L’introduzione delle macchine nei processi del lavoro umano, via via a sostituire sempre più mansioni fino a quella che chiamiamo correntemente automazione (ovvero una intera fase di lavoro svolta senza interventi diretti da parte di esseri umani), ha notoriamente e puntualmente un duplice effetto. Il primo e fondamentale è quello di «liberare» da quelle particolari mansioni, ma il secondo è di lasciare poi i liberati a chiedersi che farne esattamente della propria coatta libertà. E la reazione spontanea di chi, in genere per decisione altrui e non discussa coi diretti interessati, si vede levare da sotto i piedi la relativa certezza della propria utilità e sostentamento, tendenzialmente è sempre quella del paleoindustriale Ned Ludd. Che come racconta la canzone popolare davanti alle innovazioni meccaniche della sua epoca: «when in the work he destruction employs / Himself to no method confines /By fire and by water he gets them destroyed /For the elements aid his designs». Ma dato che esiste una cosa detta dialettica, da una tesi e una antitesi esce sempre qualche genere di sintesi, e dalle mazzate di Ludd contro le macchine e l’innovazione imposta dai padroni del vapore escono ancora altre innovazioni, stavolta organizzative, in grado di allargare i vantaggi di quelle tecnologiche anche a chi in un primo tempo ne era stato brutalmente escluso.
Automazione, innovazione, conoscenza
Su tutto l’arco di tempo, non indifferente, in cui il discorso sulla riqualificazione socio-territoriale postindustriale ruotava attorno alle professioni variamente creative e alla cosiddetta economia della conoscenza, certa fede al limite della scemenza nelle mani invisibili del mercato ha impedito di considerare debitamente lo iato fra quei due momenti. Ovvero tra il micidiale impatto dell’innovazione sul lavoro, levando letteralmente da sotto il sedere il mondo a chi non era stato prescelto come creative class, e una piuttosto probabile forma di ricomposizione urbana dentro cui, pur permanendo i conflitti, ci si riposizionasse accettando la fine di alcune qualifiche professionali del tutto delegittimate, e la transazione verso nuove frontiere (e conflitti). Così la trasformazione delle attività è avvenuta su due piani lontanissimi, cosa comoda per chi specula proprio sulle distanze, ma dannosa per la convivenza e l’inclusione. Lavori resi obsoleti da automazione e innovazione, o comunque fortemente a rischio di ricatti e riorganizzazioni al ribasso, letteralmente spazzati sotto il tappeto della società urbana, e tranquillamente espulsi da enormi zone gentrificate, con la scusa che quelli erano il nuovo motore del cambiamento. Spesso negando l’evidenza della povertà suburbana, che è la vera immagine speculare di questo stato delle cose, e addirittura negando il crollo verticale di ruoli sociali ancora indispensabili, ma a quanto pare sganciati dalla vita materiale di chi li svolge. Non solo gli schiavi delle consegne in bicicletta o della logistica a cottimo, ma anche infermieri, sicurezza, insegnanti, che non guadagnano di fatto di che «vivere», almeno all’altezza media dei creativi.
L’orribile zoning sociale dell’innovazione
E ci vogliono le grandi elaborazioni oggettive di dati specialistiche, oggi, per farsi ascoltare anche quando si presenta l’evidenza, che a quanto pare non viene percepita se non in quella forma contabile di formule. Gli altri sintomi di disagio passano inosservati, o al massimo rientrano fuggevolmente in qualche «passivo di bilancio» dei comparti aziendali, che nessuno nota. Oggi le analisi quantitative dicono che, dati alla mano, esiste un rapporto diretto fra la capacità di innovare dei territori, espressa in numero di brevetti, e quota di segregazione sociale territoriale, proprio quella dei quartieri dove la mamma dice di non andare che è pericoloso, dove le fronzute propaggini di qualche «High Line» frequentata da turisti affluenti cedono spazio a strade con le buche, ringhiere arrugginite o peggio. E tutto o quasi perché il mitico libero mercato non vuol certo rinunciare alla scoperta del secolo, quell’uso meccanico e a vasi comunicanti dello zoning esclusivo, che inventato per proteggere la collettività dalla speculazione edilizia, ha finito invece per trasformarsi in attrezzo acuminato di speculazione socioeconomica sulla pelle dei più. Salvo il pannicello caldo, il capitalismo compassionevole, di quello inclusionary zoning che poi si esprime negli ingressi sul retro di serie B per chi abita quegli alloggi convenzionati. Anche il profeta massimo delle economie urbane della conoscenza Richard Florida lo ha scoperto, il guaio, e ci ha scritto sopra l’ennesimo best seller. Aspettiamo ancora la risposta degli esclusi dai diritti d’autore.
Riferimenti:
Enrico Berkes, Ruben Gaetani, Income Segregation and Rise of the Knowledge Economy, bozza 11 ottobre 2017 (caricato direttamente dagli Autori in Drive)
La citazione della canzone popolare era (ovvio, ma sempre meglio specificare) da Chumbawamba, The Triumph Of General Ludd