Nel mondo ogni anno succede per circa un milione e duecentocinquantamila volte la stessa cosa: un cofano che sbatte o si accartoccia contro un corpo umano, a spese definitive del più debole. Nella maggior parte dei casi il corpo umano che ha la peggio si trova all’esterno del veicolo, era un pedone o un ciclista. Un milione e duecentocinquantamila morti (per non contare feriti e mutilati, che sono infinitamente di più), una specie di bilancio da enorme campo di battaglia, e tutto per via dell’andare un po’ più in fretta da qui a lì, in fondo, della cosiddetta velocità ed efficienza del traffico. Una volta, e magari in certi casi anche adesso, ci piegano in modi a modo loro convincenti che è il cosiddetto «prezzo da pagare al progresso», ma basta rifletterci un istante per scoprire qualcosa che non va. Non va neppure l’altra risposta, quella conservatrice e passatista, che replica in linea di massima quanto ci agitiamo per nulla, stiamocene a casa e staremo al sicuro: non uscire per strada equivale a non rischiare, oppure non usare l’auto, o usarla il minimo indispensabile. E tralasciamo qui l’altra risposta che risposta non è, ovvero la ringhiosa minaccia di sfracelli repressivi per chi provoca incidenti, pene gravissime, omicidio stradale come aggravante, niente attenuanti. Tralasciamo perché fanno contenti solo i vendicativi, o danno un po’ di giustizia alle vittime, ma lasciandole tali. La nostra idea sarebbe quella di evitarle, le vittime, non certo di affermare ideali di giustizia sopra le loro tombe, che è tutt’altro.
Da qui a lì: that’s the question
Perché facciamo tutti questi morti andando da qui a lì secondo i ritmi che ci impone la cosiddetta vita moderna? Si potrebbe rispondere perché si, si deve si può e si fa, ma non sarebbe una risposta. Anche perché la vera domanda suona: «perché ci spostiamo in quel modo, da qui a lì», in modo tale da fare un milione e duecentocinquantamila morti l’anno? Posta così, la questione apre uno scenario diverso. Oggi nel secolo/millennio delle città esiste una gigantesca spinta all’espansione urbana, sia dal punto di vista dell’edilizia che delle infrastrutture che connettono le funzioni pubbliche e private, economiche e sociali. Di norma ciò si traduce in strade, piazze, svincoli a livello o a quote differenziate: soluzione ingegneristica classica quanto fortemente meccanica e auto-centrica, da decenni, che il cittadino subisce quasi senza rendersene conto, e che sta alla base logica degli incidenti (i quali incidenti ovviamente non avvenivano in quei termini quando mancavano sia le auto che i loro prolungamenti territoriali). Ma ragionare sulla sicurezza solo in termini di intervento unicamente stradale vuol dire fiato corto, alimentare nuovo traffico, nuove vittime, nuove strade e infrastrutture, una spirale senza fine senza senso. C’è un’alternativa, ed è pensare in termini positivamente quanto negativamente meno auto-centrici, e più organicamente urbani: è la città l’obiettivo, non il traffico in sé, la forma dei quartieri e non delle sole strade, l’organizzazione delle funzioni e non i flussi che le collegano da un punto all’altro dove sono localizzate. Questo vuol dire agire per la sicurezza: gli interventi diretti su quelle canne di fucile che sono diventate le strade, o sulle pallottole che chiamiamo veicoli, possono venire dopo in ordine gerarchico. Cambiamo il QUI, cambiamo il suo rapporto col LI, e potremo modificare anche l’intermedio DA.
Porosità spazio-temporale
Se un tessuto urbano è ricco di possibilità di attraversamento, e se questo attraversamento può avvenire tra funzioni altamente differenziate e prossime, questo fa sì che al tempo stesso si incrementino le relazioni (caratteristica centrale della città e della civiltà urbana), facendo decrescere la necessità di spostamenti veloci dall’una all’altra. Non è un caso se l’ambiente della dispersione suburbana, con le funzioni segregate, le grandi distanze, la porosità minimale dei cul-de-sac, è anche la patria della cultura automobilistica e degli incidenti mortali che si trascina appresso. Porosità e possibilità di facile collegamento significa invece rete fittissima di percorsi e flussi in tutte le direzioni, spostamenti mediamente brevi (ma se si desidera anche efficientemente lunghissimi), molti intrecci fluidi, niente fondi ciechi. La multimodalità è una delle chiavi di questo tipo di organizzazione, e non la si persegue diventando appassionati del tram, della bicicletta o dello skateboard, ma in primo luogo organizzando mete auspicabili che si possano facilmente raggiungere in quel modo, e poi altrettanto facilmente cambiare mezzo.
I nodi determinano la rete
Ragionare prima di tutto in termini di funzioni, in termini diciamo urbanistici, prima che di rete della mobilità dall’una all’altra (come invece si fa di norma pensando alla griglia stradale «vuota» che separa gli isolati del «pieno» edilizio) consente di concepire poi a valle i collegamenti come tali, e non come vaghi flussi dentro quei canali predeterminati. Pedoni e ciclisti hanno così a disposizione una tabula rasa invece di doversi scavare canaletti interstiziali, il mezzo pubblico nasce e cresce a seconda degli scopi e non adattando/adattandosi a una situazione data, la stessa automobile giocando alla pari può trovare (certamente per la rete di collegamento ai suoi innegabili territori dispersi di monopolio) una nuova e auspicabile collocazione ideale. La nuova griglia variabile di quartieri a funzioni composite concepite secondo la mobilità dolce garantisce possibilità di convivenza ai servizi, alla residenza, alle attività, e i cosiddetti occhi sulla strada per l’altra sicurezza, quella contro i vari comportamenti antisociali oggi causa di tanti squilibri. In altre parole e per non farla troppo lunga – chi vuole entrare in dettagli si legga il rapporto integrato con tutte le sue cento e passa pagine – PRIMA pensiamo alla gente e alla città, e solo POI alle macchinette che sarebbero solo uno strumento per usarla al meglio. Che si tratti di quattro o due ruote, o magari dei nostri smartphone tanto più utili se usati senza stress da traffico.
Riferimenti:
AA.VV., Cities Safer by Design, World Resources Institute, 2015 (rapporto – 8,5Mb pdf – scaricabile direttamente da La Città Conquistatrice)