, è contrario a trasformare Market Street in qualcosa di più perbenino. “Deve essere ancora più simile a una fiera – giudica – più luci, più colori”.
Punti focali
Ma per quanto interessante, un po’ volgarotta, oppure elegante, possa essere una via di città, c’è bisogno di qualcosa d’altro: punti focali. Può essere una fontana, una piazza, un edificio: qualunque forma assume, un punto focale segna lo spazio, sorprende, piace, estende un tocco magico su un intero quartiere. Tutti gli autentici punti focali delle città possiedono un elemento di sorpresa che non si esaurisce col tempo. Non importa quante volte la si è vista, Times Square, con le sue cascate d’acqua spumeggiante illuminate, gli affacci che si muovono, le insegne al neon di tazze di caffè fumanti, viva delle sue folle: riesce comunque sempre a far strabuzzare gli occhi. Non importa quante volte si guarda a Newbury Street a Boston, la guglia della chiesa di Alrington Street sarà sempre una delizia per gli occhi.
Mancano punti focali là dove spesso sarebbero più necessari, in luoghi dove convergono persone e attività. Ad esempio non ce ne sono a Chicago nel Loop. In altre città, ci sono spazi perfettamente collocati con gran traffico pedonale, e che non li sfruttano per nulla: è il caso della piazza di Cleveland, piuttosto spenta nonostante abbia tante possibilità, o del dimenticato Diamond Market di Pittsburgh, che con un po’ di spettacolarizzazione potrebbe diventare un ottimo ingresso al Gateway Center. E purtroppo gran parte dei punti focali che si progettano oggi sembrano condannati al fallimento. Quelle ponderose infilate di architetture pubbliche chiamate Centri Civici ne sono un ottimo esempio.
Quello di San Francisco, realizzato vent’anni fa, avrebbe dovuto essere già un segnale, ma ci sono Detroit e New Orleans che ne stanno costruendo di simili, pretenziosi e piatti, poi molte altre città ci stanno pensando. Senza alcuna eccezione questi centri civici sprecano spazio, rovesciano cemento, chilometri di percorsi: i progettisti vorrebbero tanto spazio per i centri civici, che sarebbe meglio spostarli decisamente fuori città, come fanno per esempio al New Orleans. Detto in altre parole, a quanto pare c’è tanto bisogno di spazio per la gente che bisogna allontanarlo, dalla gente. I municipi non hanno mai avuto bisogno, di tutto questo spazio, e i nostri antenati – bravissimi nel costruire cortili e piazze – lo sapevano molto bene. La gente che lavora nei giornali e che ha fatto del conoscere le abitudini dei politici il proprio mestiere, fa in fretta a scoprire nella propria città quello che è l’angolo “carburatore” [1]: lo spazio dove i politici si trovano, magari un pezzo di marciapiede dove basta passare verso mezzogiorno per vedere “chi c’è in città”.
Anche nei principali centri metropolitani è piuttosto facile scoprirlo, questo angolino carburatore, dove avvocati, eletti, aspiranti all’elezione, vari personaggi a vario modo introdotti nell’ambiente, si riuniscono e mescolano, cercano e scambiano informazioni tra loro. Un luogo di scambio vitale, mai segnato sulle carte ufficiali della città, e di sicuro gli architetti non l’anno distinto con alcun colore o segno nei loro progetti di Città del Domani. In realtà, se si provasse a chiederglielo, si avrebbero in cambio sguardi perplessi. Magari un po’ sprezzanti. I grandi spazi aperti non vanno bene per questo tipo di attività cittadina; il prestigio e bellezza di un piccolo angolo verde lungo il marciapiede, come nella nuova Federal Reserve Bank di Jacksonville, o un giardino laterale, come nella Federal Reserve di Filadelfia, funzionano benissimo per chi amministra la città o la contea, e vuole stare tra i suoi pari,, avvocati, lobbisti, e tutti quanti hanno rapporti con il governo locale.
Eco
Chi sostiene i grandi progetti spesso spiega come il superblocco gigante sia l’unico modo di intervenire nella riqualificazione della città. Questo genere di complessi, si argomenta, possono ottenere i finanziamenti governativi per le trasformazioni urbane, e così sostenere gli elevati costi di acquisizione del terreni e demolizione. Gli stessi progetti coordinati sono preferiti dai grandi costruttori, perché consentono di guadagnare di più intervenendo per singoli edifici: Sono apprezzati anche da chi eroga prestiti e dalle compagnie di assicurazione, dato che un grosso finanziamento ha bisogno di meno verifiche di tanti più piccoli: più grande il complesso, più distinto da quanto lo circonda, e ancor meno chi presta deve preoccuparsi di contaminazioni dall’esterno. Infine, con questi grossi progetti si ha il potere di esproprio per pubblica utilità; non si deve necessariamente avere dimensioni enormi per questo, ma è possibile averle, e così si fa.
Spesso gli architetti lamentano di aver poca voce in capitolo riguardo all’aspetto e all’organizzazione generale dei grandi progetti. Sottolineano come siano le leggi sulla riqualificazione, le norme amministrative, le economie che derivano dalle leggi, a progettare al loro posto. Cosa particolarmente vera nei complessi residenziali, dove le indicazioni di densità, rapporti di copertura, affitti regolamentati e simili, non solo determinano quantità, dimensioni, localizzazione degli edifici, ma ne influenzano anche il progetto (sino a componenti come ballatoi o ingressi). I progetti non residenziali sono meno regolamentati, ma nascono dal medesimo crogiuolo, e molti complessi per uffici in effetti sono difficili da distinguere dai fabbricati residenziali. Architetti e costruttori non hanno tutti i torti. Perché i funzionari pubblici, gli urbanisti – e anche architetti e costruttori – per primi hanno concepito il grande progetto spettacolare, e poco altro, come strumento di trasformazione urbana. Le leggi sulla riqualificazione e le economie che ne derivano, nascono da questo modo di pensare, e sono tagliate su misura per il prototipo del genere che viene realizzato oggi. C’era già questo modello inscritto nel meccanismo, e ora la macchina continua a riprodurlo.
Ma dove siamo?
Il genere di approccio per grandi progetti dunque non fa molto per aggiungere individualità: al contrario, gran arte di questi complessi rispecchiano una sicura mania di cancellare qualunque specificità urbana. Riescono a obliterare anche i grandi doni della natura. Ad esempio a Cleveland volendo fare qualcosa di molto notevole sulla sponda del lago Erie, si sta progettando un centro congressi isolato, tutto collocato su un’ampia piattaforma di calcestruzzo. Così non si capirà mai che ci troviamo sulla sponda di un lago, salvo per la veduta dell’acqua lontana. Invece qualunque centro città può far tesoro delle proprie peculiarità e combinazioni di presente e passato, clima, topografia, casualità di sviluppo. Pittsburgh è sulla strada giusta con Mellon Square (punto focale dalla posizione ideale) dove il marciapiede lascia spazio a un’alta scalinata, movimentata da una cascata. Un’ottima sottolineatura de territorio collinare di Pittsburgh, sfruttata naturalmente nel punto in cui la strada scende in forte pendenza.
Le sponde dei corsi d’acqua sono un’ottima risorsa, ma sono poche le città che ne fanno uso. Fra le decine che hanno il centro attraversato da un fiume ce n’è solo una, San Antonio, che abbia trasformato questi spazi in una bellezza caratteristica. Basta andare a New Orleans per scoprire che l’unico modo di vedere il Mississippi è passare su una passerella chiusa per nulla invitante che porta al traghetto. Il panorama vale la pena, anche se non c’è nessun ristorante affacciato sul fiume, o qualche locale con terrazza panoramica per guardare le navi, nessun posto da cui si veda lo scarico delle banane, o le draghe e le trivelle al lavoro. Certo per New Orleans ci sono i classici caratteri del passato nel Vieux Carré, ma il passato no basta in una città, neppure a New Orleans. Alla fine una identità spaziale locale si costruisce da molte piccole cose, alcune tanto piccole che la gente le dà per scontate, ma quando mancano evapora tutta l’atmosfera della città: irregolarità di livello, spesso spazzate via dalle ruspe, diversi tipi di pavimentazione, segnaletica, idranti, lampioni, ingressi di marmo bianco.
La città lavora su due turni
Non dovrebbe essere necessario osservare che le vari parti di città descritte sinora formano un tutto unico. Ma è necessario, purtroppo: l’approccio per grandi progetti ora dominante presume la necessità di eliminare le varie attività e riorganizzarle in modo ordinato: qui un centro civico, là uno culturale. Un’idea di ordine inconciliabilmente contraria al modo in cui in realtà funziona un centro; la cosa che lo rende vitale è il modo in cui tante attività di tipo diverso si sostengono l’una con l’altra. Siamo abituati a pensare che la città sia divisa i quartieri funzionali – finanziario, per lo shopping, dei teatri – e così in effetti è, ma solo in parte. Nel momento in cui un’area diventa troppo esclusivamente dedicata a una sola funzione e servizi collaterali immediati, iniziano i guai: perde il proprio fascino per gli utenti del centro città, e rischia di trasformarsi nell’ombra di sé stessa. A New York la zona con la più lussureggiante mescolanza di attività varie, quella di midtown, ha dimostrato un potere di attrazione tanto sproporzionatamente superiore a quello della zona sud di Manhattan, anche per le attività direzionali che là sarebbero più vicine alle grandi compagnie finanziarie, e però lontane da tutto il resto.
Si trovano i centri città più vivaci là dove le attività riescono a sostenere due turni di traffico pedonale. E di sera sono vissuti tanto quanto di giorno. Ne è un buon esempio a New York la Cinquantasettesima Strada: funziona di sera grazie agli appartamenti e residence nella zona, grazie alla Carnegie Hall, e grazie a tutti gli studi di musica, danza, recitazione, proiezioni cinematografiche specializzate, generati dalla presenza della Carnegie Hall. Funziona di giorno per via dei piccoli fabbricati a uffici sulla via, e a quelli più grandi a est e ovest. Una vita su due turni del genere è molto vantaggiosa per i ristoranti, perché garantisce attività sia per il pranzo che per la cena. E poi favorisce ogni tipo di negozi e servizi orientati ai bisogni di una clientela composta da tutti gli strati della popolazione.
È una follia per un centro scoraggiare il funzionamento su due turni, come ad esempio sta tentando Pittsburgh. Pittsburgh funziona su un solo turno, ma in teoria si potrebbe in parte rimediare col progetto di auditorium civico, al quale si dovrebbero aggiungere uno spazio per la musica sinfonica e degli appartamenti. Lo spazio è nelle immediate adiacenze del centro vero e proprio, e si potrebbero legare le nuove strutture alla maglia stradale esistente. Spazi aperti di dimensioni urbane – e non suburbane – possono costituire punto focale, o un ambiente gradevole a fungere da forte e magnetico punto di congiunzione fra vecchio e nuovo, non costruire una barriera. Il progetto per Pittsburgh non ne tiene alcun conto. Ci sono tutti gli immaginabili elementi – grandi arterie, larga fascia a verde, grandi parcheggi – a separare il nuovo complesso dal centro. Manca solo una muraglia impossibile da scalare.
Il progetto fa una figura impressionante visto dalle torri per uffici del centro, ma in quanto a rivitalizzare la città potrebbe anche trovarsi a chilometri e chilometri di distanza. Un errore già fatto in precedenza, e il cui effetti sono prevedibili: ad esempio l’auditorium e teatro dell’opera di St. Louis, isolato rispetto al centro da spazi e altri edifici, non ha prodotto alcuna attività nei dintorni, ed esiste da ventiquattro anni!
Cercasi modo adeguato per indurre stimoli
Quando si tratta di progettare attività culturali, chi fa potrebbe imparare molto dalla New York Public Library, che sceglie la propria posizione come farebbe il più attento dei bottegai. Non è un caso se il suo edificio principale sta in uno degli angoli migliori di New York, quello fra la Quinta Strada e la Quarantaduesima, nobile punto focale. Nel lontano 1895, l’appena nominata commissione della biblioteca discuteva che tipo di forma la struttura avrebbe dovuto adottare. Deciso di servire la maggior quantità di persone possibile, fu scelto quello che sembrava il punto centrale di una città in via di sviluppo verso nord, che venne richiesto e ottenuto. Oggi la biblioteca decide la collocazione delle proprie sedi decentrate cercando un posto dove c’è molto traffico pedonale. Lo sperimenta installandoci una biblioteca mobile, e se i risultati sono quelli previsti si può iniziare ad affittare dei locali per una biblioteca provvisoria. Solo dopo essersi assicurati di essere nel posto migliore per raggiungere il massimo possibile di utenti, si inizia a costruire.
Recentemente, la biblioteca ha collocato una di queste sedi secondarie fra la Quinta e la Cinquantatreesima Strada, nel cuore della zona più trafficata di uffici, incrementando la propria circolazione quotidiana di 5.000 unità in un colpo. La questione, va ribadito, è di lavorare con la città. I nostri centri, per quanto sporchi e stazzonati possano essere, funzionano. Certo hanno bisogno di qualche miglioramento, ma non certo di essere rasi al suolo. Boston è un esempio di centro città con eccellenti caratteri di compattezza, varietà, contrasti, sorpresa, tipicità, ottimi spazi aperti, una mescolanza di attività fondamentali. Nel momento in cui si deciderà per il rinnovo urbano, ci saranno Filadelfia e Pittsburgh a cui guardare per come organizzarsi, Fort Worth per la gestione del traffico, e così Boston potrà farsi uno dei più bei centri città.
Il cittadino
È impossibile ricreare il notevole intreccio, la vivacità di un centro, usando la logica astratta di poche persone. Una città è in grado di dare qualcosa a tutti solo perché è stata costruita da tutti. E così dovrebbe essere anche per il futuro: architetti e urbanisti possono dare un contributo essenziale, ma anche più vitale è quello del cittadino. Dopo tutto, è la sua città. Il suo ruolo non è semplicemente quello di accettare i progetti degli altri, ma di mettere direttamente le mani in pasta.
E non deve essere un urbanista o un architetto, oppure arrogarsi la loro funzione, per porre le domande adeguate:
Come possono i nuovi edifici o complessi di edifici sfruttare al meglio i caratteri specifici della città? Esiste un affaccio sul un corso d’acqua che possa essere messo a valore? Un elemento topografico insolito?
Come può la città legare il vecchio al nuovo, così che entrambi siano complementari e possano rafforzare la continuità urbana indispensabile?
Possono i nuovi progetti inserirsi nel sistema di strade della città?
Certo gli spazi più disponibili si trovano fuori da centro, ma quanto al di fuori? La scelta della localizzazione anticipa in qualche modo sviluppi previsti, oppure è tanto lontana dal centro da non riuscire a trarne alcun sostegno, né darne?
I nuovi edifici sfruttano le grandi potenzialità della via, oppure in pratica annullano la via?
Nei nuovi progetti le varie attività si mescolano, o si fa ancora l’errore di segregarle?
In breve, c’è da divertirsi, in città? Di sicuro è il cittadino il massimo esperto in questo campo: quello di cui c’è bisogno è un occhio che osserva, la curiosità per la gente, la disponibilità a camminare. E non solo camminare nelle strade della propria città, ma di tutte quelle che si visitano. Quando il cittadino ne ha occasione, deve assolutamente camminare per un’ora nel più bel parco, nella migliore piazza della città, e se trova una panchina a portata di mano sedersi e guardare la gente per un po’. Capirà molto meglio la sua, di città, e forse riuscirà anche a portarsi a casa qualche idea. Lasciamo che siano i cittadini a decidere che risultati vogliono, e sapranno adattare tutto l’apparato della riqualificazione per raggiungerli. Se c’è bisogno di nuove leggi, manifesteranno per ottenerle. Ad esempio i cittadini di Fort Worth oggi stanno facendo esattamente questo: in realtà tutti i cittadini in tutte le città in cui si prevedono grandi trasformazioni hanno dovuto esercitare pressioni per qualche legge speciale.
Che fantastica sfida!
Poche volte il cittadino ha avuto un’occasione del genere per ridar forma alla propria città, per farne il tipo di città che lui vuole, che anche altri vogliono. Se questo significa lasciar spazio all’incongruo, allo stravagante, al volgare, fa tutto parte della sfida, non certo del problema.
Progettare una città da sogno è facile: è per rifarne una piena di vita, che c’è bisogno di fantasia.
[1] Jane Jacobs usa qui un termine gergale piuttosto tecnico, “political Venturi” dal nome di un particolare condotto dei sistemi di carburazione per motori a scoppio. Ho deciso di tradurlo con “carburatore” che mi sembra equivalente e di più immediata comprensione
Dal medesimo volume, The Exploding Metropolis, qui su la Città Conquistatrice in italiano anche l’interessantissimo saggio del curatore William Whyte: Sono anti-americane, le città? Che tratta dal punto di vista del cittadino (a partire da una indagine di mercato) la questione della casa e del quartiere