La Città Palestra

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Foto F. Bottini

Qualche anno fa trionfava nelle vetrine un libro piuttosto ciarlatanesco intitolato La Profezia di Celestino, libro che magari in ennesima edizione super economica vende ancora benissimo negli scaffali dei supermercati, in quell’angolino dietro le bibite dove si va a frugare ogni tanto per curiosità. L’aggettivo ciarlatanesco quel libro se lo meritava – e se lo merita – almeno per un paio di motivi. Il primo riguarda il titolo dell’edizione italiana, che ha tradotto l’originale The Celestine Prophecy dello psicologo James Redfield a dir poco a modo suo, inventandosi di sana pianta un inesistente personaggio chiamato appunto Celestino, evocato nel lettore incauto, ma che evapora appena girata la copertina (il termine di Redfield si riferisce invece al cielo in senso filosofico-religioso, non c’è nessun profeta da nessuna parte). Il secondo motivo per cui quel libro è classificabile come ciarlatanesco suona più generale, e riguarda quell’atteggiamento che lo storico della medicina Giorgio Cosmacini chiama sfruttamento, più o meno giustificato e legittimo, di un contesto in cui non sono chiarissimi i confini tra conoscenza e pura supposizione: “Il ciarlatano o sedicente guaritore non profitta soltanto della credulità e fragilità altrui; profitta anche della ragione saccente e della scienza distante”.

In buona sostanza, promettere futuri luminosi, inveramento di celesti profezie, albe trionfali di verità e giustizia, sta sempre in precario equilibrio fra ciò che si sa e ciò che si suppone, o magari si finge di supporre ad hoc, giusto per illuminare di nuova luce una propria ideuzza che con quell’alba di verità a giustizia ha poco o nulla da spartire. Prendiamo il rapporto tra città e salute, da sempre piuttosto incline a oscillare paurosamente tra queste due polarità, della conoscenza e della supposizione, e quindi all’entrata in campo della ciarlataneria. Forse non tutti sanno che in buona sostanza l’urbanistica moderna nasce dall’incrocio virtuoso di ingegneria e medicina, quando un medico aggirandosi nelle vie di Londra devastata dal colera scoprì la correlazione fra alcune fontane e l’insorgere della malattia. Ne nacquero sia ricerche rapidamente sfociate nell’individuazione della cause del morbo, sia misure tecniche preventive per impedirne la diffusione. Almeno da allora in poi c’è questa specie di convivenza particolare, fra le innovazioni concentrate della nostra epoca moderna, e la loro sperimentazione complessa dentro il pentolone urbanistico e sociale della metropoli. Da un lato i laboratori delle scoperte, dall’altro quella specie di gabbia di cavie più o meno volontarie che è la città contemporanea.

Così come i cittadini individualmente elaborano poi una propria reazione alle novità sperimentate, stimolandone continuamente di nuove, anche la città come soggetto collettivo di anime, pietre, tubi e flussi, prova a interagire su grande scala: si chiamano modelli di sviluppo, in gergo. Assumono forma fisica, organizzativa o altro, e sono a loro volta oggetto di ricerca, sperimentazione, dibattito. La forma della città sana, ad esempio, che ovviamente nel tempo è andata un pochino più in là delle localizzazione e organizzazione delle fontane studiate dal dottor Snow nella dickensiana Londra del 1850 devastata dal colera. Si è per esempio chiarito non solo che acqua e aria pura in sé non bastano a rendere la città il posto ideale in cui abitare (infatti per lunghi decenni la gente se ne scappava via comunque appena possibile), ma che esiste uno stretto rapporto tra forme degli spazi, atteggiamenti, comportamenti, e relativa salute e benessere. Uno, uno solo, fra questi aspetti spaziali è la forma dello spazio pubblico, a partire dal genere più diffuso e pervasivo rappresentato dai marciapiedi e altri percorsi e ambiti pedonali.

A New York, città da sempre fortemente pervasa dalle innovazioni della modernità industriale (omnibus, treni e tram, metropolitane, automobili, per non parlare delle dimensioni degli isolati standard) che tendono a frammentare e isolare l’esperienza diretta del cittadino rispetto alla metropoli, anche sulla scia delle esperienze e studi di Jane Jacobs o William H. Whyte si sono sviluppate ricerche relative all’attività fisica quotidiana sulla strada. Uno degli ultimi prodotti di questo lavoro è la pubblicazione in due volumi di Active Design, promossa dall’Ufficio Urbanistica cittadino, e rivolta a tutti gli operatori pubblici e privati che concorrono alla produzione e gestione di ambienti chiave come i marciapiedi e relativi affacci. La cosa più importante è la centralità del pedone cittadino, ovvero mettere al centro non le esigenze e prospettive del progettista, costruttore, o automobilista, ma dell’utente in quanto tale.

Chi vive, abita il marciapiede deve potersi aggirare in una sorta di “locale” complesso e interagire al meglio con la complessità degli altri soggetti e relative scelte che vi convergono. Mentre di solito questi ambienti ricadono sotto la sola responsabilità di chi opera sulle strade, al massimo concepiti planimetricamente (e marginalmente rispetto alle carreggiate). Occorre invece provare a introdurre aspetti oggi assenti quali quelli sociologici, urbanistici in senso lato, architettonici, commerciali, ambientali e del verde, di un sistema a rete continuo e integrato. Significativamente, nel progetto di ricerca e relative linee guida “politiche” per il futuro è coinvolto a pieno titolo anche il settore Salute e Psicologia cittadino.

Appare abbastanza evidente dal piccolo esempio dei marciapiedi, come la relazione tra forma urbana, vita quotidiana e salute (fisica e psicologica) sia assai articolata, ma c’è la possibilità di attingere da almeno un secolo di studi, ahimè spesso sviluppati settorialmente, per verificare la coerenza di massima di alcune scelte e possibilità. Ad esempio il ruolo del verde, citato anche nel caso dei marciapiedi, che con le nuove conoscenze sanitarie, sociali, ambientali e ingegneristiche viene ad assumere compiti essenziali. Sin dal XIX secolo e dagli studi originari di architetti, medici, sociologi, si è ad esempio individuata non solo la funzione di polmone di parchi e giardini, ma il moltiplicarsi e articolarsi della medesima funzione quando invece di poli isolati gli spazi verdi assumono forma a rete continua o quantomeno correlata. Ricerche più recenti mettono poi in luce il ruolo fondamentale del verde anche come spazio vivo e interattivo sia per i rapporti sociali, sia per la produzione alimentare: salute fisica derivante da una buona alimentazione, e salute mentale derivante da buone relazioni di vicinato, unite da un unico spazio multifunzione.

Ruoli che valgono sia a piccola scala, diciamo di isolato e quartiere, sia alla dimensione urbana e oltre metropolitano-regionale. E del resto certa modellistica delle fasce verdi di interposizione ci arriva confermata e ribadita con poche varianti sin dalla nascita degli studi urbani moderni a metà del XIX secolo. A volte, per pure esigenze di contingente crescita economica, diciamo pure speculative, o per semplice ignoranza degli impatti reali, questo tipo di equilibrio viene compromesso da insediamenti di vario genere e dimensione, tali da interrompere reti continue, o impedire l’uso sociale degli spazi non più liberamente accessibili. Ma che dire quando appare abbastanza evidente il contrasto, la netta contrapposizione, fra gli scopi di questi insediamenti, e la salute collettiva comunque intesa? Il caso delle cosiddette Città della Salute, in questa prospettiva, è emblematico.

Da un lato abbiamo una modellistica e conoscenze abbastanza consolidate, che ci indicano (sommariamente, ma chiaramente) quali linee seguire per una Città Sana. Dall’altro progetti autodefiniti Città della Salute che vanno a occupare, che almeno vorrebbero occupare, spazi in netto contrasto con questi obiettivi di salute generale, perseguendo una idea propria, autoreferenziale di Salute. Ci viene detto in sostanza: non badate a un paio di secoli di conoscenze ed esperienze, fidatevi di noi, vi assicuriamo risultati strabilianti se avrete fede. Fede che noi potremmo anche avere, per pura ignoranza riguardo ai particolari di ciò che succede dentro quelle mura. Fede che però un pochino vacilla davanti alla determinazione di voler a tutti i costi stabilire un rapporto autoritario con la città. Esistono modelli di sviluppo, e queste Città della Salute li ignorano, e badate bene senza proporne di alternativi. Si va a interrompere una linea di riflessione, come un bambino che irrompe gridando dentro una stanza: avrà qualche motivo per farlo? Di solito si tratta solo di vitalità infantile, da capire, e considerare come tale. Altrimenti, siamo di fronte a ciarlatani, e si devono trattare come suggerisce il buon senso collettivo.

Riferimenti:

Sul sito del Planning Department di New York City sono scaricabili i due volumi del citato Active Design (e solo per restare a quella città e quel settore, si vedano per esempio gli studi sul rapporto fra salute e rete commerciale di quartiere) 

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