L’anticittà confusa con la città è un classicissimo delle nostre prospettive sballate quando si tratta di insediamenti urbani. Lo è in particolare quando quel minestrone fra le pietre dell’urbs care ai progettisti edilizi e analoghi, e le atmosfere libere della polis cara ai cultori della relazionalità, si fa indigeribile per eccesso di ingredienti. Del resto con la complessità succede, ed è meglio abituarsi in tempo, a questo elaborato processo digestivo: il castello che oggi da turisti o abitanti non riusciamo a isolare dall’identità locale, di fatto un tempo isolato lo era, e tanto, era addirittura una specie di contrapposizione dialettica all’idea di insediamento locale, una sorta di astronave calata dal nulla sulla terra. E la stessa cosa si può dire di monasteri, più tardi di impianti produttivi, direzionali, commerciali, tutti allo stesso modo antiurbani nell’anima, perché eventuali contenuti sia della urbs che della polis pretendevano e pretendono di incorporarli, distorti, al proprio interno. Il motivo ufficiale, di solito, è quello tecnico, esattamente come per i castelli c’era quello strategico militare, o per i monasteri l’astrazione dal mondo per meditare, ma sta di fatto che ciascuna di queste astronavi è un assalto alle nostre forme di convivenza spontanee, ricche, complesse, e diciamo pure democratiche. Le quali forme di convivenza si dimostrano superiori man mano esattamente quelle strutture si svuotano di senso per pura dismissione filosofica, crisi esistenziale, obsolescenza esiziale.
L’ufficio nel parco
Sintesi fra il castello e il monastero quanto a funzioni, il complesso cosiddetto direzionale suburbano noto come office park discende direttamente dalle antiche tipologie di città-fabbrica, mediato dalla solita cultura automobilistica novecentesca. Architettonicamente di impianto vario, dal punto di vista delle planimetrie e della distribuzione dei volumi (stile razionalista o a padiglioni autonomi vagamente «panottici») il centro direzionale suburbano assume però rispetto agli uffici della company town un’aura mistica, ulteriormente enfatizzata dalla nuova figura di quello che William H. Whyte nel suo famosissimo libro definiva L’Uomo dell’Organizzazione. Ovvero, esattamente come negli altri vasi non comunicanti della sua esistenza, il ceto medio superiore novecentesco rinunciava a qualunque progetto di affermazione personale e individuale, per lanciarsi dentro la sicurezza di un ordine monastico «dalla culla alla tomba», in grado di garantirgli reddito e legittimazione sociale. Rinunciava alla sua individualità, questo Fantozzi di massa novecentesco, negli infiniti aspetti indagati scientificamente da Whyte, rinunciando all’ambiente complesso e interattivo urbano: prima con la casetta segregata unifamiliare, poi appunto con quel tempio dell’organizzazione produttiva dell’ufficio altrettanto segregato, e in ultimo con la piazza privatizzata dello shopping mall, più orientata almeno all’inizio alla sua controparte femminile casalinga. Significativo, che proprio al culmine di certa enfasi liberista che dovrebbe invece liberarlo, lo spirito animale individuale del capitalismo (pur nell’ideologia della competizione fine a sé stessa e dell’autoimprenditorialità coatta) crolli tutta la congerie di flowchart organizzative di impresa, tutte evidentemente pensate confondendo la urbs fisica della posizione delle scrivanie, con la polis dei ruoli e delle relazioni che dovrebbero essere la chiave autentica del modello. In sintesi le ultime generazioni non sanno che farsene, del baraccone office park, così come della villetta o dello shopping mall in mezzo a uno svincolo.
Crollano le mura virtuali
Il processo è quello noto nell’era moderna, almeno da quando con l’avvento delle armi da fuoco, poi dei bombardieri volanti, cambiano le forme fisiche della città e se ne estendono alcuni aspetti sul territorio: si dismette qualcosa, e se ne fa un’altra, lasciando che il tempo provi a fare il galantuomo coi residui. Oggi però esiste un fattore nuovo, ed è la finitezza di risorse, magari anche economiche e sociali oltre che ambientali ed energetiche. Dismettere gli antichi monasteri e castelli (fabbriche e complessi per uffici) sparsi nel territorio automobilistico a sprawl a favore di nuovi quartieri urbani mixed-use, non può avvenire per abbandono e sperando che il solito «mercato» si faccia carico del riuso, o del riciclaggio delle fasce sociali lasciate a sé stesse dall’ascesa dei cosiddetti millennials metropolitani. Ergo sarebbe il caso al più presto di adottare politiche bifronti: la prima è quella di favorire certamente l’insediarsi di quartieri compositi nelle aree di riqualificazione urbana (o suburban retrofit a densificazione del caso), accoglienti non solo per la specifica fascia sociale emergente e relative economie, ma anche per tutto quanto finirebbe altrimenti per alimentare nuovo sprawl e/o diverse dismissioni. La seconda è di definire strategie, ad esempio nel quadro del contrasto al consumo di suolo per funzioni urbane disperse, che indichino modi di recupero o riqualificazione dei contenitori office park e analoghi abbandonati, o sottoutilizzati. Visto il contesto, parrebbe ad esempio il caso di esaminare sia funzioni miste (introducendo residenza in una logica inversa di suburban retrofitting), sia reintegrazione secondo il modello produttivo agricolo tecnologico verticale, di cui l’originaria funzione direzionale o di laboratorio sarebbe un ottimo nucleo. Per inciso, un percorso analogo è quello che interessa le analoghe strutture degli shopping mall dismessi o sottoutilizzati. L’analogia con la conversione degli antichi bastioni militari delle nostre città in viali di passeggio e parchi, in fondo, dovrebbe saltare agli occhi.
Riferimenti:
Dan Zak, «The old suburban office park is the new American ghost town», The Washington Post, 20 luglio 2015