«Arrivando in aereo verso la metropoli si è ingannati come da un miraggio. Da migliaia di metri di quota pare di vedere immensi spazi vuoti in tutte le direzioni: si potrebbe giurare che lo sprawl suburbano possa proseguire tranquillamente senza alcun controllo. Si potrebbe giurare che non esistono confini logici, alle lottizzazioni estese per decine di chilometri». Così una decina d’anni fa iniziava un articolo su USA Today, raccontando il panorama in avvicinamento alla capitale delle visioni virtuali, Las Vegas. Ma proseguendo poi, abbastanza ovviamente, come una volta atterrati si cominciasse a rendersi conto (i costruttori di case e strade per primi) di come lo spazio fosse sostanzialmente esaurito. Conclusione, almeno se si è pragmatici, l’urgenza di smetterla, di fare gli integralisti a prescindere della villettopoli coi centri commerciali e affini, e puntare su qualcosa di più simile a una città, densa, urbana, e in fondo guadagnarci tutti quanto a socialità, zone pedonali, varietà di ambienti. Come del resto si è sempre fatto in era pre-automobilistica. E invece ovunque si fa l’esatto contrario.
Ad esempio nell’enorme regione urbana dell’Italia settentrionale, cresciuta per quasi duemila anni secondo le grandi campiture disegnate dalla geografia: le linee degli sbocchi di valle alpini e appenninici, il serpentone del grande fiume, e di qua e di là i puntini degli insediamenti umani e le linee dei percorsi che li collegano. Con l’epoca industriale, della macchina, del vapore e dell’elettricità, i puntini si sono gonfiati e moltiplicati, le linee di connessione allargate e staccate dalle determinanti geografiche. Alle vie, e ferrovie, si sono sovraimposti i «corridoi», concetto utile e moderno, se non venisse manipolato dai soliti sofisti a senso unico. L’idea di corridoio nasce a definire un’idea di mobilità elastica e complessa, di processo anziché di progetto. La sua interpretazione distorta diventa invece una fascia allargata tanti quanti sono gli appetiti da soddisfare, e una somma di opere varie sparpagliate dentro a questa fascia. Si evocano così i miti dei grandi spazi e delle nuove frontiere anche dove di spazi ce ne sono rimasti assai pochi, e semplicemente per saturarli di oggetti vari, di dubbia utilità e logica collocazione.
Come con la «città ideale» di VeMa, a cavallo fra le due province di Verona e Mantova che ne compongono l’acronimo. Presentata con certo clamore mediatico alla Biennale Architettura 2006, veniva giudicata dalla stampa come succede quasi sempre in questi casi, per i caratteri formali e storici. Anche le critiche meno compiaciute ne indicavano al massimo la natura di «anacronistico e sterile esercizio accademico» (così Maurizio Giufrè sul manifesto). Esercizio accademico forse. Sterile proprio per niente, dato che sul rettangolone del progetto, dalle accattivanti forme architettoniche moderne, si erano focalizzati gli interessi di banche e investitori. Cosa naturale, se si considera che la sedicente città ideale calava sul territorio come vera e propria ciliegina sulla torta: la torta della «valorizzazione» a colpi di opere infrastrutturali, all’incrocio di un paio di «corridoi»: l’asse detto Lisbona-Kiev, e quello trasversale per il Brennero. Nelle pianure a cavallo fra le due province, a est del Mincio, si intrecciava una vicenda analoga a quella di altri nodi padani, più o meno noti e discussi. Linee ferroviarie ad alta capacità, autostrade parallele e trasversali, e poi tutti i vari incroci attrezzati, stazioni, interscambi, annessi e connessi.
Del resto, questo potenziale triangolo d’oro per i venditori di asfalto e precompressi non è più una steppa selvaggia almeno da duemila anni. Passava e ancora a lunghi tratti passa, l’antica Postumia romana, che sale dalle basse cremonesi, attraverso la piana di Goito, e attraverso Villafranca su fino a Verona, dove a Porta Borsari si ricongiunge alla linea pedemontana padana superiore. Non è più lastricata, naturalmente, né percorsa dai pesanti sandali delle legioni. Asfaltata, abbastanza allargata e percorsa dalle auto, salta ancora però agli occhi su qualunque cartina stradale per come taglia dritta dritta a 45° le piane di Gazoldo Ippoliti, fra Piadena e Goito. Lì a Gazoldo passa proprio davanti ai capannoni di una delle principali imprese del mantovano, e oltre: la Marcegaglia. Nel punto dove si prevede uno svincolo del futuro Ti-Bre (Tirreno-Brennero), tracciato autostradale verniciato in questo tratto su quello bimillenario della Postumia (coerenza tecnica), e che a est di Goito si curva verso Nogarole Rocca, a congiungersi con l’A22. Il luogo della città ideale di VeMa.
Osservando e suggestive immagini montate su Google Earth dalla Biennale Architettura 2006, però, non si trovava traccia di tutto questo.Forse perché una città ideale, ufficialmente discendente di Sabbioneta, Pienza, magari dei centri di fondazione del ventennio nelle paludi redente, doveva per statuto stare sospesa nell’aria, senza tempo e senza spazio. Purtroppo lo spazio lì attorno, immerso nel suo tempo, esiste eccome. Territorio reale, non appeso alle grandi categorie dello spirito: campi, villette, nuclei storici, capannoni, macchie di bosco, fossi, strade, eccetera. Per dargli un’occhiata un buon percorso è quello trasversale che comincia a Goito, dove gli infiniti rettilinei della vecchia Postumia si interrompono sulla riva del Mincio, e dove superato il ponte della statale Brescia-Mantova (quella che scende dritta dalle grandi trasformazioni ferroviarie e autostradali del pedemonte) si entra nel territorio a est del fiume. C’è un’aria di campagna, e insieme di variante della città dispersa veneta, da quelle parti, lungo la strada che taglia la pianura verso l’abitato di Roverbella e i confini provinciali. Poco più a nord, dopo la confluenza nel tracciato della Mantova-Villafranca-Verona e l’abitato di Mozzecane, un’altra trasversale attraversa campi coltivati a scatoloni precompressi, inoltrandosi a est fino all’abitato di Pradelle e al ponte sulla A22. È dall’alto del ponte, guardando verso sud che appoggiando la mano sulla spalla di un ipotetico architetto potremmo pronunciare il fatale: «tutto questo un giorno sarà tuo».
Suo per modo di dire: fra strade, svincoli, autostrade, stazioni di interscambio e ammennicoli vari, qualsiasi «città ideale» sarebbe comunque disegnata secondo linee che vengono da ben altro tavolo di progettazione. Quelle del genere di espansione suburbana che gli storici dello sprawl ci raccontano da decenni, definito dalle decisioni della famigerata road-gang e in cui gli architetti si inseriscono firmando il trattamento a verde di un parco per uffici, o le ardite forme di qualche villaggio della moda a prezzi scontati a cavallo delle otto corsie … E pensare, che da anni i convegni più o meno affollati di accademici e pubblico risuonano della fiera intenzione di «ricucire la città diffusa». A prima vista, riempiendo i pochi spazi rimasti disponibili, e lasciando quelli «diffusi» tali e quali al loro destino.
In teoria ci sarebbero centinaia di occasioni anche importanti di lavoro progettuale, da queste parti, ma ahimè bisognerebbe sporcarsi le mani con la città vera, con le distanze, le densità, i condizionamenti. A quanto pare sembra invece meglio, atterrare con la propria astronave concettuale nel virtuale spazioporto disegnato dai corridoi intermodali, su terreni pronti a schizzare alle stelle in qualche piazza finanziaria, magari meno ben disegnata di quelle di VeMa, ma molto più vicina ai cuori degli investitori. Quando in qualche futuro anche a est del Rio Mincio i gringos non troveranno più i prati con le vacche al pascolo, e da Mantova a Verona ci saranno soltanto metri cubi – griffatissimi, per carità – sparsi a profusione, potremo gemellarci con Las Vegas, la vera città ideale. Nel senso di gioco d’azzardo sul territorio, rien ne va plus.
(questo articolo, con pochissime varianti soprattutto nella declinazione dei verbi, è stato scritto nel 2006; qui alcune immagini del progetto di VeMa ancora disponibili)