Uno spazio di relazione è un intreccio di flussi che determinano la qualità di molti luoghi, tendenzialmente unificandoli in una specie di massa critica. Questa massa critica assume diverse dimensioni, che nel caso della città tradizionalmente si possono articolare sulle tre scale del vicinato o quartiere, dell’area urbana, della regione metropolitana. Ovviamente anche le tre scale così definite, non sono affatto definite a ben vedere: cosa stiamo pensando rispetto alla parola «vicinato» ad esempio? Ci può essere un vicinato di cortile o poco più, e ce ne può essere un altro assai più largo ma altrettanto legittimamente inteso, che di cortili del genere ne comprende centinaia, migliaia, oltre a tutto ciò che sta tra l’uno e l’altro. Insomma si tratta di trovare anche qui un punto di intreccio valutabile condiviso per le masse critiche, che nel caso del quartiere è stato più o meno fissato all’inizio del ‘900 con la cosiddetta neighborhood unit sociologica. Attenzione alle specifiche, perché quell’aggettivo «sociologica» non è per nulla buttato lì a caso: serve infatti a distinguere il metodo sistematico di valutazione, dagli schemi tutti tecnici che ne sono stati ricavati in seguito, e che hanno interessato prevalentemente la progettazione achitettonico-urbanistica. Cioè un numero di abitanti, i relativi servizi, il verde, l’identità locale e/o la partecipazione diretta ecc. In origine, l’intuizione vincente era tutt’altra, e assai più fondamentale.
Il flusso della disponibilità individuale
Quando gli studi di sociologia urbana iniziano ad accorgersi della dimensione neighborhood, per caso o per forza si sta affermando negli stessi luoghi che loro studiano la mobilità meccanica di massa, soprattutto nella forma individuale dell’automobile, che alla fine diventerà per molti versi un fattore determinante per costruire la teoria spazio-flusso-identità del nodo quartiere. Il quale, senza farla troppo lunga, è definito più o meno dall’ambito in cui risulta comodo, sicuro, gradevole, spostarsi senza quell’appendice, al tempo stesso sempre più indispensabile per tutti. Il quartiere è ciò che mi appartiene spostandomi a piedi, la città è accessibile col mezzo meccanico individuale o collettivo, la regione metropolitana è lo spazio allargato ma sempre identitario (come stanno stabilendo altri studi sociologici sulla community, allargata proprio grazie alle auto) in cui il mezzo privato, con la sua penetrazione capillare, ha di fatto il monopolio dei flussi, e si aggiunge alle reti di urbanizzazione indispensabili come elettricità, acqua potabile, telefono. Tornando solo per un istante a quella dimensione minima del quartiere fissata più o meno «in negativo» dall’automobile, possiamo citare due esempi contemporanei in cui di fatto si torna alle origini: i quartieri sostenibili come quello più noto di Vauban a Friburgo, o le esperienze internazionali cosiddette di transit-oriented development, riprendono forme e contenuti proprio dai progetti novecenteschi di unità di vicinato, perché la chiave stava nel rapporto fra mobilità e disponibilità, non certo in formule demografiche o architettoniche.
Non senza auto, ma senza l’auto del ‘900
Visto che si è provato pur molto, molto schematicamente, a dare una prospettiva storica a questa breve riflessione, non dimentichiamo neppure che lo stesso veicolo privato a motore, già nel corso del XX secolo, ha abbondantemente dimostrato di non mantenere affatto tutte le promesse di costruttori, urbanisti, discipline sociali varie, evidenziando invece tantissimi problemi di invadenza davvero insopportabile. L’auto è pericolosa perché sottrae spazio – e tempo – alla società, è dannosa perché consuma risorse energetiche preziose e inquina il pianeta, è indirettamente dannosa in modo allargato perché distrae risorse e impegno (ad esempio realizzando infrastrutture dedicate costosissime e ingombranti e pericolose in sé) da altre opere più utili alla città e all’umanità che la abita. Ciò premesso, pare però urgente chiedersi: vogliamo diventare car-free buttando insieme all’acqua sporca anche tutti i mirabolanti vantaggi del veicolo individuale, attorno a cui abbiamo costruito una intera articolata civiltà, oppure diventare solo free liberandoci delle citate zavorre del pericolo, dell’inquinamento, del furto di spazio-tempo, dell’occupazione militare di quartieri città e regioni? Semplificando molto, come facevano originariamente e meritoriamente gli studiosi dei flussi e relazioni urbane: ci sono cose che si fanno coi nostri muscoli, e altre per cui abbiamo bisogno di una protesi a motore. La questione è la qualità di quella protesi, di quel motore, e di ciò che gli facciamo girare attorno: rimanere inchiodati al culto della bicicletta o della metropolitana, è un insulto al buon senso. Anche se questo contrasta con la pubblicità dei ciclisti, ovviamente.
Riferimenti :
Athlyn Cathcart-Keays, Will we ever get a truly car-free city? The Guardian, 9 dicembre 2015