Cosa si concentra, in un ambiente urbano? Partiamo dalla risposta più spontanea e apparentemente infantile, che però è anche quella giusta, almeno come primo passo: l’ambiente urbano è dato dalla concentrazione intrecciata di persone e manufatti, edifici e altro. Le persone esistono ovviamente anche in ambienti diversi, e in quegli ambienti diversi si portano o spargono i loro manufatti, edifici e altro. Ma non lo fanno con quel genere di massa critica che storicamente ha visto il sorgere della civiltà, delle forme di convivenza, di gran parte del progresso scientifico, tecnologico, economico, culturale e sociale. A sua volta questa massa critica è difficilissima, forse impossibile da determinare quantitativamente e qualitativamente (nello spazio, nel tempo, nei soggetti, nelle funzioni) come ben si capisce osservando quanto più fortemente e sicuramente «urbani» si caratterizzino certi luoghi quantitativamente esigui ma ad esempio con forte stratificazione storica, di fronte ad altri più cospicui articolati e ricchi, ma privi di quella dimensione temporale e sociale. Un esempio a caso di questa difficoltà, sono state per esempio le abbastanza lunghe dissertazioni sul festival artistico detto Burning Man, raduno annuale che trasforma per alcuni giorni un’area deserta (nel Nevada, curiosamente simile come ambiente generale a quello del progetto urbano ideale di Arcosanti in Arizona) in una apparentemente assai vitale città, ricca di gente, eventi, e anche trasformazioni fisiche. Alla domanda: «è una città oppure no?» decine di qualificatissimi osservatori esperti hanno dato decine di risposte diverse, che se non altro sono un’ottima indicazione di metodo.
Qualche tema fondante a caso
Arriva un po’ di gente, e costruisce edifici, che contengono gente e altri manufatti. Banalissimo, ma tutto comincia così, e forse tutto si potrebbe anche riassumere lì. La casa (o il laboratorio, il deposito ecc.) è una fantastica focalizzazione di tecnologie e sensibilità sociali e culturali: le nuove costruzioni o il riadattamento delle vecchie sono oggetto di riflessione tecnologica, progettuale, sullo spazio, il tempo, la durata, il rapporto con l’ambiente, e poi le regole di convivenza con le altre trasformazioni circostanti, che diventa rapidamente convenzione sociale in forma di urbanistica, e poi ancora economia, gestione domestica e non, ruoli degli attori sociali singoli e in gruppo. Per andare da una casa all’altra, o se si vuole ragionare un po’ più in grande da una città all’altra, o semplicemente allontanarsi dalla città verso altri ambienti, entrano in campo i trasporti, e anche qui forse con addirittura maggiore evidenza si palesano le innovazioni, che dalla ruota in giù proprio grazie alla prossimità, imitazione, sinergia, concorrenza per far di meglio e affermarsi, di nuovo qualificano e arricchiscono l’idea di concentrazione urbana, proprio là dove crescono esponenzialmente gli intrecci fra le varie modalità di movimento, sino alla recentissima concezione della smart city che vorrebbe al tempo stesso massimizzare la comunicazione riducendo al minimo lo spostamento fisico necessario, fra disponibilità ubiqua di dati e informazioni, e gestione integrata di spazi e flussi.
Il resto si intuisce da sé. Oppure no?
Basta la minimale rassegna di intrecci base riportata sopra, per capire quanto siano banali certe letture puramente economico-contabili o tecniciste specializzate, tendenti a definire «urbano» tutto ciò che in qualche modo appare soggetto ad alcuni, pochissimi di fatto, processi di trasformazione fra quelli elencati, che del resto neppure lontanamente arrivano a delineare la famosa massa critica e definirsi città in senso proprio. Certo, la cosiddetta urbanizzazione planetaria legge anche quei processi, ma solo perché in realtà paiono ripercorrere (pur in modo spesso schizofrenico e a dir poco monco) gli antichi percorsi di insediamento complesso che chiamiamo città. Ma resta il fatto che il cosiddetto suburbio o esurbio o diffusione o sprawl, caro per esempio a certi architetti che ci vedono «tracce» da seguire nei loro interessatissimi progetti di rammento edilizio, o a certa sociologia che orgogliosamente continua a ignorare gli aspetti dell’impatto ambientale e della sostenibilità, non ha le caratteristiche per poter essere definito un ambiente urbano, a partire dalla bassissima resilienza. In epoca di evidenti crisi di modelli di sviluppo, di esaurimento di cicli di crescita che si ritenevano infiniti, appare evidente agli osservatori qualificati come su tutto l’arco del ‘900 e oltre le città vere e proprie:
«si siano letteralmente svuotate di contenuti mentre cresceva il suburbio, molto più dei nuclei centrali. Una tendenza che ha iniziato a mostrare segnali di netta inversione a partire dai dati censuari 2011, con molti rappresentanti delle ultime generazioni e anche anziani senza figli alla ricerca di migliori relazioni sociali, all’interno di quartieri urbani. Ma per accompagnare questo rinascimento della città come luogo abitabile si devono affrontare nuove sfide, dalla resilienza al cambiamento climatico a quella ai disastri naturali ed emergenze». Aiuta forse, a comprendere meglio questi brevi passaggi, sapere che non si tratta né dell’appello dell’ennesimo ambientalista, urbanista o benintenzionato filantropo, ma del metodo generale con cui la Task Force per l’Innovazione Tecnologica della Casa Bianca ha affrontato i temi dello sviluppo, nel rapporto pubblicato pochi giorni fa, e disponibile al link. Con buona pace di chi continua, ignaro, a inventarsi sciocchezze come la smart land, che starebbe senza troppi giri di parole per sprawl attrezzato di reti di comunicazione, ennesimo aborto concettuale, magari per giustificarne l’esistenza oltre ogni ragionevole limite. Ma certo, non dobbiamo dimenticarci che la faccia tosta in quanto astuzia contadina è tradizionalmente antiurbana (risatine registrate).
Riferimenti:
President’s Council of Advisors on Science and Technology, Technology and the future of cities, rapporto febbraio 2016