In principio era il mito. Probabilmente è da quando qualcuno ha iniziato ad ammucchiare pietre in forma di città normale, quella che si costruisce man mano sulla pelle di chi la fa e la subisce, che l’orizzonte si popola inevitabilmente di città ideali. Anzi, forse è proprio nei periodi in cui le cose iniziano a migliorare e la vita si fa meno dura, che si incrementa la produzione di questi paradisi artificiosi. In fondo se si chiedesse al cittadino medio di accostare un periodo storico e il concetto di città ideale, la risposta più frequente (esclusi i boh e i si faccia i fatti suoi) sarebbe il Rinascimento. Dove, lei mi insegna, le città rinascevano già per fatti loro, e quella produzione teorico-pratica stava a testimoniare soprattutto una vitalità creativa di modelli di riferimento da applicare poi alla corrente valle di lacrime dello spazio urbano esistente: il palazzo un po’ meno ideale ma assai meglio di prima, e il mercato, e la cattedrale … Con l’esplosione energetica della metropoli industriale quel laboratorio asettico inizia però ad assomigliare parecchio a una variante personalizzata del Mayflower, in fuga creativa e definitiva verso lontane sponde anziché in appartato conclave meditatorio. Le utopie si inorgogliscono della propria irriproducibilità tecnica, e non avrebbero di per sé alcuna voglia di tornare in qualsiasi forma all’ovile, come oggi certa sinistra pura quanto molecolarizzata.
Figlioli prodighi sui generis
Fra le ultime utopie di era industriale classica, spicca la città giardino di Ebenezer Howard, probabilmente perché non nasce assolutamente come tale, anzi vorrebbe presentarsi come una specie di patchwork intelligente di tante idee socio-politiche, urbanistiche, ambientali, che l’hanno preceduta, con l’aggiunta del sano realismo che mancava a tutti quegli stravaganti fricchettoni di prima. Anche qui però, nonostante le intenzioni del profeta, si innesca in modi del tutto inattesi la sinergia perversa fra il momento del laboratorio/pensatoio isolato, e la sperimentazione diretta in città. O meglio, stavolta proprio senza città, perché sventolando allegri il vessillo corretto del cottage con giardino per le masse, i devoti distratti si dimenticano praticamente ogni altro componente dell’utopia, in pratica come se in ogni quartiere ci fosse un Falansterio Fourierista … che si limita a vendere cornetti caldi alla crema. Perché il cosiddetto realismo originario è la breccia dentro cui dilaga quasi da subito la banalizzazione: città giardino è lo slogan fortunato buono a tutto, e al contrario di tutto. Prima casette col tetto a punta e un po’ di abbaini (semplicemente scopiazzate dalla passione di Raymond Unwin per l’architettura vernacolare inglese) e poi ogni variante, senza badar troppo ai dettagli.
Innumerevoli tentativi di imitazione
Si può forse sorridere dell’altezzoso fastidio con cui le Corbusier tenta di avocare a sé e al proprio dilagante ego anche il fortunato slogan tardo ottocentesco, inventandosi l’ossimoro della Cité Jardin Vertical, ma il suo è solo un esempio degli innumerevoli tentativi di imitazione, che si estendono poi nello spazio e nel tempo sino a comprendere davvero ogni cosa. Dallo sprawl costiero globalizzato di seconde case, a banalissime lottizzazioni dormitorio ricalcate in stile paisley attorno a uno svincolo della superstrada, a più dignitosi ma disperatamente elitari quartieri recintati attorno a campi da golf, il marchio di città giardino non si nega a nessuno, almeno nei pieghevoli pubblicitari o nelle telepromozioni notturne. Ma onestamente stupisce la longevità del modello interpretativo personalizzato, dentro cui (forse proprio grazie alla ricchezza e coerenza originaria dell’idea di Howard) si riesce a far stare proprio di tutto. Ai nostri giorni va di gran moda usarlo per aggirare i vincoli ambientali del contenimento di consumo di suolo ed energia, forse perché insomma, città giardino già come parola ricompone le contraddizioni, o no?
Laboratorio vivente
Nella Gran Bretagna culla del modello originale nonché di tutte le sue principali evoluzioni novecentesche, oggi le forze politiche ed economiche bi-partisan paiono cavalcare la città giardino come “soluzione al problema della casa”, esattamente come avevano fatto certi palazzinari vittoriani d’epoca, coniando più veloci della luce il tipo garden suburb, e trovando immediatamente intellettuali compiacenti, il pensoso Raymond Unwin in testa. L’emergenza abitazioni ormai è cosa quasi banale, ma si scontrano due prospettive, una concretamente realista e l’altra ideologicamente finto-utopica, una che prova a rifare il percorso virtuoso del laboratorio ideale, l’altra che vorrebbe spacciarci con scaltrezza pubblicitaria l’antico spot vincente. Se servono case, come dice la legge domanda-offerta, si fanno le case, e per farle ci sono anche degli spazi già disponibili e parzialmente attrezzati, ovvero i vuoti urbani, abbondantissimi, e che chiedono a gran voce di essere riempiti. Ma quanto più comodo è, invece, andare ad aumentare artificiosamente il valore finanziario di terreni oggi liberi, destinandoli magari con procedura d’urgenza!) alle case per il popolo che tanto le brama. E allora ecco spuntare di nuovo lo slogan città giardino, gravido di storia e pure leggenda. Che saranno mai quattro sterpaglie, in confronto al problema della casa risolto a misura d’uomo sostenibile attento all’ambiente eccetera eccetera? Lo garantisce la parola stessa, città giardino, col suo alone biblico eterno. Purtroppo la patacca salta agli occhi, purtroppo per i pataccari si intende, e ce lo racconta per ultimo l’articolo linkato. Meditate gente, non c’è solo il furfantato all’italiana coi balconi delle new town terremotate che cascano: esiste una ideologia globalizzata a cui rispondere, se possibile con idee e non con urla.
Riferimenti:
Patrick Barkham, Britain’s housing crisis: are garden cities the answer? The Guardian, 1 ottobre 2014