Pare piuttosto triste che in questa nostra era apparentemente aperta ad ogni possibilità di progresso (in forme davvero inimmaginabili solo pochissimi anni fa) la questione dell’identità nazionale, o locale, o più raramente sovranazionale, si debba sempre affiancare a quella miserabile della difesa di confini, in una forma o nell’altra, dall’invasione presunta di chi quell’identità non condivide. Come se chi affonda radici, o ritiene di affondarle, in un territorio, rifiutasse a prescindere non solo la possibilità che altri partecipino al medesimo processo di crescita e sviluppo, ma pretendesse di selezionare su base arbitraria (di questo si tratta) a chi appartengono la vita, il passato, il presente e il futuro. Al punto che lo stesso termine territorio, o spesso come si usa dire «i territori», viene ad assumere un senso piuttosto convesso ed esclusivo, chiuso su sé stesso ed eventualmente disponibile all’interazione solo a determinate, rigide regole decise a priori al suo interno. Non pensava certamente a questo Ildefonso Cerdà, compilando la sua seminale Teoria Generale dell’Urbanizzazione, o dopo di lui Patrick Geddes con l’approccio bio-geografico alla regione antropizzata, o altri teorici, da Gutkind a Gottmann, che avevano fatto del sistema insediativo-naturale aperto a scale intrecciate una specie di modello filosofico imprescindibile. Oggi pare di assistere al processo diametralmente opposto, con una umanità che addirittura a partire dai propri leader «visionari», sembra volersi chiudere in sé stessa, spaventata da tutto ciò che ha scoperto esistere extra moenia, mettendo il naso fuori dal ventre accogliente ma angusto dell’identità nota e familiare.
Scatole, reti, sistemi, conflitti
Dovrebbero forse bastare la storia e la teoria della pianificazione territoriale, evoluta anche attraverso i contributi e le modalità degli Autori citati, per far intuire quanto quell’idea di monade «autosufficiente» e prevalentemente rivolta al proprio interno, così come gli identitarismi di oggi paiono considerare l’impasto territorio-società non stiano in piedi se non con balzi fantasiosi verso le tenebre di una autodeterminazione che odora di superstizioso campanilismo. Quella stessa dimensione del quartiere, ovvero la comunità a cui spontaneamente pensiamo sin dall’infanzia appena oltre l’identità individuale-familiare, è ben diversa dall’antico villaggio rurale (quello storicamente introverso e immerso nel pernicioso «idiotismo della vita rustica») da cui effettivamente discende, perché si forma e si definisce proprio come camera di decompressione urbanistico-sociale verso la metropoli complessa. E poi a salire secondo le successive scale di sussidiarietà, alla dimensione comprensoriale, regionale e oltre, anche nelle forme dilatate e tendenzialmente a-spaziali che oggi di fatto consentono le comunicazioni immateriali e in una certa misura la grande accessibilità dei trasporti veloci per quelle fisiche. In sostanza, quantomeno là dove vige una omogeneità legislativo-normativa, ovvero a scala degli stati nazionali o delle federazioni formalizzate, l’antico auspicio ideologico della «patria» sembra realizzarsi ben oltre quella pura dimensione da un lato ideale e dall’altro di massa critica socioeconomica per il decollo dello sviluppo, come nelle teorie ottocentesche che presiedono alla formazione degli stati contemporanei.
Sussidiarietà dei piani a molte scale
In questa prospettiva, escono dalla pura teoria e dall’analisi scientifica critica anche quelle dimensioni complesse dette megalopoli o sistemi urbano-territoriali, che se all’epoca di Gottmann erano solo un definito organico campo di indagine, poi via via sono diventati oggetto di specifici programmi, e oggi potenzialmente di qualcosa di simile alla «comunità metropolitana» come la chiamava negli anni ’30 Roderick McKenzie. Salvo che le nuove dimensioni si estendono su varietà e quantità anche molto superiori a quelle della classica metropoli, comunque riconducibile a un bacino di pendolarismo quotidiano medio. Ma cambia anche, al crescere delle dimensioni, anche la cosiddetta pianificazione spaziale: né una specie di cugino maggiore della pianificazione urbana o regionale, e soprattutto non una variante dei grandi progetti che pure parrebbero analoghi, dei corridoi o direttrici di sviluppo. Lo spatial planning pare configurarsi come una sorta di allargamento delle pianificazioni strategiche locali, con forti componenti socioeconomiche, ma anche obiettivi di diritti, pari opportunità, e analoghi, in stretta integrazione agli assetti territoriali e reti, oltre che all’ambiente e alle risorse. Ma a differenza dei generici programmi di sviluppo a scala nazionale, contenitori di politiche ma che ad esse poi rinviano salvo rappresentarne una sintesi ed enunciato organico, una pianificazione spaziale di grande scala degna di questo nome si esprime attraverso un vero e proprio documento di piano, che è sempre interessante esaminare nell’insieme, specie nella capacità di produrre orientamenti, e infine rappresentare una base davvero «identitaria-territoriale», analoga a quella delle piccole patrie locali.
Riferimenti:
Governo di Irlanda, Ireland 2040 – Our Plan, bozza settembre 2017