Quando gli esponenti del mondo conservatore e destrorso si beccano tra di loro su qualcosa, chi a quel mondo non appartiene un pochino se la gode. Perché da un lato finalmente emerge alla luce del sole sino a che punto il classico dogmatismo caro a certa destra, religiosa o economica, sia tutt’altro che granitico, ma si componga di una congerie di dogmi contraddittori. E perché, diciamo così tatticamente, si pensa che possa in qualche modo esistere una destra più destra, e un’altra meno destra a cui allearsi in modo strumentale su qualche questione specifica: se abbiamo un avversario comune, magari possiamo convergere a proposito del tema X o della vertenza Y. Di solito questa seconda opzione tattica è rischiosa, soprattutto per chi ha idee abbastanza vaghe sulle differenze tra conservazione e conservatorismo, fra progresso e cambiamento, e figuriamoci in un’epoca che chiamano post-ideologica, in cui spesso basta “fare le cose” per aggiudicarsi qualche medaglia, indipendentemente dalla qualità specifica delle cose fatte. Beh, di questi tempi in Gran Bretagna pare abbondino confronti del genere: uno è quello piuttosto grosso e noto della sempre incombente secessione scozzese, il secondo, sconosciuto ai più, è il progetto Uxcester. Uxcester? Chi era costui?
La città ideale bi-partisan
Si chiama appunto Uxcester, nome volutamente staccato dalla realtà, il progetto uscito vincitore del britannico Wolfson Economics Prize edizione 2014, e relativo premio, l’equivalente in sterline di circa 315.000 euro. Una bella somma, che però decisamente impallidisce davanti al respiro di quel concetto Uxcester, ovvero una specie di riedizione terzo millennio del programma new town, o più indietro delle città giardino, per risolvere sui tempi medi l’emergenza casa. L’idea, riassunta in soldoni, è nientemeno che di raddoppiare l’urbanizzato di una serie di città di dimensioni medie, più o meno 200.000 abitanti attuali, portandole a 400.000, e farlo naturalmente secondo criteri avanzatissimi di urbanistica, edilizia, sostenibilità, alte tecnologie, integrazione territoriale e via dicendo. Tutta la premessa sulla destra si deve al fatto che il Wolfson Economics Prize altro non è che una iniziativa gestita dal centro studi ultraliberista Policy Exchange, strenuo sostenitore di tutto quanto possiamo immaginarci in materia di deregulation, privatizzazioni e compagnia bella, e che quasi quotidianamente sforna studi e rapporti che attaccano frontalmente qualunque sospetto di «dirigismo pubblico», proponendo sempre la stessa panacea del libero mercato anche come cura del raffreddore. E pensare che però, l’incipit del programma Uxcester pare inchiodato a uno dei dogmi dell’urbanistica di sinistra, ovvero quel brownfield first del rapporto Rogers voluto dai governi laburisti tanti anni fa, e via via contraddetto dalla pratica e dai progetti del medesimo partito.
Il paradigma nuovo, o usato?
Era successo per esempio che con le cosiddette eco-città, sponsorizzate da Gordon Brown, si prospettava la nascita di nuovi insediamenti greenfield, la cui sostenibilità era tutta affidata a nuove tecnologie edilizie, energetiche, a una diversa organizzazione urbanistica. Ma che erano invece crollate una dopo l’altra di fronte agli obiettivi criteri di valutazione ambientale integrata messi neutralmente a punto dalla Town & Country Planning Association. Perché con tutti i contenimenti delle emissioni calcolati internamente ai quartieri e agli edifici, si lasciava ad esempio poi ampiamente irrisolta la questione del pendolarismo, obbligatorio vista l’assenza di attività economiche, e obbligatoriamente in auto visto che quei progetti erano realizzati in aree extraurbane prive di adeguati trasporti e collegamenti. Invece il piano Uxcester da un lato mette nelle premesse la necessità di intervenire in generale all’interno delle città esistenti, dall’altro propone di ampliare centri medi, pur raddoppiandoli, ma in modo continuo. Anche se per farlo, spiega sempre sin dall’inizio, sarà indispensabile infrangere il tabù di intoccabilità della greenbelt, la fascia vincolata di verde agricolo imposta da sempre attorno agli abitati di una certa entità a garantire un equilibrio territoriale ed evitare la conurbazione a macchia d’olio. Ed ecco perché siamo di fronte a un battibecco interno al mondo conservatore e destrorso.
Io sono più conservatore di te!
Il programma di riforma generale della crescita urbana premiato dai liberisti Policy Exchange, è stato stroncato prontamente da altri liberisti, di governo stavolta, e di altissimo profilo. Nelle parole del ministro per la casa «Siamo impegnati a tutelare la green belt dall’edificazione, e a contrastare la dispersione urbana incontrollata. Siamo invece pronti a collaborare con le amministrazioni locali in tutto il paese, che hanno idee a proposito di una nuova generazione di città giardino, e abbiamo già offerto sostegno ad alcuni piani in questo senso». Dove esattamente debbano poi sorgere queste città giardino, e con quali criteri, non si capisce, salvo forse andando a verificare localmente, magari per scoprire che si tratta proprio di aree greenbelt o assimilabili, da riclassificare in base ai nuovi piani. Proprio questo uso dialettico abbastanza elastico e ideologico della fascia di verde agricolo tutelato, ci fa intuire la natura dello scontro (anche indipendentemente dalle intenzioni forse onestamente progressiste degli urbanisti premiati). Qualcosa che ricalca abbastanza da vicino, almeno nel metodo e nell’oggetto, il recente sottile spostamento del dibattito dalla tutela dell’ambiente e del territorio alla salvezza del paesaggio, o agli infiniti comitati NO. Dove conservazionismo e conservazione finiscono per mescolarsi in un ginepraio inestricabile, che non fa certo il gioco del progresso, o in genere di istanze progressiste. In cui evocare pure memorie, tradizioni (il paesaggio) anziché più verificabili ma ahimè poco travolgenti strategie (ambiente, clima, energia, economia) forse crea consenso sul breve termine, ma spesso costruisce invece le basi del peggio.