L’affermazione di una certa idea di urbanistica, e di piano regolatore, è il risultato di un conflitto, che si sviluppa in Italia parallelamente al trionfo del fascismo, ed insieme il frutto di una precisa scelta “politica” tra due opzioni. La storia della legge urbanistica nazionale, che introduce l’idea di piano generale esteso indefinitamente nel tempo e nello spazio, è insieme anche la storia del prevalere di un’opzione su un’altra, e del sostituirsi di nuove contraddizioni a quelle antiche, che avevano generato il conflitto.
Negli anni del primo dopoguerra, cresce l’interesse per le città, per il loro futuro, per le strategie da adottare e le relative conoscenze scientifiche e tecniche da mettere in campo. Due punti di vista si fronteggiano. Da un lato un approccio vicino alle esigenze dei municipi, attento alla multidisciplinarità, ma che eredita le “colpe” di una cultura accusata di essere burocratica, tecnicista, poco sensibile alla storia e alle istanze sociali emergenti. D’altro canto, gli architetti, portatori di un punto di vista maturato lentamente a cavallo tra i due secoli, ma che ora ha una nuova legittimazione professionale, che intende allargare al campo della città nel suo insieme.1 Chiameremo urbanismo l’approccio municipalista allo studio della città, per distinguerlo dalla urbanistica degli architetti.
La Mostra di Attività Municipale di Vercelli del 19242, o il congresso di “urbanesimo” di Torino del 19263, sono occasioni di visibilità e rilancio dell’urbanismo. A Torino il segretario comunale Silvio Ardy propone una scuola/associazione di funzionari a scala nazionale,4, e parallelamente su iniziativa di Cesare Albertini si costituisce a Milano con riconoscimento internazionale la Associazione Nazionale per l’Abitazione e i Piani Regolatori5.
Semplificando al massimo, l’urbanismo si articola secondo dodici linee di azione, tante quante dovrebbero essere le sezioni dei servizi tecnici comunali6. In questo spazio si colloca l’azione delle varie professionalità, interne o esterne all’amministrazione ma con ruoli ben distinti, ferma restando la centralità del ruolo decisionale politico. L’unitarietà di azione è quindi da ricercarsi nell’equilibrio con cui i vari aspetti progettuali e gestionali si collocano via via nel processo di attuazione, piuttosto che nella sola “organicità” di un’idea prefigurata di spazio fisico.
Al “dodecalogo” dell’urbanismo, Gustavo Giovannoni indirettamente contrappone in un “decalogo” l’idea di piano degli architetti/urbanisti: piano regionale; piano regolatore generale comunale; piano dei quartieri di espansione; piano di diradamento e valorizzazione del centro storico; distribuzione delle funzioni per zone; coordinamento del piano stradale e di azzonamento con un piano del traffico7. Sono gli elementi base della “ricetta” che si sta imponendo nell’approccio alla città, e negli anni a venire sarà perfezionata, prima nel Bando tipo per concorsi di piano regolatore, poi nel dibattito per la legge urbanistica.
La prevalenza dell’urbanistica sull’urbanismo ha sanzione ufficiosa al XII Congresso Internazionale dell’Abitazione e dei Piani Regolatori, convocato a Roma sul tema dei centri antichi nel 1929. L’intervento di Cesare Chiodi ben riassume lo stato del dibattito nazionale: buone intenzioni, rare esperienze concrete, nessuna azione istituzionale. Oltre e sopra i confini amministrativi, agiscono le forze economiche, occorre affrontare la questione spostandola dalla scala comunale a quella metropolitana8. La “regione” posta da Giovannoni in apertura al suo decalogo diventa così elemento costante di riferimento, senza che si discuta delle questioni amministrative, o semplicemente geografiche. Questi temi, affrontati a Torino nel 1926, resteranno, semplicemente, in sospeso.
Resta comunque, ancora da tradurre in legge qualunque idea di piano, regionale e non, diversa da quella del 1865, via via definita e innovata per frammenti, in modo insoddisfacente, a definire un piano tutt’altro che “generale”. Gli studi sulla riforma dell’esproprio per pubblica utilità, pubblicati nel 19289, deludono la cultura urbanistica italiana. Ci si aspettava uno stimolo a procedere in direzione almeno di un abbozzo di legge “urbanistica”, ma lo sviluppo delle città è quasi ignorato dai legislatori10. Appare evidente che per la legittimazione della disciplina uno stretto collegamento con i meccanismi gestionali rappresenta una tara: molto meglio scorporare le norme sui piani regolatori da quelle sull’espropriazione, e affermare almeno in linea di principio la nuova idea di città11.
Gli urbanisti ritengono improcrastinabile una legge generale, meglio se modellata sul “decalogo” disciplinare. Solo per fare un esempio pratico di questa urgenza, a cinquant’anni dal dibattito sul risanamento di Napoli esiste ancora all’ordine del giorno una urgente questione igienica urbana, al punto che «si comprende come l’urbanista e il medico sociale siano dei veri alleati»12. Il tema della città “malata”, richiama la questione del decentramento, dei relativi piani regionali: unico concreto strumento di bonifica, attraverso la modernizzazione delle campagne e l’eliminazione del divario tra le qualità della vita13. Una singolare proposta in questo senso, è quella sostenuta da L’Industria, che propone, né più né meno, un modello decentrato per company towns14. È un’interpretazione nemmeno troppo forzata del pensiero di Giovannoni: là dove nelle «Questioni urbanistiche» si indicava la centralità dell’impresa nel determinare il successo o il fallimento di un piano, ora L’Industria propone l’interesse privato anche come promotore/controllore dello sviluppo. In questo contesto nasce l’Istituto Nazionale di Urbanistica, e si emargina in buona parte l’urbanismo, centrato sulle professionalità interne ai municipi. Contemporaneamente, assumono grande visibilità i concorsi di piano regolatore, le prime realizzazioni nei centri cittadini, e nei nuclei di fondazione, la richiesta di una legge. Su quest’ultimo aspetto, si concentra la maggior parte delle aspettative.
Istituzioni e associazioni lavorano alacremente15, sostenute dal ministro dei Lavori Pubblici, Araldo Di Crollalanza, che istituisce una Commissione ad hoc16 con il compito di dare forma di articolato alla nuova idea di città e di urbanistica17, Il piano della città moderna, della città fascista, dovrà articolarsi secondo tre zone distinte: l’area edificata, indicando le trasformazioni degli spazi saturi e di quelli ancora disponibili; l’espansione, studiando in base all’incremento demografico le linee generali dei nuovi quartieri; l’area rurale, soggetta o meno a futura urbanizzazione. Né più, né meno, che lo schema di massima del “decalogo”, o di uno qualunque dei bandi di concorso che le riviste pubblicano ogni mese. Uno schema di ampio respiro che accoglie, anche se in forme piuttosto confuse, l’idea di regional planning18, per lo sviluppo delle grandi reti infrastrutturali, il sistema dei centri minori, la localizzazione produttiva, la tutela ambientale. Le aspettative dell’INU sulla legge urbanistica, però, devono fare i conti con le necessità di carriera politica del suo maggiore sponsor: per evitare un controproducente scontro con interessi confliggenti (militari, industriali, ferrovie), Crollalanza ritira il progetto.
Fallito il primo approccio istituzionale, l’urbanistica punta sull’ampliamento del consenso sociale. I concorsi di piano regolatore si trasformano in una sorta di laboratorio, e la città italiana sembra vivere soprattutto sulle pagine delle riviste specializzate dove si restringe lo spazio dedicato alle questioni teorico/istituzionali, mentre si dilata e ristruttura quello dedicato alle singole città, alle mostre degli elaborati presentati ai concorsi, alle spigolature dei giornali locali19. Questa strategia, anche se in piccolo, necessita di strumenti normativi e di unificazione nazionale, come il Bando Tipo per concorsi di piano regolatore, e l’Annuario delle Città Italiane20, per il controllo qualitativo dei piani, e una relativa garanzia “scientifica” nell’impostazione.
La neonata urbanistica rurale convive con l’idea secondo cui «L’urbanesimo è il fenomeno che accompagna l’ascendere della nostra civiltà e l’intensificazione di tutte le manifestazioni umane … annientarlo vorrebbe dire retrocedere»21. Ma l’antiurbanesimo sarà il tema centrale, se non altro per visibilità, al primo Congresso nazionale INU, convocato a Roma nel 193722. Anche l’intellettuale progressista Giuseppe Bottai, propone «l’urbanistica come antiurbanesimo, come antidoto dell’urbanesimo»23. In generale, il Congresso potrebbe apparire il sintomo di uno stallo nel dibattito. La stessa urbanistica rurale è presentata come «sistemazione igienico-edilizia e organizzazione dei servizi pubblici nella campagna nell’ambito del piano regionale»24: definizione ineccepibile, ma piuttosto generica in una sede di dibattito specializzato. Ma va considerato che il senso del congresso è, soprattutto, politico. Le forze tecniche e culturali italiane si contano: ai funzionari, accademici e professionisti, si affiancano ora amministratori, tecnici, intellettuali, la pubblica opinione più informata.
Con accresciuto potere contrattuale, si invoca l’approvazione della legge nazionale che ora, indipendentemente dai contenuti, appare anche come spazio di interazione delle diverse anime della cultura urbanistica cresciute in questi anni. È del 1938 un significativo cambio di “nome”: visto che la dizione “piani regionali” disturba la cultura centralistica di qualche gerarca, ci si affretta a ribattezzarli “territoriali”25, senza chiarirne ancora una volta estensione e autorità preposte.
La fine degli anni Trenta sancisce il ritorno dei temi istituzionali al centro del dibattito26, ma anche una vera e propria rivincita della città, ovvero dei temi che oltre la cortina fumogena dell’antiurbanesimo occupano la maggior parte delle ragionevoli aspettative professionali. Basta osservare, ad esempio, la Tavola sinottica dell’urbanistica che Piero Bottoni propone alla Triennale27, e l’interpretazione del tema del decentramento nel Piano provinciale per l’abitazione operaia28, che della tavola è figlio legittimo, per toccare con mano il nocciolo di buona parte della cultura del piano italiana. Non borghi rurali né idilli pastorali, ma immagini decisamente urbane, pur nella logica della bassa densità, dell’integrazione agro-industria, insomma di quanto intelligentemente era stato definito intercittà al congresso INU. I centri urbani, anche quelli medi, crescono in termini di popolazione, e di ruolo, e questo non scandalizza, anzi è considerato dagli operatori economici tutto sommato un buon segno29.
Critica Fascista, diretta da Giuseppe Bottai, esamina la questione urbana, con una serie di articoli dedicati alla «funzione sociale dell’urbanistica», ospitando tra gli altri due contributi di Vincenzo Civico, che ripercorrono l’intero arco del rapporto tra deurbanamento, ideologia, sviluppo economico, e recuperano i temi della localizzazione industriale e del piano regionale30. Non sembra più l’epoca della Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista, come Civico stesso aveva intitolato un suo intervento nel 1937. Ora, molto più ragionevolmente, egli sostiene che un piano deve tenere massimo conto delle attività produttive e della scala a cui operano le maggiori forze economiche. Finita l’epoca della radicalità, dei proclami, è il momento del realismo e della contrattazione, come ben sa l’ingegner Giuseppe Gorla, neoministro dei Lavori Pubblici che ha deciso di farsi carico dell’antico progetto Di Crollalanza per una legge urbanistica nazionale.
Riecheggiano le precisazioni del decalogo giovannoniano: «non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, … ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie»31. A queste “provvidenze” e “combinazioni”, come aveva imparato Crollalanza e come ben sa Gorla, si aggiunge l’intreccio di interessi pregiudizialmente contrari all’idea di piano sottesa alla legge urbanistica. Ma al contrario del Crollalanza, politico “puro”, Gorla è indirettamente coinvolto nella cultura urbanistica, e ritiene di aver ricevuto in questo senso un mandato pieno32. Così, pur tra numerosi conflitti, non solo si affermano i principi generali già maturi nel progetto del 1932, ma la struttura della legge arriva a coincidere quasi perfettamente con il decalogo del Giovannoni, con gli schemi dei bandi di concorso, insomma con la raffigurazione del piano ideale, così come almeno quindici anni di dibattito hanno contribuito a perfezionare. Ma, insieme a questa struttura, la legge si porta appresso anche una tara ideologica, figlia tra l’altro anche dei conflitti che, alla fine degli anni Venti, avevano visto l’urbanismo municipalista sconfitto dall’urbanistica dei professionisti. Forse anche a questa tara è da attribuirsi l’isolamento che circonda la legge dopo l’approvazione e che proseguirà33: «una legge che si ponga al di là dei traguardi già conseguiti dai conflitti sociali … è destinata a rimanere sulla carta»34.
(brani estratti da: F. Bottini, Dalla periferia al centro. Idee per la città e la «city», in Storia dell’Architettura Italiana: il primo Novecento, Electa 2005 – Dal medesimo saggio, in questo sito anche i paragrafi dedicati alle trasformazioni terziarie centrali di Torino, Milano, Bari, Genova tra le due guerre )
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