La (filologica) città giardino del futuro

Esiste un modello di riferimento certo, per quel fortunatissimo ossimoro di origine biblica che si chiama Città Giardino? Moltissimi risponderebbero a colpo sicuro: sì, ovvio, ed è la sintesi sociale, ambientale e territoriale operata da Ebenezer Howard col suo opuscolo-programma a cavallo dei due secoli scorsi: To-morrow, a peaceful path to real reform. Uno sguardo a ciò che accade prima e dopo questa pur fondamentale sintesi, sembrerebbe negarne la validità in assoluto. Un prima e un dopo puntualmente caratterizzati, se non addirittura del tutto appiattiti, sul banalissimo modello suburbano, con la «città» ridotta agli elementi architettonici, sparsa su un «giardino» a sua volta ridotto a quelli paesaggistici. Basta insomma riflettere un istante sulla distanza siderale, in termini di pura complessità, fra l’idea di insediamento umano e quella di edilizia, e poi fra quelle di ambiente e di amenity o scorci panoramici, per cogliere quanto quel lodevolissimo e fondamentale progetto riformista provasse a operare una sintesi che in fondo non era affatto tale, o se non altro stava parecchio sbilanciata verso il campo etico-politico a cui faceva riferimento principale lo stesso Howard. E che poi contribuì non poco allo scivolamento quasi immediato (già nel 1905 usciva un libro «di destra» conservatore sul medesimo tema, e comunque Raymond Unwin stesso passerà subito armi e bagagli alla progettazione suburbana e filantropica con Hampstead) dentro il solito mainstream dei villini immersi nel verde di cui pullulava tutta la cultura spaziale ottocentesca dopo l’esplosione industriale urbana.

Equilibri

Diciamo pure che, se un piccolo (o medio, concediamo) vantaggio la «città giardino istituzionale» ce l’ha, rispetto a tutti gli infiniti tentativi di imitazione che la precedono e la seguono, in pratica dall’inizio del XIX sino agli sgoccioli del XX secolo, è quello di riconoscere implicitamente i propri limiti. Howard parte da un programma di riforma sociale e politico sterminato, ed è quello che sostanzialmente gli interessa, e rappresenta il suo faro guida, ovvero migliorare le condizioni della classe operaia urbana rivoluzionando lo stesso concetto di ambiente urbano, attraverso un decentramento residenziale, produttivo, entro un processo di riorganizzazione territoriale di scala metropolitana allargata. E già qui si nota, la citata consapevolezza dei limiti, perché esiste un obiettivo da perseguire attraverso uno strumento: la riforma inseguita modificando la forma, società e territorio indissolubilmente legate ma due entità diverse. Poi arriva il crollo finale (di questo si tratta) ed è il progetto spaziale vero e proprio affidato alla sensibilità di Raymond Unwin e del socio di studio Barry Parker, che in sostanza già in buona parte prelude al ritorno all’ordine suburbano dentro il mainstream delle varie città giardino ante litteram. Ma torniamo però allo snodo centrale, a quelle famosissime immagini dei «diagrammi a-spaziali», come sottolineato nelle didascalie, che però contengono nella forma più piana ed evidente le tre componenti sociale, ambientale, economico-organizzativa, i cui equilibri poi saranno sconvolti prima nel progetto e poi nella sua lunga genesi. Sta qui, il vero senso dell’ossimoro, di fatto il medesimo perseguito assai più imperfettamente anche dagli altri tentativi di imitazione: una forma insediativa-organizzativa socialmente equilibrata e ambientalmente sostenibile. E veniamo finalmente all’oggi.

Oggi

Oggi quando, di fronte al problema urbano che ha ormai assunto scala planetaria, ancora ogni tanto qualcuno se ne esce con un «e se recuperassimo l’idea di città giardino di Howard»? Magari subito adottato o contestato da questa o quella prospettiva politica. E quasi automaticamente il concetto in realtà scavalca e schiva il vero e qui sottolineato merito, del riformista otto-novecentesco, ovvero di aver messo in luce le autentiche componenti essenziali dell’ossimoro, di cui quella spaziale-urbana è soltanto declinazione parziale e non necessariamente centrale. Forse la domanda si potrebbe porre assai più correttamente chiedendosi: nel contesto attuale degli equilibri tra questione sociale-politica-economica, e problemi ambientali e dell’urbanizzazione (quella globale, inevitabile, legata ad esempio al cambiamento climatico, ma non solo), che spunto possiamo trarre davvero dagli schemi diagrammatici così ben costruiti da Howard? Parrebbe fuor di dubbio, ad esempio, che la centralità della riforma dovrebbe spostarsi parecchio, dagli aspetti della condizione socioeconomica umana, verso le sue essenziali basi bio-ecologiche: clima, territorio, risorse. Che poi naturalmente a valle si trascinano il resto, dato che non esiste ambiente senza società, senza spazio, senza relazioni, e via di seguito. E non è di fatto un progetto del tutto legittimamente declinazione della città giardino, e anzi di grandissima scala e rilevanza, quello delle cosiddette «città spugna» deliberate dal governo cinese e brevemente descritte nell’articolo di seguito? In sostanza, una volta appurato che l’incremento demografico è ineluttabile, che l’espansione urbana (e non ad esempio la dispersione) ne è il portato più razionale, non ha gran senso riflettere soprattutto sugli equilibri ambientali e territoriali indotti dagli eventi estremi, dal ciclo delle acque, dal recupero di biodiversità anche nelle forme semiartificializzate della grande metropoli, anzi della megalopoli? Sembra, davvero, tutto molto, molto lineare, quasi banale. E lasciamo che i cultori degli abbaini, dei cottage con giardino e di altri parafernali tradizionalisti cari al gusto vernacolare del compianto Raymond Unwin, si divertano come preferiscono. Ben sapendo che non stanno affatto parlando di «città giardino», ma di architetture popolari.

Riferimenti:
Asit K Biswas, Kris Hartley, Amid urban sprawl, China builds ‘sponge cities’ to soak up heavy rainfall, Channel News Asia, 8 settembre 2017

Immagini da: Alfred Richard Sennet, Garden Cities in Theory and Practice, London 1905 (che in pratica in un approccio liberale ed efficientista da subito cancellava qualunque centralità della questione sociale, e anche di quella territoriale in senso stretto, mantenendo quella architettonico-edilizia e in parte urbanistica)

 

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